Un anno fa abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine. Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, si trova a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione; l’ebook del primo ciclo di interviste e interventi a questo: Non è lavoro sul nulla – ebook.
IntervENTO DI ADELE BARDAZZI
Going South: Ispirazione Wet
Ispirazione delle bagnanti
Praticando lo sport dell’idratazione, come anche dell’inspirare e espirare a livello professionale, so di non essermi ritrovata qui per confusione, semmai per noia. Lo ha detto anche Lindsay Lohan dopo essere stata fermata in auto di sera tardi. Ma in questo momento non c’è questa consapevolezza. So anche che non sono in questa stanza con le finestre aperte e sotto questo corpo più lungo di me perché voglio fare sesso. Potevo farmi andare bene questo corpo, ma mi ha appena infastidito il suo sorriso sincero, sentito, mentre ha alzato il collo per baciarmi e tradito così troppa pancia. Nonostante questo sia chiarissimo, sto provando piacere, sono subito bagnata, mi riconosco. Quindi voglio scopare? No. Scopo lo stesso, secondo te?
Due riflessioni: la prima – tutto quello che ho scritto sopra, in italiano, è una forzatura di scrivere in italiano anziché in inglese e non mi interessa il perché di questa cosa attraverso qualche chiave di lettura parapsicologica.
Riscrivo.
You are all wet. And now, he is even explaining me how I should hold him with my hand the other way around. I do what the fuck I want with my hands, one of the two replies. He smiles. As if I don’t know how to do a hand job. I bite. I bite his lower lip to blood. There is blood everywhere. Does it mean that I want to fuck you now? Who knows. Do I fuck him anyway? Oh now I am really fucked. You are fucking me and I am fucking with you.
Penso sia capitato a moltissime persone. Sicuramente in un momento d’ispirazione. ‘Sexual arousal’ e ‘genital arousal’ sono due cose separate, le scienze ci insegnano:
Even stimuli that are unappealing, undesired, aversive, and nonconsensual have been found to trigger a genital arousal response in women (Chivers, 2005; Chivers, Rieger, Latty, & Bailey, 2004; Laan & Everaerd, 1995; Suschinsky & Lalumière, 2011). As these stimuli do not necessarily induce sexual excitement, it appears that genital arousal can be paired with negative affect and low subjective sexual arousal (Chivers, Seto, Lalumière, Laan, & Grimbos, 2010).
È importante discutere se il piacere menzionato nella storia sopra sia risultato da un ‘genital arousal’ non accompagnato da un ‘sexual arousal’? Secondo me è importante tanto quanto parlare di ispirazione oggi, per rispondere alla prima domanda del questionario sull’ispirazione di formavera. Dipende dal contesto e dal motivo (il mio amico Iliasse mi ha sempre detto che solo uno stupido inizia un discorso che cerca di essere serio con ‘dipende’). Nel contesto di un processo legale, se mi si dice che ero bagnata e quindi volevo fare sesso, diventa importante. Solo in quel caso? Se mi sento in colpa perché evidentemente desideravo tradire il mio fidanzato se ero bagnata, diventa importante. Se mi si dice che ho scritto due raccolte di poesie perché sono stata bagnata dall’ispirazione, diventa importante. Se mi sento in colpa che non ho scritto niente questa estate perché non ho avuto nessun momento di ispirazione, diventa importante. Diventa importante?
Una cosa è certa, se scopo finisce il dubbio di una possibile violenza. Se scrivo, finisce il dubbio di una possibile ispirazione.
