Giovedì 20 gennaio abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine. Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, la trovate a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione
Intervista a Marco Villa
Ad oggi, ha ancora senso parlare di ispirazione e interrogarsi sulle questioni pratiche connesse al momento immediatamente precedente alla stesura di un testo poetico?
Ha certamente senso interrogarsi sui meccanismi che precedono immediatamente la scrittura, e ha anche senso parlare, per quei meccanismi o per una loro parte, di ispirazione. Per quanto mi riguarda, nell’impossibilità di stabilire l’origine del “clic” (fisiologica, emotiva, spirituale, inconscia più o meno collettiva…), è più interessante capire il modo in cui avviene. Da questo punto di vista mi rendo conto di avere una concezione formale/formalizzante dell’ispirazione. Vale a dire, non credo che l’ispirazione ci faccia tanto trovare parole o idee nuove, quanto più riorganizza parole o idee che sono già presenti in noi, che già ci attraversano e non solo a livello sub-cosciente. La vedo come un salto di qualità (anche se non voglio dare una connotazione per forza migliorativa) del nostro discorso interiore quotidiano. Ci parliamo dentro di continuo, rispondendo a impressioni dall’esterno, rielaborando emozioni, astraendoci nell’immaginazione ecc., e allora quello che arriva con l’ispirazione e che prima non c’era non sono le parole, ma qualcosa che le ferma mettendole insieme in un modo che ce le fa sentire diversamente e ci fa dire ok, questo lo scriverei – il che non significa che verrà scritto senz’altro: semplicemente il nuovo assetto ha una qualità diversa rispetto al resto del nostro discorso interiore e questa qualità ce lo fa avvertire, per ritmo o sintassi o nessi o immagini o senso, come qualcosa di potenzialmente scrivibile. Questo funziona insomma come primo impulso alla scrittura; poi ci sono molte decisioni da prendere, a cominciare da se vale effettivamente la pena dare retta a quei versi o frasi che ci stanno risuonando in testa.
Quando e come avviene l’ispirazione? Ci sono, nel suo caso, delle situazioni spazio-temporali, delle componenti fisiologiche o delle occasioni che possono favorirla?
Sul come ho già risposto, all’incirca. Posso aggiungere che nel mio caso il primo impulso non sempre è l’unico. Voglio dire che, soprattutto fino a qualche anno fa, il testo non si sviluppava tanto a partire dalla prima ispirazione, che invece dava magari un verso o un gruppetto unitario di versi che rimanevano lasciati a sé stessi anche per mesi. In seguito un altro impulso dava un altro verso o gruppetto ecc. e così via, fino a quando mi rendevo conto che alcuni di questi nuclei avevano qualcosa in comune. Allora iniziava l’opera di collegamento e costruzione a partire da quei materiali, opera con la quale è come se cercassi quel centro che sentivo esistere ma che era ancora nascosto.
Sul quando direi che i momenti migliori sono quelli in cui parlarci dentro quotidiano ha più libero corso e siamo più liberi di prestarvi attenzione. Quindi, di solito, momenti di stasi forzata, al limite di noia, che considero un formidabile motore per la creazione. È per questo che tra i luoghi più favorevoli, almeno nel mio caso, ci sono sale d’aspetto e mezzi di trasporto. Per la scrittura del testo vero e proprio, invece, le condizioni ideali sono più o meno le tipiche: a casa, soprattutto di sera, meglio – anche se non per forza – in solitudine. Ma il punto d’avvio è in quei frangenti di stasi e auto-ascolto.
Come si conciliano l’ordine e la regola, addirittura una poetica, con qualcosa di generalmente sfuggente come l’ispirazione?
Penso che l’ispirazione non sia qualcosa di esclusivamente irrazionale. Se per poetica si intende l’idea che consapevolmente ci facciamo della letteratura e del posto che quello che scriviamo occupa nel campo (nello spazio culturale e letterario, nella linea di una tradizione), allora mi sembra che la poetica di ciascuno influisca eccome sul momento dell’ispirazione, orientandone l’azione. Poi ovviamente – e fortunatamente – il filtro della poetica è tutt’altro che integrale e l’ispirazione lo trascende di parecchio, però ecco, irrazionale e razionale sono presenti fin dal primo momento di vita di una poesia. Discorso simile, direi, per componente soggettiva e oggettiva, a tutti i livelli: come l’ispirazione non è solo un soffio che ci viene dall’esterno ma un meccanismo che funziona in quel modo perché io – mente corpo – sono fatto in quel modo, così la poetica non è solo una scelta individuale ma un compromesso con le possibilità e le imposizioni che vengono dalla nostra epoca. Ed è quasi superfluo precisare che, prima ancora di qualsiasi ispirazione, le stesse parole del nostro discorso interiore sono tutt’altro che pure e originali – al limite si può anche pensare che siano tutte parole d’altri che ci attraversano.
