Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione – intervista a Franca Mancinelli

Giovedì 20 gennaio abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine.  Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, la trovate a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione

Intervista a Franca Mancinelli

Ad oggi, ha ancora senso parlare di ispirazione e interrogarsi sulle questioni pratiche connesse al momento immediatamente precedente alla stesura di un testo poetico? 

Ha un senso, certo, ma sapendo che è un privilegio occuparci di queste questioni mentre a qualche ora di viaggio dal nostro paese… e le parole si fermano perché sento quelle macerie, quei cadaveri per le strade, come una tenaglia nel cervello. 
Restare paralizzati da questa consapevolezza non serve. Allora, mi scrollo le ali e le apro al sole, per riprendere forza. Penso alle vibrazioni che portano gli uccelli nello stesso stormo a cambiare rotta, seguendo le correnti. E da qui, da questa mattina in cui, con la mente assonnata siedo al computer – mia figlia si è svegliata più volte, stanotte – penso che se riesco a stare nella rotta luminosa, verso il sole, anche il grande stormo a cui appartengo, che dalla mia famiglia e dagli amici, si allarga a tutta la specie umana, forse si orienterà lentamente, impercettibilmente, verso la sorgente luminosa.

Quando e come avviene l’ispirazione? Ci sono, nel suo caso, delle situazioni spazio-temporali, delle componenti fisiologiche o delle occasioni che possono favorirla? 

Una condizione fondamentale per trovarmi in uno stato in cui sia possibile creare, è avere dormito bene e a sufficienza. Nel sonno affondano le mie radici più salde e profonde. Un risveglio brusco è come uno strappo dal terreno in cui sto crescendo. Se sono costretta ad alzarmi prima di avere attinto alle particelle di sonno necessarie, vivo l’intera giornata ottusa, privata delle energie vitali, obbediente ai doveri e alle mansioni richieste, come un vecchio cane che segue il padrone lungo il tragitto quotidiano – mentre con il giusto nutrimento di sonno, quello stesso itinerario si sarebbe aperto a incontri, richiami, nuove tracce da annusare con il muso immerso.
È il mattino lo spazio che posso abitare in ascolto, con le antenne tese a captare e a tradurre. A volte in una giornata si apre un altro squarcio: un “secondo mattino” che si illumina nel pomeriggio, se riesco dopo pranzo ad attingere a un’altra piccola porzione di sonno. 
Fondamentale è poi la possibilità di muovermi con il corpo, soprattutto di camminare. Il ritmo dei passi porta la mente in uno stato di apertura e presenza, probabilmente simile a quello che avevano i nostri antenati cacciatori e raccoglitori. Seduta a un tavolo ricevo messaggi soltanto se la stanza in cui mi trovo può diventare una radura, una stazione, un crocevia –nella sosta temporanea di un viaggio. Può esserci un brusio di altre persone intorno, ma non discorsi riconoscibili, altrimenti indosso un paio di cuffie antinfortunio, di quelle che usano i carpentieri – i rumori esterni si attenuano e il segnale trasmesso è chiaro: sono al lavoro, oppure, anche: sono in ascolto di una mia musica.
In questo mio cantiere si lavora con la pioggia: il suo silenzio apparente, il suo ritmo, crea un campo in cui continuamente possono raggiungermi voci, immagini. Può sembrare un paradosso – il nostro primo pensiero è ripararci dalla pioggia–, eppure sotto di lei siamo al riparo, protetti, come dentro la casa della Terra, una casa corale, che continua oltre i vetri e i cancelli delle abitazioni.
Un luogo in cui scrivere è un rifugio di frasche, una casetta degli attrezzi, uno di quei capanni in cui stanno appostati i cacciatori: crediamo e non crediamo alle pareti, proprio come i bambini quando sollevano un lenzuolo e se lo posano sulla nuca, coprendosi la vista, felici di ritrovarsi in uno spazio solo loro, e ritornare in un istante, con un gesto, allo scoperto.  

Come si conciliano l’ordine e la regola, addirittura una poetica, con qualcosa di generalmente sfuggente come l’ispirazione? 

