FABIO Teti – Inediti da A – m – p – u – T – E – C – T – U – R – a

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nonostante non si tratti qui di un gioco, né fuori, nelle ore offline di cui si apprende in pochi post datati strani, 89 o 107, 44, 138 dopo Il Gadget, col questo e quanto non dimostra, più, dentro una bruma di attinoidi, di participi, nei campi fissi dei circuiti chiusi, dove gli utenti o dove intorno i grandi roghi, i blindati, le grida in bantu dei monatti, nei flussi entropici, con un concetto rattrappito di presenza, dopo immersioni digitali prolungate e ipocoscienza conseguente, quasi rancore, di camminare un dissesto, col corpo, un pianeta, senza ragione e senza scopo, con certi nomi nella bocca già anidride, riciancicati, lanciati infine dove niente, più o ancora, avere un nome, cianobatteri, opanoidi, cratoni, lungo il collasso dell’antitesi, sognato, fra dati e visione, mentre un cursore vaglia opzioni esoteriche, in Nevada, aleatorie, pick up furgone, cammello, camion cisterna, deposito armi, triciclo, barile tenda, sciacallo mucca caverna, minore centroasiatico armato, in un inseguimento sterminato, che chiameremo metodo, allora ustione, poi pozza, di carburante o di ossa, che chiameremo effetto esteso del mandato, del fenotipo, senza per questo che la specie, i suoi ormoni, coi denti schiusi sulle areole, il fiato, osservati da un Reaper, 

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fra ciò che riesce disponibile, nell’immediato, lungo i reparti di un costrutto transitorio, circostanziale di esistente, dove però non c’è più tempo, ma le miriadi, se i tagli scelti ti ritornano lo sguardo, dal banco frigo, con intenzione, se non sai più quale sia il campo e dove il bordo, di chi il voice-over, in questa cosa di tenebra, che riconosco mia, espressa in parti per milione, curve gaussiane, flussi di terabytes scomparsi dentro il morso di uno squalo, con foto dentro del tuo seno, con quella mail in cui ti chiedevo, se hai mai vibrato insieme agli hertz pazzi dai glòmeri, ai muri esterni delle banche, quando raggiunti dagli incendi, se hai mai gridato insieme al suono degli allarmi, sotto le grandi grandinate, di trinitite, nel moto a luogo, verso le casse in una calca di degenze, di ricattati, transverberati dalle radioonde, dagli algoritmi finanziari, al riparo da bombe se integrati e fino a quando in estrazioni, di valore, lungo ogni ora di veglia e di sonno, con l’illusione della scelta, con la distanza collassata, tra gli ftalati e l’omeostasi cellulare, il registro fossile e il se fosse, se fosse il caso di pensarci con la fretta, la più totale esitazione, nel margine da qui a non oltre, non più possibile pensare, a questa cosa di tenebra, che riconosco mia, nel già da sempre che infesta i cloroplasti dei platani, sul lungofiume, chiamato sole nana bianca, mentre alghe tripodi, mutanti, risalgono la fascia intertidale, da qualche parte oppure no, del litorale tibetano, dei 24.000 anni di emivita del plutonio, fino a che vanno inestricate, contessute, entropia ed efflorescenza, senza copiare dagli occhi, senza sapere a cosa serva, senza sia vero ma diverso, dalla menzogna, sopra quella che già adesso è stata un tempo la terra,

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lungo i secondi 19 e 8 minuti di tragitto sole-terra di un fotone, di tempo improprio tra i bidoni dove fumo e le vicende della paga, con mezzi poveri di avverbi, preposizioni, con una fitta dal risveglio nella schiena, per via del volto sovrimpresso a quella forma di pietra, l’orbita cieca, di celacanto, sotto la teca, nel sogno o incubo di un altro, se fosse un nervo che ripulsa nella zona, schiacciato, di transizione, tra la vertebra L1 e la T12, tra devoniano e triassico, branchie e polmoni, dov’è la cosa di tenebra, che riconosco mia, in certi ascessi tra le ascisse e le ordinate, punti fissati in alto a destra nei quadranti cartesiani, senza le immagini per questo, e che per questo adesso immagini, ma ai margini di cronici episodi ontogenetici, negli interstizi di un assurdo corpo a corpo col circuito, del plusvalore, con ciò che cade oltre la soglia e vi formicola, dell’attenzione, con la presenza già splittata, fino a che l’incubo non fugga il mondo, il paragrafo, né lo ripeta, tra esaptazione e annientamento, tra vicarianza ed estrazione, tra l’occhio aperto sugli espressi da macchiare e l’altro chiuso, sopra le immagini da fare, sui tufi rossi a pochi metri dal raccordo, quando nell’ombra delle cave, se prendi un corpo steso storto attraversato dai miocloni, nel primo sonno o nel secondo, da sciami oscuri di espressioni, di voci in rotta dal futuro di qualcuno che un domani, sotto una cupola geodetica, oltre i coltivi di nopàle, lungo le notti delle grandi occupazioni, degli orfanotrofi, dice facciamo che io ero le meduse e tu il reattore di Shimane, che tu eri il plancton e io ero il buio dei polmoni, che bruciavamo i copertoni per nasconderci dai droni turchi, nel fumo nero, che i boss di Acxiom analytics non l’avrebbero saputo,

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ma se chiediamo a una qualunque rifugiata, di una qualsiasi specie, del cosmo morto già da sempre e del cadavere del sole, per non soccombere al racconto, senza una trama, nel buio fondo in cui sentiamo scricchiolare le calotte, lungo le rotte migratorie degli spettri, sotto il boato dei caccia che infrangono il muro del suono, da Sigonella a Mariupol’ senza copiare dagli occhi, senza sapere che continuo istituisce, oltre il continuo degli arresti, che consistenza conferisce al testo, nel suo insieme, quale potere è formulato, poi disatteso, tra lo spazio in cui una certa frase è scritta e quello in cui se viene letta, ripronunciata, nel primo sciame di fotoni che all’alba, con tutto il sonno di poi tra il documento e il disparato, tra le onde beta e le theta, se mai si fosse in una testa, nel sogno o incubo di un’altra, entro una gamma di frequenza da 40 a 4 hertz che a poco a poco, poi all’improvviso, con le scintille sulle bifilari, il tram sparito dalle lenti, negli inframondi digressivi in cui svisionano i profili del comune inalterati, e ripetuti, lungo episodi progressivi di asserzione ed assenso, dopo giorno dopo giorno fino a quando un altro affitto sia pagato, le diazepine per il sonno, per stare svegli la coca, e in funzione, oltre i frangenti di più intensa intimità coi corrimano avviluppati dai tentacoli, lungo tramvie inondate, col ventre assurdo delle orche quando bianco sbreccia i muri che impastammo con il sangue degli schiavi, a Porta Pia o Porta Maggiore, coi calli accesi dopo il turno, senza parole, presso un’immagine che invita in quanto assente, a guardare, in cieli tersi e sconfinati, fra enormi erbe di Pampa, argentate, renderizzate nei visori che accompagnano i bovini a iugularsi, a ripartirsi in due mezzene, in cinque quarti, in venti tagli differenti che un mattino, distribuiti nei carrelli, scortati lungo le corsie degli Ipercarni, dove talvolta rallentiamo allucinati, mentre le voci dei morti, trasmesse in filodiffusione.


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Immagine di Flaminia Fiocco, Notre Dame #1

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