Perché prendo questo esempio? Perché mi incuriosisce come il discorso scientifico punti i riflettori su come il mio corpo di donna si prepari, per proteggersi, all’atto sessuale che si presuppone consista in una penetrazione. Mi chiedo se non si viva l’ispirazione nello stesso modo. Mi piace, mi dà piacere, mi eccita, ma non sempre anche quando la risposta può essere la stessa. C’è forse una violenza, che è tra gli elementi che trovo più interessanti nell’ispirazione, come anche nel sesso. Ma una violenza tra chi e di chi? E poi mi infastidisce questa idea ancora romantica di pensare all’ispirazione come qualcosa che arrivi dall’alto, legata all’irrazionale, come quelle mistiche che dicono che dio l’ha messa incinta attraverso una penetrazione divina dell’ispirazione. In questa immagine, sono inoltre posta come soggetto passivo. E mi chiedo dunque che tipo di violenza avviene se tu mi penetri pensando che sia questo quello che voglio ma in realtà in quel momento io ti sto trasformando in uno stupratore e allora adesso sì, ho voglia? E allo stesso modo mi fanno sorridere tentativi verso una concettualizzazione dell’ispirazione che rivendichino una sua possibile ‘razionalità’, una ricerca programmatica dell’ispirazione, come se si possa fare del buon sesso se si concorda che avverrà lunedì alle 13:45 nella stanza 307. Può funzionare a volte, soprattutto se per necessità di proteggere uno spazio e tempo dove si può scopare, ma sicuramente non sempre. Allo stesso modo, però abbiamo sicuramente fatto del buon sesso qualche ora più tardi di essere usciti pensando, stasera voglio scopare, e ci rimaniamo male se non si attua come pianificato. Un livello di intenzione credo possa essere coinvolto. Oppure che se non scopiamo da un anno nella stanza 307 vuol dire che c’è qualcosa che non va?
Breve pausa.
Sono scesa giù a farmi una sigaretta, mi piace fumare una sigaretta da sola dopo aver fatto sesso. E sono poi corsa per le scale perché avevo paura di perdere le parole da scrivere (un momento di ispirazione?). Il timing dell’ispirazione è importante e non arriva sempre nel momento giusto, diventando così problematico, fastidioso. Se è quella l’ispirazione, io la detesto. Ti immagini se ogni volta che arrivasse l’ispirazione sessuale si facesse effettivamente sesso. Se si dice sesso, poi, sono implicati più agenti, altrimenti è masturbazione. La masturbazione è fondamentale, certamente, ma le mie amiche si mettono a ridere quando rispondo al loro complimento sulla mia pelle più luminosa in viso stasera – ho fatto sesso tutto il pomeriggio babes – con chi? con nessuno. Parte la risata. Ridiamo anche di un’ispirazione masturbante? Temo di no e non so se sia un bene.
Quello che mi eccita, che mi ispira, è sentire frustrazione che scrivendo queste parole sto parlando di due cose: sesso e ispirazione, ma senza aver la più pallida idea di come la pensi, senza avere una riposta, e poter comunque entrare nel discorso su più piani, fino ad arrivare a te, a farti eccitare nel pensare che sto parlando di me. Per me c’è un rapporto con un lettore, probabilmente uomo di mezza età seduto sulla poltrona con i braccioli larghi, che tiene insieme l’ispirazione nel momento della scrittura e che mi porta a sedurlo sapendo di poterlo fottere con le sue stesse armi. Se penso a una lettrice donna, avrei scritto questo discorso diversamente e forse mi avrebbe ispirato meno lo scrivere e sarebbe stato più breve – probabilmente per il bene di tutti.
Le emozioni degli altri, mi ispirano. È negli altri che l’ispirazione si trova e li deve rimanere, prenderla significa qualcosa da non sottovalutare e non si può facilmente capire se avviene in modo consensuale. I lineamenti, movimenti, vite, scrittura, colore della voce, o come Bacon gira il cucchiaino prima di service la tazza di té a Burroughs. Per me l’ispirazione non porta quasi mai alla scrittura, o meglio nel rimanere in un progetto di scrittura (che sia un singolo testo o una serie di testi). Per me lì è necessaria un’ossessione, o diciamo fissazione che è una parola meno carica di ossessione, e credo che questo elemento abbia pochi contatti con l’ispirazione. Come spiegavo, l’ispirazione più interessante, per me, avviene quando la scrittura è già iniziata: non ho un’idea generale o precisa della direzione, ritmo, movimento di quel momento di scrivere la parola, e subentra un senso di ottimismo nel credere che ci sarà un momento di chance a mio favore, io non leggo il mio lavoro, ovvero, intendo io non so davvero cosa significhi e quindi tanto meno, mentre scrivo, ho un significato, una storia, in mente. L’unica cosa che so che significa può essere a livello formale, o così mi piacerebbe poter dire come fa Bacon nell’intervista che sto guardando stamattina, ma non credo sia così.
