
Giovedì 20 gennaio abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine. Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, la trovate a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione
INTERVISTA A Paolo Maccari
Ad oggi, ha ancora senso parlare di ispirazione e interrogarsi sulle questioni pratiche connesse al momento immediatamente precedente alla stesura di un testo poetico?
Non credo che ad oggi parlare di ispirazione abbia meno senso di quanto ne può aver avuto in passato (piuttosto, pare che molti preferiscano darsi un tono utilizzando perifrasi desublimanti: che è un buon modo per dire la stessa cosa pascendosi della solita retorica dell’anti-retorica). E aggiungo che probabilmente questo senso si manterrà nel bene e nel male abbastanza stabile almeno per qualche decennio ancora; poi magari le neuroscienze, dopo aver sciolto i molti misteri che ancora avvolgono le nostre emozioni e i nostri comportamenti, faranno luce completa anche sui meccanismi cerebrali che favoriscono momenti propizi e altri ostili alla scrittura in versi. Chissà. Oggi come ieri, in attesa che la nostra curiosità sul fenomeno sia soddisfatta dalla scienza, dobbiamo contentarci di ammettere, a mio avviso, che esiste tale differenza di momenti, e magari, come proponete, provare a interrogarla attraverso dati empirici. Certo, a complicare, o quantomeno a problematizzare, le cose potremmo aggiungere, come suggerite nella quarta domanda, che l’uso al singolare del termine ispirazione è, confrontato con l’atto pratico della scrittura, un po’ riduttivo. Non riesco onestamente a negare l’ultra-romanticismo, in accezione metastorica, di una nozione di ispirazione legata al rapimento, all’animo in entusiasmo, all’ebrezza creativa. È una nozione presente da sempre, e se oggi molti la negano, la negazione mi sembra ideologica: ideologicamente si esclude quella possibilità mentre altri irrazionalismi, più prossimi alla nostra posizione, si accettano di buon grado. Ma al contempo, nella mia esperienza individuale, l’invasamento è nullo e gli invasamenti procurati mi muovono, in effetti, al sospetto se non all’insofferenza. Semmai, come si è spinti a scrivere, così si sperimentano momenti di predisposizione alla rilettura efficace di quanto già scritto, altri momenti particolarmente laici in cui si è ispirati a cancellare o distruggere ciò che lo merita (non sono i momenti meno utili, anzi!), altri ancora in cui si diventa buoni titolisti, oppure, se non si è partiti a scrivere con un disegno complessivo (a me non capita quasi mai), situazioni mentali favorevoli all’individuazione di un senso e una struttura condivisi in una serie di testi. Anche in questi casi io avverto differenze qualitative tra momenti in cui ho voglia e sono in grado di rileggere, intervenire, distruggere o congiungere e altri in cui la rilettura mi provoca noia o disgusto.
Quando e come avviene l’ispirazione? Ci sono, nel suo caso, delle situazioni spaziotemporali, delle componenti fisiologiche o delle occasioni che possono favorirla?
Mi piace scrivere a casa, nel mio studio. Mi piace anche non essere solo in casa, ma sentire animazione nelle altre stanze. Forse considero, senza troppo rifletterci, la poesia una via di mezzo tra solitudine e condivisione, una zona intermedia, che spesso è il mio ideale di relazione con il mondo. In ogni modo, mi concentro agevolmente anche in mezzo ai rumori. Preferibilmente scrivo la sera. Se sono fuori e mi viene un’idea, e ho qualcosa su cui scrivere (sul telefono non mi riesce), prendo appunti. Altrimenti cerco di fermarla nella memoria, ma nove volte su dieci mi dimentico le parole precise con cui l’avevo formulata. Mi ricordo però il rapporto tra emozione o pensiero e ritmica. Tornato a casa, anche se le parole sono fuggite, quasi sempre mi viene da tentare il recupero scrivendo. E la precisione con cui credo di riprodurre quel rapporto mi basta per essere momentaneamente soddisfatto. Scrivo volentieri anche al tavolino di un chiosco sul lungarno. A volte i personaggi che passano, umani o animali, attraggono la mia attenzione e allora mi viene voglia di ritrarli, tradendoli, o di ritrarmi mentre rifletto su di loro.
