
Giovedì 20 gennaio abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine. Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, la trovate a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione
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Intervista a Fabio Pusterla
Ad oggi, ha ancora senso parlare di ispirazione e interrogarsi sulle questioni pratiche connesse al momento immediatamente precedente alla stesura di un testo poetico?
Certo che ha senso, secondo me; malgrado tutte le difficoltà del caso, del resto da voi stessi evocate. Credo che siamo tutti coscienti, pronunciando la parola “ispirazione”, del rischio di finire in una retorica bolsa, in un’enfasi fuori tempo massimo. Ma nello stesso tempo è pur vero che prima della scrittura esiste una fase aurorale, durante la quale avvengono cose che in parte sfuggono all’esatta definizione e all’esatta comprensione; cose che non si possono prevedere esattamente, e che non è possibile ottenere soltanto con l’impegno e con il pensiero razionale. Io penso che non sia più necessario scomodare gli dei: oggi sappiamo molte cose della nostra mente, e delle varie forme di connessione e di intelligenza che può contenere e accendere. È, io credo, in queste zone poco definibili ma non esclusivamente irrazionali che nasce il primo germe della parola poetica: attraverso associazioni impreviste, che affondano le loro radici nella memoria (nelle varie tipologie della memoria), nella sensibilità, e naturalmente anche nell’inconscio. Quello che anticamente si attribuiva a un intervento esterno delle Muse, oggi può forse essere considerata un’emersione da queste regioni di profondità della mente. Personalmente, sarei tentato di suggerire una possibile alleanza semantica tra la parola “ispirazione”, che per quanto imbarazzante conserva ancora un senso importante soprattutto in quell’idea di “soffio” (e il soffio in poesia chiama subito in causa il ritmo) che contiene, e la parola “invenzione”, non meno importante. L’invenzione, a prima vista, è un atto di esplorazione: decido di andare a cercare qualcosa che non so; cioè mi dispongo, per quanto questo sia possibile, alla ricerca poetica. Ma affinché il percorso dell’invenzione (sto citando un grande titolo di Maria Corti, come si capirà) sia vero, e possa realmente condurmi verso territori ignoti, devo accettare di abbandonarmi alle correnti più profonde, al soffio, appunto, che spira da qualche parte dentro di me, e che adesso non so dove mi potrà condurre. Sicché l’ispirazione chiede appunto una sorta di abbandono, di accettazione del mistero e della sorpresa; l’invenzione suggerisce invece una costante vigilanza, grazie alla quale la candela della lucidità non si spegne.
Quando e come avviene l’ispirazione? Ci sono, nel suo caso, delle situazioni spazio-temporali, delle componenti fisiologiche o delle occasioni che possono favorirla?
Non posso rispondere completamente a questo interrogativo, proprio perché la fase aurorale di cui accennavo sfugge (per fortuna) a una esatta definizione. Posso però dire che, dopo tanti anni di cammino, ho identificato due modalità principali con cui ogni tanto scatta questa strana e imprevedibile scintilla.
La prima di queste modalità ha a che vedere con le connessioni impreviste e sorprendenti, che provocano in me una specie di meraviglia: due cose che a prima vista non hanno rapporto l’una con l’altra adesso, per un istante, si mettono insieme, mi appaiono miracolosamente collegate. Lo stupore e il disorientamento accesi da questa apparizione di senso mi spingono a volte a provare a scrivere. Posso fare forse un esempio, abbastanza antico: in un libro di parecchi anni fa (Le cose senza storia) c’è una poesia che si chiama Visita notturna. L’origine di quel testo è in parte nella visita, del tutto imprevista (cioè non programmata) a un piccolo museo praghese, che espone i disegni dei bambini ebrei rinchiusi nel campo di concentramento del Terezin, e di lì inviati poi nei campi di sterminio. Inutile dire l’impressione forte, terribile, che ho provato in quel museo di cui ignoravo l’esistenza, e che visitavo nei panni dell’insegnante che accompagna i suoi studenti in una gita di studio (cosa che, osservando le reazioni dei ragazzi, acuiva la mia emozione). Ma quell’impressione, per quanto potente, non mi avrebbe spinto a scrivere (e come avrei potuto osare mettermi a fare versi sull’Olocausto?). Tuttavia, ero o dovevo essere in una fase di invenzione, cioè di ricerca; e per questo mi sono annotato su un quadernetto il nome di una bambina, il cui disegno mi aveva colpito forse più di tutti gli altri: Anna Brichtova. Qualche tempo dopo, mesi o anni, non saprei più dire, l’imprevista connessione: una sera, mia figlia, che era allora una bambina, mi porta in dono tutta contenta un suo disegno infantile: quasi identico a quello di Anna Brichtova. Ecco lo stupore, in questo caso potrei dire la vertigine, che mi ha spinto a tentare di scrivere, e che nel contempo ha reso possibile e accettabile farlo.
La seconda modalità è invece di tipo ritmico: capita a volte che appaiano nella mente dei movimenti di parole, non saprei dirlo meglio di così. Non delle parole che stanno iniziando un discorso riconoscibile; né delle parole coscientemente volute e cercate. Di nuovo, delle connessioni, stavolta più sonore e molecolari che semantiche; e qualche volta mi è capitato di partire da lì, e di lasciarmi guidare da quella prima intuizione ancora vaghissima.
Come si conciliano l’ordine e la regola, addirittura una poetica, con qualcosa di generalmente sfuggente come l’ispirazione?
