Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione – intervista a Francesco Targhetta

Giovedì 20 gennaio abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine.  Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, la trovate a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione

Intervista a Francesco Targhetta

Ad oggi, ha ancora senso parlare di ispirazione e interrogarsi sulle questioni pratiche connesse al momento immediatamente precedente alla stesura di un testo poetico? 

Lo ha eccome, ma sono di parte: quasi tutte le poesie confluite in Fiaschi, la mia prima raccolta in versi uscita nel 2009, furono scritte nella stanza padovana che condividevo con Raoul Bruni, mio compagno di dottorato che allora stava lavorando a una tesi sul tema dell’ispirazione poetica (da cui il suo Il divino entusiasmo dei poeti, Aragno, 2010). Dunque capitava di trovarsi, dopo cena, quando non restavamo in cucina a chiacchierare coi coinquilini o a guardare una partita del Milan, io a ritoccare poesie davanti al pc e lui a leggere saggi sull’ispirazione. E ogni tanto succedeva che ci interrogassimo sull’enthousiasmós e sul furor, senza venirne granché a capo. Di certo, quando ne parlavamo, sentivamo di inoltrarci in territori oscuri, mai davvero esplorabili fino in fondo, pertinenze di impulsi irrazionali che senza dubbio ci attraevano. (Allora io stavo studiando Govoni e il simbolismo fin de siècle: visionarietà e sregolamenti dei sensi erano il mio pane quotidiano). A ripensarci ora quei discorsi non mi sembrano velleitari rovelli da giovani dottorandi. Su questo tema ci si è interrogati da sempre: perché non continuare a farlo? Le risposte, da Platone a Zanzotto, sono cambiate, e hanno sempre detto qualcosa dell’epoca che le esprimeva. Dunque ha senso seguitare a esplorare quei recessi non tanto per arrivare a un’impossibile risposta definitiva, quanto piuttosto per capire meglio chi siamo e perché continuiamo a scrivere poesie, nonché per tenere accesa una fiammella: in un’età che non si ponesse più simili questioni non avrei voglia non solo di scrivere ma nemmeno di vivere.

Quando e come avviene l’ispirazione? Ci sono, nel suo caso, delle situazioni spaziotemporali, delle componenti fisiologiche o delle occasioni che possono favorirla? 

Ai tempi in cui parlavo con Raoul di ispirazione poetica, attorno alla metà degli anni ’00, a me pareva di non possedere nessun furor quando scrivevo, eppure oggi non posso fare a meno di notare che tra il 2004 e il 2007 composi 250 poesie, mentre nei 15 anni successivi ne ho assommate 210. Cos’era, ispirazione? Più probabilmente furore, nell’accezione odierna: l’espettorazione di una rabbia tossica che tenevo in corpo e che di lì a poco avrei riversato nella fluvialità debordante di Perciò veniamo bene nelle fotografie. Per me, allora, era quella la miccia: un’impressione di insopportabilità, un senso di nausea, un principio di rivolta, un germe di estraneità, un desiderio di vendetta su un mondo che mi piaceva sempre meno tanto più mi ci addentravo. Senza quegli strati di asfalto, davanti agli occhi e nelle viscere, non sarei riuscito a scrivere nulla, e così, mi sento di dire, accade ancora adesso; difatti quanto ho scritto in luoghi di quiete, bellezza e contemplazione, ad esempio in montagna, l’ho sempre puntualmente cestinato per manifesta mancanza di ispirazione. Manifesta, ma non subito: a poesia appena conclusa a me capita di essere estremamente ingannabile sulla qualità di quanto ho scritto, il che forse dimostra la natura spaesante che qualsiasi atto di scrittura implica, ispirato o meno. Basta poi far decantare un testo anche solo un giorno o due e l’orecchio sentirà subito, alla prima rilettura, se qualcosa era scattato in quelle parole o se non contengono nulla a cui appigliarsi. Comunque sì, per scrivere bei versi esistono, nel mio caso, alcune condizioni oggettive: devo essere solo, a casa mia, con una buona dose di energie nervose, preferibilmente nel tardo pomeriggio o di sera (mai al mattino), senza musica né rumori esterni. Questo è il contesto necessario, per quanto non sufficiente. Serve anche, è chiaro, l’ispirazione (non riesco a uscire dalla tautologia).

Come si conciliano l’ordine e la regola, addirittura una poetica, con qualcosa di generalmente sfuggente come l’ispirazione? 

