Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione – Intervista a Valerio Magrelli

“È antico racconto, o nomoteta, da noialtri sempre ripetuto e a tutti universalmente accetto, che il poeta, quando siede sul tripode della Musa, non è in senno, ma come fontana lascia prontamente scorrere ciò che viene da su…”.  Queste sono parole che Platone lascia esprimere a un poeta nel IV libro delle Leggi (719c 1-5) e che delineano quel procedimento poetico che accomuna le testimonianze letterarie nel mondo antico, a partire dai più noti proemi epici. 

Sebbene sia inattuale riproporre oggi il binomio Muse-Poeta e ancor di più immaginarsi il secondo termine come pura voce del primo di matrice mantica, crediamo che resti in ogni caso pertinente poter tornare a parlare di ispirazione, non già per riaffermare l’elezione delə poetə nella sua sensibilità, quanto per riflettere e riappropriarsi della dimensione esperienziale e pratica, del fare, etimologicamente legata alla stessa parola poesia. 

Quando a Leopardi sopraggiungeva «un’ispirazione», in due minuti formava il «disegno» e la «distribuzione» di tutto il componimento. Poi aspettava che gli tornasse un altro «momento di vena» (ma di solito succedeva solo dopo qualche mese) e una volta tornatogli si poneva a comporre con «tanta lentezza» che non gli era possibile terminare una poesia, anche brevissima, in meno di due o tre settimane. Con molta convinzione afferma che questo è il suo metodo e che «se l’ispirazione non mi nasce da sé, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello».[1]

Dare una definizione univoca dell’ispirazione ci pare oggi un’operazione avventata: non è quello che stiamo cercando. E non stiamo neppure rimpiangendo una postura d’altri tempi. Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcunə autorə a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. 

[1] A Giuseppe Melchiorri, Recanati 5 Marzo 1824, in G. Leopardi, Lettere, a cura e con un saggio introduttivo di R. Damiani, Milano, Mondadori, 2006, pp. 468-469.

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intervista a Valerio Magrelli

Ad oggi, ha ancora senso parlare di ispirazione e interrogarsi sulle questioni pratiche connesse al momento immediatamente precedente alla stesura di un testo poetico?

Penso a Sanguineti e a una sua battuta su ispirazione e traspirazione. In Che cos’è la poesia? (Sossella 2005, Giunti 2013) ho in un certo senso voluto rispondere a quella battuta. L’ispirazione esiste perché semplicemente è un dato di fatto. Perché prendo adesso la penna o il computer, e non mezz’ora fa? Credo che l’ispirazione non sia altro che il momento in cui si avvera un allineamento di materiali, di funzioni: una costellazione neurale. Dunque sì rivendico, anche se in maniera non tanto romantica quanto comportamentale, l’esistenza di questi momenti, che andrebbero accuditi. 

Quando e come avviene l’ispirazione? Ci sono, nel suo caso, delle situazioni spazio-temporali, delle componenti fisiologiche o delle occasioni che possono favorirla? 

Tra un mese dovrebbe uscire un libro che raccoglie, dopo otto anni, i miei testi. Ce n’è uno proprio sull’ispirazione. Parla del momento in cui io ho dimenticato una poesia: scrivo «È la seconda volta in vita mia, / che scordo una poesia». E inizio a riflettere : che cosa ho scordato? Io ho dovuto prendere la patente nautica e per farlo ho studiato a lungo la trigonometria. Ecco, per me l’ispirazione funziona allo stesso modo. Non è altro che un tracciato sinaptico, il momento in cui un ricordo, una lettura, un profumo, la madeleine di Proust, i fosfeni di Zanzotto si allineano con un pattern linguistico. E un tracciato neurale sub specie linguistica. Quando questo accade, scocca come un ricordo, come un déjà-vu. Forse l’ispirazione è proprio un déjà-vu: ci deve essere un cortocircuito. Ora, le mie analogie hanno sempre qualcosa di tattile: se penso al déjà-vu è perché la settimana scorsa c’è stato un cortocircuito e la casa ha rischiato di andare a fuoco: quando parlo di allineamento linguistico-cognitivo, vedo la fiammata alta un metro, sento la scatola che brucia. 

Come si conciliano l’ordine e la regola, addirittura una poetica, con qualcosa di generalmente sfuggente come l’ispirazione? 