L’ordine e la regola: in senso stretto, arrivano di solito dopo, quando inizia il processo più cosciente di scrittura e riscrittura. Ma non è sempre così, di nuovo per due ragioni. Intanto, perché ci sono un ordine e una regola che non riguardano la scrittura, ma la vita; cioè che determinano, provano a determinare, lo spazio materiale e interiore in cui forse la poesia sarà possibile. C’è bisogno anche di silenzio, di pazienza, di attesa, e non solo di ispirazione; e queste sono cose che non arrivano da sole, ma vanno in qualche modo propiziate, allenate e difese, con una specie di disciplina interiore. «Il garbo e la misura», dice un verso di Francesco Scarabicchi, uno dei poeti contemporanei in cui questa dimensione di ordine e regola esistenziali ha raggiunto forse un vertice: sono queste le cose da custodire. Poi, in secondo luogo, mi è accaduto a volte di provare a fare un gioco che i nostri antichi maestri conoscevano benissimo, e che solo un fraintendimento di alcuni miti romantici ha potuto considerare a lungo improponibile. Il gioco è questo (e lo sapevano bene, praticandolo però in maniera scopertamente sperimentale, gli autori dell’Oulipo): provare a darsi a priori una regola molto stretta, e vedere cosa succede. Perché a volte proprio la regola, l’ostacolo, stimola l’immaginazione e aiuta a scendere nelle gallerie sconosciute.
Una volta scritto un testo, quanto sono importanti le componenti della rilettura, della rielaborazione e delle stesure successive? Parlerebbe di ispirazione per una seconda o anche successiva stesura di un testo?
Scrittura è sempre, io credo, riscrittura, rielaborazione, distruzione e creazione avvicendate. Dunque, per me queste cose sono importantissime. Ma se è probabilmente vero che ciò che chiamiamo per comodità “ispirazione” agisce soprattutto nella fase aurorale, non è meno vero che dopo, nel vero e proprio processo di scrittura, controllo razionale, scelte estetiche e momenti di improvvisa intuizione ispirativa si alternano. Io provo a capire cosa sto facendo, a scegliere come modificare, ampliare o ridurre ciò che ho scritto prima, a come avvicinarmi il più possibile alla giustezza della parola, dell’espressione e del ritmo; ma in questo tentativo non agisce soltanto la mia ragione o la mia coscienza estetica, ma anche le altre forme di intelligenza e di sensibilità a cui alludevo all’inizio. È forse proprio per questo che durante un processo creativo si ha la sensazione di una accresciuta luminosità dell’essere, della vita: perché molte zone di noi sono chiamate a collaborare. Forse, ma questo lo potranno magari un giorno verificare i neuroscienziati, durante l’atto creativo le parti del cervello messe in agitazione sono più numerose del solito.
Col passare del tempo ha notato un’evoluzione nella sua idea di ispirazione e nel suo modo di percepirla?
Le cose che ho tentato di dire fin qui non avrei saputo dirle venti o trent’anni fa, quando forse ne avevo soltanto una vaga percezione. E forse, anche, non avrei voluto dirle, perché avrei reagito come un mulo testardo di fronte alla parola ispirazione e ai rischi che ricordavo all’inizio. Allora, mi sembrava prioritario allontanare con forza le tentazioni irrazionali, orfiche, che mi sembravano minacciare la poesia; e insieme quel tanto di enfasi sacerdotale che avevo annusato qua e là, in compagni di strada o in autori già affermati. Col tempo, ho da un lato capito meglio alcuni aspetti della scrittura poetica; e d’altro canto posso ora concedermi, senza più temere di perdere la rotta, qualche deviazione nei mari più rischiosi.
Potrebbe fornire un esempio concreto del lavoro che ha svolto su un testo nato in seguito a un momento di ispirazione e che poi è stato oggetto di rielaborazione? Se sì, vorrebbe commentare le differenze presenti nelle varie stesure?
Ho fatto prima l’esempio di Visita notturna, e sicuramente potrei farne altri dello stesso tipo. Ma non credo che sia opportuno per me in quanto autore andare a cercare le varie (spesso sono state moltissime) stesure di questa o di quella poesia, commentandole. Mi sembra questo un lavoro, assai utile, che compete eventualmente ai critici (e che io stesso ho esercitato a volte come critico), non agli autori. Nel computer che sto usando, come immagino in tutti i computer recenti, c’è una cosa che mi impressiona molto: si chiama Time machine, e offre la possibilità di stoccare in memoria o su un disco rigido esterno i vari stati successivi del computer, in una specie di infinita memoria di “fasi”. Ogni tanto lo faccio anch’io, naturalmente, nel timore di un guasto o di un virus; ma sento di essere affascinato e anche però spaventato da questa apparentemente inesauribile e implacabile memoria, che sembra non prevedere l’oblio. Non sto certo suggerendo un paragone esatto tra la time machine del computer e la filologia d’autore; tuttavia…
Una cosa forse si può dire in termini generali: per me, nella maggior parte dei casi, la rielaborazione finisce per riguardare soprattutto l’intensificazione del senso profondo e l’attenuazione dei dettagli di superficie. Lo strumento principale per la seconda cosa è la lima. Un po’ più difficile dire quali strumenti bisogna cercare nella cassetta degli attrezzi per quello che ho chiamato “intensificazione”. Sono molti, e molto diversi tra di loro, e alcuni forse non hanno un nome preciso.
Per scaricare la rubrica: Non è lavoro sul nulla : questioni pratiche sull’ispirazione – intervista a Fabio Pusterla
Immagine: Elisabetta Biondi, Origine, acrilico e betadine su tela, 40×40
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