Direi che si conciliano in due ordini diversi: a posteriori e a priori. L’ordine e la direzione di senso si costruiscono in buona parte quando si riprendono in mano i testi, sia nel lavoro di lima a una singola poesia sia nella fase di strutturazione di una raccolta (selezione e disposizione delle liriche, divisione in sezioni, loro ordinamento, titoli), che per me rimangono momenti cruciali, perché li governa il fattore raziocinante, intenzionale, culturale, critico. Poi è chiaro che qualcosa di tutto ciò si trova dentro di noi anche a priori, ossia (tocca dirlo) a livello inconscio, e dunque se una poesia scritta di getto assume una certa struttura strofica, prende un particolare ritmo, si articola su date rime, rinvia a specifici testi propri o altrui, è perché l’ispirazione non può arrivare scompagnata, assoluta: nel momento in cui si fa lingua e versi, si incrocia con esigenze ordinatrici innate nella forma poetica e si inserisce in un reticolo di testi con cui deve per forza dialogare. Questa credo che sia la parte più sfuggente, per usare la vostra parola, della scrittura poetica, quella, cioè, di cui il poeta ha minore autocoscienza; dovrebbe essere, infatti, il territorio del critico. Sempre più spesso, invece, viene chiesto ai poeti stessi di pronunciarsi su questi aspetti (attraverso la classica dichiarazione dei modelli di riferimento o con richieste più perverse di auto-commento o di giustificazione delle proprie scelte), ma è laddove i poeti diventano, a mio avviso, inaffidabili, se non proprio intenzionalmente depistanti (il che può essere di maggiore interesse).

Una volta scritto un testo, quanto sono importanti le componenti della rilettura, della rielaborazione e delle stesure successive? Parlerebbe di ispirazione per una seconda o anche successiva stesura di un testo? 

Come dicevo sopra, rilettura e lavoro di lima sono fondamentali, ma non parlerei di ispirazione nella fase di revisione di un testo. A meno di poche eccezioni, la mia esperienza dice che, laddove una poesia ha bisogno di eccessive modifiche o di interventi sostanziosi per raggiungere una forma soddisfacente, si tratta di una brutta poesia. Molto spesso, soprattutto nei primi anni di scrittura, mi capitava di arrovellarmi su una lirica che non quagliava, senza però che mi decidessi ad abbandonarla del tutto, perché la presenza di qualche verso o immagine convincenti sembrava chiedermi di perseverare. Quando ho capito che quegli sforzi erano sempre vani, ho iniziato a comportarmi diversamente: mettere da parte una poesia non significa, anzitutto, escludere di poterla riprendere in mano ad anni di distanza (quando si sarà persone un po’ diverse da come si era al momento della prima stesura), e soprattutto esiste la possibilità di mantenere alcuni versi e fare operazioni di cut’n’paste ad alto rischio di fallimento ma a volte fruttuose. Insomma, si trapiantano versi da un testo all’altro, in modo da salvare, ad esempio, un buon incipit o una chiusa efficace. Detto questo, rimango convinto che i testi davvero ispirati vengano buoni quasi subito, nella prima stesura, e necessitino poi di pochi aggiustamenti, che saranno, oltre ad accomodature lessicali o ritmiche, tentativi di avvicinamento alla fiamma iniziale, manovre di accerchiamento alla scintilla di partenza, e dunque momenti di scavo inevitabilmente intenzionali e ragionati, già un po’ diversi da quanto si può definire ispirazione; certo, si cercherà sempre di farvi agire un qualche principio di deragliamento, una certa rabdomanzia, ma ricreati ad arte, e dunque di mestiere. La poesia è anche questo, naturalmente. Anche, però.

Col passare del tempo ha notato un’evoluzione nella sua idea di ispirazione e nel suo modo di percepirla? 

Ecco, qui l’ispirazione tocca cercare di circoscriverla. Per me è soprattutto questione di connessioni: perché si attivi, ce ne devono essere alcune che si allentano o che saltano del tutto, come può capitare in uno stato di estremo rilassamento, e altre che, di contro, si innestano da zero, come può capitare in uno stato di estrema ricettività, quasi sovreccitata. Le normali relazioni tra le cose devono come slittare, così da disporsi tracciando altre costellazioni e toccandosi in punti inediti. Di certo posso dire che, nel mio caso, si tratta di una condizione di grande energia. Non mi è mai capitato di scrivere bei versi in uno stato di stanchezza, con un paio di eccezioni durante notti insonni, in cui alla spossatezza delle membra si abbinava, quindi, un’iperattività dei nervi; di contro più di qualche volta ho provato, mentre scrivevo o subito dopo aver composto un testo ispirato, una strana forma di veemenza – strana, dico, in me –, per cui il corpo aveva bisogno di muoversi, scattare, esprimersi in qualche gesto adrenalinico e irruente, come se sentisse la necessità di assecondare il brulichio a livello cerebrale (chimico?). Insomma, possono essere momenti di grande potenza, che onestamente non ho provato facendo altro nella vita, tranne forse suonando su un palco. La differenza è la (necessaria) solitudine in cui tutto questo avviene. Ma tali momenti, nel processo di scrittura poetico, rimangono una minoranza. Forse, a volerli contare, mi saranno capitati una ventina di volte in tutta la vita, senza differenze sostanziali tra quando avevo 25 anni e ora che ho passato i 40; ecco, non hanno perso vigore e intensità, e in fondo credo che valga la pena scrivere anche solo per vivere quegli attimi. La maggior parte delle poesie nasce, in compenso, da dinamiche meno dirompenti, e a questo punto non so se dovrei parlare di ispirazione solo per quella ventina di occasioni. Suppongo di sì. Detto questo, con il passare degli anni noto che la scrittura poetica tende a concentrarsi e ad affiorare a grappoli: a mesi (pure anni) poeticamente sterili succedono settimane di improvvisa germinazione lirica, in una produzione nel complesso sempre meno prolifica ma più sicura, nel senso che scarto molto meno rispetto a vent’anni fa. Immagino che sia una dinamica diffusa: si invecchia, ci si raffredda, si acquisisce esperienza.