Ho sempre avuto molta ammirazione per un’intervista a Graham Green in cui diceva di scrivere tutte le mattine esattamente sette pagine, non una riga di più né una di meno. Nel tipo di scrittura che uso io (in fondo anche per quella in prosa) non c’è disciplina: la poesia è veramente il contrario del mio carattere. Forse io mi sono rivolto a questo costume proprio perché era una forma di libertà, proprio perché in poesia c’è soltanto l’attesa. Mi piace molto l’esortazione evangelica estote parati. Bisogna veramente e soltanto stare pronti, per il resto non c’è criterio. Aggiungo che il mio primo lavoro universitario è una tesi in storia della filosofia su Joseph Joubert, di cui hanno scritto Blanchot, Benjamin, ma del quale all’epoca non esisteva in Italia nessuna monografia. Joubert non ha mai scritto un solo libro, ha semplicemente cercato per tutta la vita le condizioni ideali alla scrittura, e poi ha abbandonato questo progetto. Poco più tardi ho studiato le avanguardie storiche: conoscere a fondo quella stagione e direi quell’assetto culturale, quell’idea di gruppo, di cordata, me ne ha lasciato un’impressione raccapricciante. Ho addirittura scritto un testo sulla mia poetica come poetica “della trazione posteriore”: prima vengono i testi e dopo, al limite, la riflessione. Mentre la caratteristica della poetica delle avanguardie è di essere “a trazione anteriore”. Per questo la totale mancanza di disciplina è per me addirittura preliminare alla scrittura. Tutto ciò che nel manifesto poetico è affermativo e predittivo va bandito. Risponderei addirittura alle avanguardie con il padre delle avanguardie, Jarry, che definiva la patafisica come la scienza delle eccezioni. Bisogna aspettare l’eccezione e, per natura, l’eccezione si può aspettare solo in modo prensile, quasi sgomento.

Una volta scritto un testo, quanto sono importanti le componenti della rilettura, della rielaborazione e delle stesure successive? Parlerebbe di ispirazione per una seconda o anche successiva stesura di un testo? 

L’idea di “ispirazione della conclusione” e l’invito a smettere di interrogarsi su come inizia una poesia per chiedersi piuttosto come finisce, è l’aspetto più valériano di Che cos’è la poesia?. Nella sua semplicità, la riflessione di Valéry sul fatto che un poème n’est jamais fini, juste abandonné è rivoluzionaria. In fondo, è il famoso paradosso logico della nave di Teseo le cui parti deteriorate vengono modificate nel tempo: fino a quando possiamo dire che è la stessa, a partire da quando che non lo è più? Ecco, nel libro mi interessava dislocare la nozione di ispirazione in altri momenti della scrittura. Forse mi spingo verso un punto che non è troppo pertinente, però ha a che vedere con la mia concezione di poesia come vicinanza al linguaggio ma in forma di difetto. Tengo molto a un neologismo che ho preso dalle letture di Aleksandr Lurija: quello di logoleso. A chi mi chiede cosa distingua il suo vicino di banco da chi scrive poesia, rispondo che quest’ultimo ha un disturbo che lo porta spontaneamente a “produrre linguaggio”. È vero dunque che la lingua batte dove il dente duole; ed è vero in una forma profondamente antiromantica. Il poeta non è l’atleta del linguaggio, è il ferito dal linguaggio. E da qui, una decisa forma di passività nei riguardi di qualcosa che deve arrivare, non dal cielo, ma dalla corteccia cerebrale.

Col passare del tempo ha notato un’evoluzione nella sua idea di ispirazione e nel suo modo di percepirla? 

Posso dire una cosa curiosa. Fino a dieci anni fa ero convinto di avere iniziato a scrivere al liceo, verso i quindici anni. Poi, per via di un lutto e di un trasloco, mi sono imbattuto in un quaderno che mi ha molto impressionato: prima di tutto perché risaliva ai miei dieci anni, e soprattutto perché vi scrivevo i miei pensierini a macchina. Mio padre scherzando mi diceva che “tutti scrivono poesie, poi passa”, e mi consigliò di misurare la serietà della mia passione battendo i versi con quel pesante e rumoroso marchingegno. E io l’ho fatto! Forse già allora andavo a caccia di qualche cosa. Le prime cose che ho pubblicato sono invece le cose che ho scritto in ospedale: Fumaroli ha detto l’ennui fut mon premier pédagogue, e io in quei due mesi ho letto e scritto tantissimo. Questo è stato il momento di passaggio, che ha anche coinciso con le letture più importanti.

Potrebbe fornire un esempio concreto del lavoro che ha svolto su un testo nato in seguito a un momento di ispirazione e che poi è stato oggetto di rielaborazione?

Valerio Magrelli ci ha risposto condividendo con noi il seguente testo inedito:

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Pensiero sfuggito, io lo volevo scrivere;
scrivo invece che mi è sfuggito

B. Pascal

È la seconda volta in vita mia,
che scordo una poesia.
Mi è apparsa come un lampo,
un tracciato istantaneo, luminoso,
tra miliardi di sinapsi,
tracciato unico
che non ritroverò mai più.
Per questo si parla di folgore,
del suo tracciato.
La poesia è quel tracciato,
sistema di relazioni neurali,
una strada nella corteccia cerebrale
che appare per un attimo e scompare.
Io ho perso quel tracciato,
un zig zag misterioso, senza uguali,
cui dovrò rinunciare per sempre.
Questo sarà il suo epitaffio,
questo, il suo cenotafio.

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Per scaricare l’intervista: Non è lavoro sul nulla – Valerio Magrelli

Immagine: Elisabetta Biondi, Allitterazione, tecnica mista su tela, 40×40

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