Ispirazione delle fuggitive
Ordine e regole, soprattutto negli ultimi anni o vent’anni, difficile decidere, sono forse i due elementi che mi mettono più in difficoltà e mi affaticano. Ordine non equivale a ossessione, fissazione. Per me ossessione va spesso a braccetto con una forma di libertà o galleggiamento. Nonostante molte delle cose che mi incuriosiscono o eccitano siano spesso quelle che coinvolgono un certo grado di difficoltà e fatica, nel contesto della poesia non è così. Faccio un esempio: sto scrivendo queste parole durante una pausa dalla revisione di un manoscritto accademico. La revisione in questo momento consiste nell’uniformare lo stile bibliografico. Non mi serve controllare il manuale MHRA, anche l’eccezione più piccola è bene a mente. Questo tipo di lavoro mi riesce molto bene, sono estremamente precisa, attenta, responsabile, affidabile. Dopo due ore di questo tipo di lavoro, mi gira la testa. L’ordine delle note che adesso mi guardano giustificate, forse un tempo mi dava un senso di calma, oggi non mi cambia niente. Salvo il documento nel desktop dove ci sono troppi documenti per non sembrare instabile a un convegno dove devo condividere lo schermo. In questo desktop, da qualche parte che non ricordo e altre che conosco, ci saranno almeno cinquanta documenti diversi della stessa raccolta. A volte, cerco di recuperare la versione che credo sia l’ ultima, a cui ho lavorato, altre volte invece viene perso tutto, altre ancora ne prendo una sbagliata. Non mi importa, non voglio essere gelosa della mia scrittura. Fosse anche la versione corretta, per me sarebbe comunque da cestinare. Perché mai dovrei dunque fare il backup come faccio diligentemente per tutto il resto ogni diciannove minuti. Se si dovesse parlare di poetica, non mi sognerei mai di parlare di poetica del disordine. Piuttosto, riciclo un altro termine di un lettore, il mio primo lettore, e direi poetica del dubbio.
Mi viene in mente un momento che coinvolge un livello di ordine e regola: ordinare i testi della mia prima raccolta, I nomi di Emanuele, è stato un momento di ispirazione, ma non c’erano regole, se non sapere che stavo chiudendo delle possibilità, incanalando specifiche possibili letture e chiavi di lettura, soffocando piacevolmente quello che per me era un libro non finito e non da finire e dunque necessariamente anche da chiudere. Ispirazione spesso si accompagna per me a sofferenza. Questo ne è un esempio specifico, naturalmente, ma credo sia così anche per altri momenti diversi di ispirazione dove non vorrei mai e poi mai ritornare o ricercare ancora. In questo senso non mi preoccupa tanto l’ispirazione in quanto sfuggente, ma più come sfuggire all’ispirazione. E un modo di sfuggirne è mettersi a scrivere a partire da quel momento di ispirazione.
Educazione sentimentale
Non credo sia così. Faccio un esempio: la musica è probabilmente ciò che mi emoziona più di altro. L’ascoltare la musica non mi ispira, mi emoziona, ma non mi ispira. Raramente, ho momenti di ispirazione di musica da scrivere, ma non ricordo più niente dei corsi di armonia o quelle poche nozioni di composizione che avevo studiato – mi manca totalmente la conoscenza e la capacità tecnica per scrivere musica e credo che lo stesso sia per la poesia. Nel secondo caso, tuttavia, nonostante conoscenza e tecnica siano ugualmente importanti, non mi interessa peccare di ignoranza, non credo nella poesia, non credo nel linguaggio, e mi sento dunque libera dovendo lavorare con un materiale che di per sé è erroneo, errante, e quindi possibile. Per la musica, cerco di seguire questi rarissimi momenti di ispirazione, rassicurandomi che il suono, ritmo, texture, voce o quel che sia verrà poi dimenticato e scenderà quel senso di urgenza, di mancanza che sento nel momento di questa supposta ispirazione. Dico musica, sì, ma devo precisare musica senza la parola. Per mio limite, non sopporto l’opera o qualsiasi pezzo dove ci sia una parte di canto. Lo trovo divertente per come sono andate le cose, ovvero che lavoro adesso solo con la parola che detesto, mi mette in difficoltà. E questo mi fa ridere.