Potrebbe fornire un esempio concreto del lavoro che ha svolto su un testo nato in seguito a un momento di ispirazione e che poi è stato oggetto di rielaborazione? Se sì, vorrebbe commentare le differenze presenti nelle varie stesure?

Quando scrivo non tengo traccia delle varianti: lavoro sullo stesso file, sovrapponendo le modifiche al testo originario. Ciò significa che sono abbastanza sicuro, quando correggo, di apportare ritocchi migliorativi. Succede di rado che, nel dubbio, tenga anche la prima stesura; in ogni caso, quando, dopo un po’, decido quale variante conservare, cancello l’altra. Dunque non ho quasi nulla da mostrarvi. L’unica cosa che ho trovato è una stesura di Ouvrir les meubles precedente a quella poi finita nei Fiaschi. Può capitare, quando un soggetto mi è caro, che ci torni sopra a più riprese, utilizzando lo stesso titolo e aggiungendo un numero romano tra parentesi a indicare la quota del tentativo (per lo più ciò significa che il primo abbozzo non mi ha convinto). Spesso, da un titolo e soggetto comuni, nascono poesie completamente diverse, a volte persino delle piccole serie (ce ne saranno nella nuova raccolta in uscita a fine primavera); e allora succede che conservi non solo la prova buona, ma anche i componimenti scartati. Nel caso di Ouvrir les meubles la seconda stesura tiene la prima parte dell’originale e cambia del tutto il séguito:

Ouvrir les meubles (I) 

Apri il mobile, spalanca la credenza,
abbambina il cassetto rivestito di carta,
ficca gli occhi dentro lo stipo, prova
a squadrare la sala da pranzo 
dalla prospettiva del portafrutta:
c’è l’inverno dell’ottantuno che risale
la parete schivando ragnatele di fili
di lana, c’è tutta la stanza di quando
giocavi che torna marrone a fissarti
dall’alto, tramontana di foglie dietro
gli scuri, autunni con regoli sparsi
sul tavolo. Apri i mobili, stasera, tutti 
i cassetti e tutte le porte: i muri
devono vedere i cumuli di cose 
morte, bisogna scacciare l’odore
di vecchio. Ma non aprire la cassaforte:
ci hanno rinchiuso uno specchio. 
Ouvrir les meubles (II) 

Apri i mobili, spalanca la credenza,
abbambina i cassetti rivestiti di carta,
ficca gli occhi dentro lo stipo, prova
a squadrare la sala da pranzo
dalla prospettiva del portafrutta, dentro
l’armadio, in fondo alle scatole,
dietro la radio, controlla le mensole, 
sotto la polvere, sotto i corredi: 
da qualche parte, in qualche angolo,
devi pur esserci: non credi? 

Nel testo di partenza la casa è il luogo dove il passato si stipa minaccioso, pronto ad assediare con il proprio peso l’io lirico, su tinte da horror domestico dove le cose morte sembrano voler legare a sé chi scrive e inchiodarlo alla propria infanzia. Nella seconda stesura c’è un rovesciamento di prospettiva: la casa diventa il luogo dell’alienazione e dell’impossibilità di riconoscersi e ritrovare tracce di sé. Probabilmente le due poesie corrispondevano ai modi antitetici in cui vivevo i ritorni settimanali nella casa dei miei genitori, dove ritrovavo ciò che ero stato, avvertendo al contempo la distanza da ciò che ero diventato (o la casa della seconda stesura è un’altra, ad esempio quella padovana, anodina e specchio di inappartenenza?). Simili dubbi devono essere stati la ragione (inconsapevole) per cui questa è l’unica poesia la cui riscrittura non abbia comportato il depennamento della versione iniziale.

*

Per scaricare l’intervista: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione – intervista a Francesco Targhetta

Immagine: Elisabetta Biondi, Nascondimento, tecnica mista su tela, 40×40

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