Come si conciliano l’ordine e la regola, addirittura una poetica, con qualcosa di generalmente sfuggente come l’ispirazione?
Nel mio caso la poetica – credo anch’io di avercene una, bene o male – è qualcosa di successivo e non di preventivo alla composizione, e dunque non collide con la sfuggevolezza del ritmo di composizione. Per quanto riguarda l’ordine e la regola, se non fossero strettamente vincolati alla stessa matrice dell’ispirazione credo che mi impedirebbero del tutto di comporre. Un agente di conciliazione molto forte, per quanto mi riguarda, è il tempo. E mi spiego: passo anni interi a non scrivere niente, in cui non mi viene proprio in mente di avere questa possibilità. Non cerco idee, o ispirazioni, o motivi da sviluppare eccetera. Quando poi riinizio a scrivere, un testo tira l’altro, e per qualche tempo procedo abbastanza speditamente. Nella mia esperienza personale, che mi guarderei bene dal portare ad esempio, mi rendo conto mentre metto insieme un libro che da esso emerge una poetica coincidente con una stagione della vita, con il suo sguardo sul mondo e addirittura con le sue convinzioni esistenziali. Mi rendo conto inoltre che libro dopo libro rimango all’incirca chi sono, anche se gli strumenti, l’ordine e la regola a cui ho obbedito in un determinato periodo, sono un po’ cambiati, adattandosi a tutto quello che collabora alla creazione di uno modo di vedere e di sentire: la vita, certo, senza aggettivi, ma anche gli aggettivi, le letture, le perdite, gli incontri, le speranze e le disillusioni.
Una volta scritto un testo, quanto sono importanti le componenti della rilettura, della rielaborazione e delle stesure successive? Parlerebbe di ispirazione per una seconda o anche successiva stesura di un testo?
Ho già risposto parzialmente rispondendo alla domanda 1. Sì, parlerei di ispirazione in tutte le fasi. Dopo aver scritto un testo lo lascio in un file chiamato Nuovi testi, o qualcosa del genere. Ci torno continuamente nei giorni successivi, e limo, cambio, riscrivo. Solitamente la seconda lettura, a qualche giorno di distanza, mi convince se il testo mi piace, e allora ci lavoro, o se non mi piace per niente, e allora lo cancello. Spesso accade anche che mi piaccia una parte sola: ne nasce allora, partendo da quella parte, un nuovo testo, tutto diverso. Raddrizzare una poesia che non mi convinceva per qualche motivo rientra tra le occupazioni piacevoli di una giornata avara.
Col passare del tempo ha notato un’evoluzione nella sua idea di ispirazione e nel suo modo di percepirla?
Col passare del tempo mi è passata del tutto la voglia di scrivere per sentirmi uno scrittore. Per autorizzarmi a esistere attraverso la letteratura. In questo senso, sono diventato da molti anni un seguace dell’ispirazione sempre più devoto e persuaso. D’altronde, molto dipende anche da quel che scrivo: comporre un breve racconto o una poesia, come faccio io, non richiede la consapevolezza architettonica, la ricerca delle fonti, la necessità di macinare pagine e di collegarle in un disegno coerente che richiedono invece la scrittura di un romanzo o di un lungo saggio. In mezz’ora riesco a cavarmela, solitamente, e poi posso dedicare, quando mi va, cinque minuti sparsi per la limatura o molto meno per il cestinaggio.
Potrebbe fornire un esempio concreto del lavoro che ha svolto su un testo nato in seguito a un momento di ispirazione e che poi è stato oggetto di rielaborazione? Se sì, vorrebbe commentare le differenze presenti nelle varie stesure?
Non posso fornire nessun esempio perché, come detto, intervengo sui testi cancellando e riscrivendo quello che non mi piace. Davvero non mi basterebbe l’ego, che pure, anche il mio, non è piccolo, per conservare le prime versioni.
Per scaricare l’intervista: Non è lavoro sul nulla – intervista a Paolo Maccari
Immagine: Elisabetta Biondi, Memorie, acrilico e betadine su tela, 40×40
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