Il processo
Qualche giorno fa, vicini alla scadenza per un bando di ricerca, mi è stato suggerito che dovevo esplicitare meglio come faccio ricerca, cosa vuol dire fare ricerca per me, in cosa consiste. Subito, ho detto con un sorrisetto ammiccante: è semplice – leggo, penso a quello che ho letto, leggo ancora un po’, ci ripenso, scrivo. In realtà, era una brutta parafrasi di un tweet di un ex collega di Oxford che avevo letto qualche settimana prima e mi aveva fatto ridere perché in inglese suonava meglio. La verità è che soffro al pensare che il processo per me sia sempre inverso: scrivo, penso, leggo. Leggo quando è troppo tardi per continuare a scrivere. Per questo mi è impossibile rileggermi, non credo in niente di quello che scrivo. È chiaro che niente di buono può venir fuori da una cosa del genere. E ogni volta che chiedo a uno studente di consegnarmi il famigerato essay plan e sottolineo che va sviluppata meglio la struttura, mi sento ipocrita. Non l’ho mai fatto da studentessa, non ci sono mai riuscita, e tutti gli essay plans che ho consegnato non sono mai stati di alcun supporto nel momento della scrittura. Penso mentre scrivo? Non penso quando scrivo? Mi piace credere che chiarisco il pensiero nello scrivere. Ma se mi domando se vale lo stesso nello scrivere poesia, temo non sia così. Nella vita e nella scrittura accademica, mi ossessiona e mette ansia il come poter raffinare un uso della parola che crei una retorica potente, spiazzante, inattaccabile, che non lasci uno spazio vuoto. Mi inorridisce pensare a questo, ma è così. Sono stata attratta dalla scrittura non in prosa sentendo che in questa forma posso non ricercare quel tipo di retorica, ma semplicemente creare un ritmo che porta con sé significati per me vuoti e nel non portali ne crea di diversi da quelli mi ero illusa fossero ignoti. La possibilità di non ricercare retorica argomentativa per me è fonte di ispirazione nell’immettermi nel mondo delle parole in poesia sentendo che qui è permesso non avere un télos del linguaggio. Non ha senso naturalmente nel momento che il punto focale, almeno per me, è una riflessione sul linguaggio, sulla forma, e che questo avviene attraverso la forma, il linguaggio, ma è l’unica posizione di partenza che per me è possibile per pensare o essere attratta dalla scrittura poetica. Leggo, penso, scrivo – dicevo. Dirò di più. Quando dico che io non leggo, nessuno mi crede. Il momento per me di lettura più significativo e che porta l’unica possibile forma di revisione di quello che scrivo è mentre scrivo. Come l’ispirazione viene per me spesso da qualcosa che decontestualizzo e ricolloco nello spazio e tempo poetico, così anche per la lettura, mi ispira staccare parole, togliere il significato che hanno in quel testo, ricollocarle nel mio. Ma soprattutto mi ispira che quell’incontro non sia nato da una vicinanza con quella poesia, quel poeta e che poi nel momento di rilettura o revisione, non possa più ricordare quali erano le parole. Per quanto riguarda la revisione, momento necessario e fondamentale di scrittura, per me è spesso fonte di distanza e rifiuto. Mi affido spesso al mio primo lettore, chi ha in parte scritto già quei testi, è lui ha fare la revisione. Sta a te, lettore, decidere se prendere questo e tutto il resto letteralmente.
Il paziente in bianco
Attorno delle voci in una lingua che non conosco, un tedesco di cui non posso riconoscere l’accento diverso, che è anche la lingua dell’amore di questi anni, si fanno piano piano lontane. Rimane solo del bianco. Tutto è bianco e tengo in mano un pulsante che devo stringere con il palmo se avrò paura. Sto morendo. È l’ipocondria o una malattia che mi ha portato qui. Sento qualcuno che mi chiede se ho paura. Rispondo di no, mi disturba questa domanda. Interferisce con il rumore di una musica che spero di poter ricordare quando uscirò dal bianco. È un momento di ispirazione? Forse, e come la maggior parte dei momenti di ispirazione, non viene seguito da niente. Ritorniamo lì, si tratta del ritmo crescente di una TAC cerebrale a Stoccarda, se non ricordo male. Uscita dall’ospedale ricerco su google ‘MRI sounds’ – non ero la prima ad aver colto questo.