Dopo quel primo momento di vita, comunque, trovo che l’aspetto di controllo razionale, di ordine e di regola, stia soprattutto in un lavoro di resistenza. Quello che ci viene da scrivere quando “abbiamo l’ispirazione” è un miscuglio di strutture e materiali eterogenei, molti dei quali non c’entrano nulla con il testo nascente. L’ispirazione è tutt’altro che infallibile, e anzi spesso e volentieri può ingannare. Quindi la scrittura diventa, anche, una pratica di resistenza all’ispirazione (diventa un’“arte di resistere alle parole”, per dirla con Ponge).
Una volta scritto un testo, quanto sono importanti le componenti della rilettura, della rielaborazione e delle stesure successive? Parlerebbe di ispirazione per una seconda o anche successiva stesura di un testo?
Non l’avevo mai pensata in questi termini ma sì, credo che si possa parlare di ispirazione per le stesure successive di una poesia. Il fatto è che spesso quando cambio qualcosa in un testo non è perché mi metto al tavolo e decido di rileggere per correggere, ma perché, banalmente, mentre sto facendo tutt’altro mi ritorna in mente quel testo con una parola, una frase, un’immagine, un ordine diversi dalla forma precedente e penso perché in quel punto ho scritto così e non cosà? Ancora una volta non si tratta di un’ispirazione che crea dal nulla, ma di un assetto differente di parole che esistono già (che sono già scritte, in questo caso) e quel nuovo assetto che si è stabilito nella mia mente mi convince di più.
Col passare del tempo ha notato un’evoluzione nella sua idea di ispirazione e nel suo modo di percepirla?
Ho già accennato nella seconda risposta a una differenza rispetto al passato, che però riguarda piuttosto i meccanismi compositivi: ora tendo maggiormente a scrivere sviluppando un primo e unico impulso. Riguardo invece al modo di percepire l’ispirazione, forse parlare di evoluzione non è corretto, perché quando me ne sono fatto un’idea più o meno consapevole sono arrivato a quella che ho cercato di esporre qui; tuttavia retrospettivamente posso notare un cambiamento. E cioè che, soprattutto nella fase adolescenziale, avevo la sensazione che una certa situazione, un certo stato d’animo, una certa scena davanti ai miei occhi mi chiedessero parole, e quindi dovevo scriverne (la vivevo in modo romantico degradato/maledettistico, in realtà c’era tanto volontarismo). Ora invece il processo è più mediato. Quando scrivo di una cosa questa ha già lavorato molto a livello inconscio e in qualche modo si è già verbalizzata nella mia testa, anche se poi ovviamente la forma che assume nella scrittura me la fa conoscere in modo nuovo. In generale, non scrivo quasi mai in risposta diretta a qualcosa che vedo/sento o a qualcosa che provo.
Potrebbe fornire un esempio concreto del lavoro che ha svolto su un testo nato in seguito a un momento di ispirazione e che poi è stato oggetto di rielaborazione? Se sì, vorrebbe commentare le differenze presenti nelle varie stesure?
Il testo che scelgo non ha avuto varie stesure nel senso di varianti puntuali, ma è stato scritto a due riprese, che corrispondono alle due parti in cui è diviso.
Vede una signora che attraversa la strada,
è lei, ma lei non è nessuno e allora
perde tutti i desideri e le voragini
e torna a sé trasparente, forte,
corpo perfetto nel paesaggio,
come per un minuto in una città
nuova, in una via nuova, vediamo
una signora di lì sicuramente
che senza pensare cammina e cammina.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Troppo in là. Vivi una gioia patologica
oltre lei e te, succhi la sua
leggerezza per creare tutto:
una primavera urbana, tanto tempo
e migliaia di donne. Senti che dio tornerebbe
solo per irriderti…
Ho preso questa poesia anche perché si apre con un’immagine che in effetti avevo visto da poco, il che parrebbe contraddire quello che ho detto sopra. In realtà l’idea e l’esperienza di questa identificazione con una figura del tutto sconosciuta, piatta (ossia: senza altra consistenza umana che l’azione in cui la colgo), come momento di salutare fuoriuscita e liberazione da me stesso, mi accompagnavano da un bel po’ di tempo. Ne ero perfettamente consapevole e l’esperienza era già verbalizzata nella mia mente e non solo in quella, con parole mie e altrui (avevo letto cose molto interessanti in merito). Quindi l’“occasione” alla base della poesia non aveva niente di speciale, era una replica di tante altre occasioni simili. Quella volta, semplicemente, ci sono stato sopra più tempo, e a un certo punto quelle parole che già da un po’ mi giravano in testa hanno assunto quella forma lì – quel ritmo, quell’andare a capo, quello strutturarsi in terza persona, quella tirata sintattica unica, quel senso di circolarità ecc.
La poesia però non era ancora finita; solo dopo qualche tempo è arrivata la seconda parte, che mette in questione la validità dell’esperienza o, per meglio dire, la maturità necessaria per viverla senza ricadere nei soliti deliri narcisistici. E anche qui: non è che quando scrivevo la prima parte non fossi a conoscenza di questi problemi (anche per questo non consideravo la poesia finita), ma solo più in là i miei dubbi e perplessità hanno trovato (quella che spero essere) l’ispirazione giusta.
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Per scaricare l’intervista: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione – intervista a Marco Villa
Immagine: Elisabetta Biondi, Resistenza, tecnica mista su carta, 40×40.
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