È un lavoro sul nulla – epilogo
Leggendo le dodici interviste sull’ispirazione e la riflessione di Letizia Imola nel suo ‘Non è lavoro sul nulla – epilogo’, mi viene da aggiungere questo: se invecchiando si fa meno sesso non credo sia necessariamente un dato da cui poter estrapolare una qualità migliore di quell’accadere in età avanzata. L’idea che si faccia sesso per rendere qualcosa memorabile, per dare sostanza alle immagini che ci stavano eccitando prima di iniziare a fare sesso, sarebbe una cosa molto triste. Per me non si tratta di ricordo, ma di una scelta di disinteresse verso il ricordare, il rendere qualcosa memorabile, e piuttosto di ricercare altro, passando magari dal ricordo, ma mai per raggiungerlo. Che il buon sesso sia possibile quando si ha una visione del mondo più o meno condivisibile e un’intenzione chiara mentre lo si fa, credo sia fuorviante. Se avessi una visione chiara non credo che sentirei alcuna ispirazione o desiderio di immettermi nella scrittura. Se lo facessi dovrei credere che la scrittura non fa niente nel suo accadere in poesia. E con questo non voglio suggerire che nel momento della scrittura si arriva teleologicamente da qualche parte. Non cambierà niente ma qualcosa cambia comunque, così mi piace leggere il verso tormentone di Patrizia Cavalli, per esempio. L’idea che ‘una compresenza costante con l’altro o gli altri, prosciughi un certo tipo di parola, un certo auto-ascolto e che questo sia più incline a verificarsi […] in situazione di totale intimità con se stesso’, va contro la mia visione del valore, se ce ne è, dell’ispirazione, della sessualità; è un aprirsi – ‘che il soggetto sia più propenso ad avviarlo’ o meno – verso l’altro. Ma sicuramente c’è moltissima poesia che nasce da un auto-ascolto e non da un rapporto con l’altro, probabilmente anche la mia, nonostante non lo voglia riconoscere adesso. Quella sarà una poesia che proclama il genio ad ogni angolo della strada. L’ispirazione non esiste più di quanto non esista il genio. L’ispirazione ancorata all’idea romantica di un qualcosa che è altamente ‘singolare’ ci fa dimenticare troppo spesso che non siamo esseri originali. La scrittura ce lo ricorda sempre. In altre parole, sono contraria all’idea di dare uno statuto preesistente a qualcosa che abbia a che fare con l’ispirazione. Piuttosto, mi attrae l’idea che si tratti di qualcosa che emerge attraverso un incontro, un intessersi con altro o l’altro. Che forse non può davvero accadere, appunto. In questo intreccio, o più precisamente in questo entanglement come viene chiamato nella fisica quantistica, gli elementi che hanno portato al creare qualcos’altro attraverso il loro incontro non sono più indistinguibili, ovvero non esistono al di fuori di una non-reciprocità distante, senza contatto. Per me questo si traduce in termini di poesia in qualcosa che vuole un io a gambe spalancate e con tutti i denti nella bocca, un io poroso e un tu che non è più funzionale e funzionante in relazione a chi prende voce e lo richiama nella sua necessaria assenza. L’apostrofe viene così radicalmente ridefinita. La prima sezione di Onda statica di Italo Testa è, a mio avviso, un elegantissimo attuarsi di questo. Si crea un glitch, un cortocircuito, che solo il linguaggio della poesia, attraverso la sua temporalità, spiazzanti apostrofi, ritmo, il suo accadere, può tenere insieme, esasperare, sostenere in movimento. Che l’ispirazione sia anche un lavoro, questo sì, ma non viene ancora riconosciuto che, né la poesia né fare sesso, possa essere davvero un lavoro, un lavoro riconosciuto e retribuito a ore come qualsiasi altro lavoro.
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Per scaricare l’intervista: Non è lavoro sul nulla – Adele Bardazzi
Immagine: Elisabetta Biondi, Poetica del dubbio, china e acrilico su carta, 20×30