Ordine e regola sono profondamente legati alla scrittura che è, in fondo, una forma di monachesimo interiore – interreligioso, anticonfessionale. Scrivere è praticare una fede –spesso inconscia, istintiva, che riguarda il nostro legame originario con quella che chiamiamo “realtà” e che chiamiamo “vita”. Ordine e regola aprono uno spazio che possiamo abitare, in cui possiamo esistere – la nostra cella, la nostra pagina – e possono allo stesso tempo tramutarsi in prigionia. A governare queste due possibilità è probabilmente una legge biologica, energetica, la stessa che ci porta, dopo avere sostato a lungo in una stanza, ad aprire la finestra o a cambiare luogo. 
L’ispirazione sfugge a ogni ordine e regola, come un animale selvatico sfuggirebbe dalle nostre mani, dalle nostre reti, dai nostri tentativi di avvicinamento. Possiamo pensarla proprio come una di queste creature che a volte tagliano i nostri sentieri; per alcuni istanti transitano nel nostro campo visuale, lasciando una scia prodigiosa, come un’apparizione: sentiamo chiaramente che quel muso è affiorato in quel luogo e in quell’istante per noi, e che la sua presenza ha un significato, un messaggio che porteremo, per giorni, cercando di tradurlo. Per tornare di nuovo in contatto con questa creatura, possiamo appostarci, seguendo le sue abitudini e predilezioni, trovarci nei luoghi e nei momenti della giornata che ama frequentare. Forse tornerà, forse no; non ci è data alcuna certezza. Ma se non rispettiamo lo spazio di libertà in cui può manifestarsi e cerchiamo di avvicinarla con esche, rischiamo di dare inizio al suo addomesticamento, alla sua parziale o progressiva morte. Così accade nella scrittura, quando le parole si fanno prevedibili, attenuate, come se non provenissero dalla zona più impenetrabile e oscura del bosco. 

Una volta scritto un testo, quanto sono importanti le componenti della rilettura, della rielaborazione e delle stesure successive? Parlerebbe di ispirazione per una seconda o anche successiva stesura di un testo? 

Dopo la prima stesura si apre una parte fondamentale della scrittura in cui si crea soprattutto sacrificando. La penso spesso nei termini di una potatura che lascia alle immagini con più linfa lo spazio necessario per crescere. Se perdite e rinunce portano ad altre possibilità di significato, abbiamo operato nella giusta direzione. A volte si rischia invece di ritrovare il testo indebolito, monco, privato delle sue congiunzioni vitali. Per questo è indispensabile in questa fase della scrittura l’attenzione massima e la capacità di ricongiungersi con l’immagine-emozione che ha dettato i versi. Quando facciamo ritorno a quel nucleo, altri occhi si aprono in noi grazie al tempo trascorso. Non ce ne accorgiamo, ma anche dopo una minima quantità di tempo, siamo altre persone: altri stati ci plasmano, altri pensieri stanno transitando, altre presenze raggiungono la superficie del nostro volto. Se torniamo a sporgerci sulla stessa pagina, sulla stessa traccia che abbiamo lasciato, possiamo sentire il movimento interno dell’esperienza vissuta e allo stesso tempo guardarla con distacco. Non siamo più nel fuoco dell’emozione, ma accanto alle sue braci vive, che possono essere avvicinate e mosse con gli strumenti adatti. 
Questa qualità di distacco è la guida per ogni scelta, per ogni incrocio in cui dobbiamo riconoscere la strada, per fare sì che la voce che stiamo portando in noi compia il suo viaggio e consegni tutto ciò che ha in sé. Spesso di fronte a indecisioni che continuano vorticare nella mente, senza risolversi, torno ad affidare il mio peso alla terra: spengo il computer e mi metto in cammino, nelle vie intorno casa, e dal ritmo dei passi, dal mio corpo in transito, affiora una risposta. 
Più che a una seconda ispirazione, penso al tentativo di non disperdere il richiamo iniziale, di mantenermi il più possibile fedele a quella prima voce che mi ha raggiunto. A volte però capita che lavorando con la materia della lingua, si aprano possibilità di significato che all’inizio non avevamo neanche sospettato. E quando accade, è quasi sempre quella la traccia che seguo. 

Col passare del tempo ha notato un’evoluzione nella sua idea di ispirazione e nel suo modo di percepirla? 

Per molti anni ho tenuto con me un taccuino in ogni momento, anche nel sonno – come una possibilità di luce, una riserva d’acqua. Ci sono stati periodi, forse soprattutto legati ai miei primi due libri, Mala kruna e Pasta madre, in cui continuavo a risvegliarmi più volte per appuntare parole, frammenti di frasi –lottavo con il senso di un compito, di un dovere di veglia, e la necessità di abbandonare la presa, di lasciare andare l’ultimo barlume di coscienza. 
Per molto tempo ho affidato a quel taccuino la traccia incandescente di qualcosa che avevo incontrato, e che tentavo di trattenere nelle parole. Altre volte ho invece dato più fiducia al mio corpo, alla sua istintiva capacità di custodire e dimenticare: ho lasciato che la vita accadesse, senza inseguirla con la penna, e ho aspettato poi, in ascolto, quando le cose si erano depositate, per vedere che cosa restava. A volte si ha la sensazione di avere perso legami fondamentali che non ritroveremo mai più; altre invece si ha la sensazione opposta, come se il corpo restituisse l’essenza, ciò che deve restare. Forse, con il passare degli anni, è sempre più prevalsa la tendenza a contenere e portare nel corpo, piuttosto che segnare la pagina. 

Potrebbe fornire un esempio concreto del lavoro che ha svolto su un testo nato in seguito a un momento di ispirazione e che poi è stato oggetto di rielaborazione? Se sì, vorrebbe commentare le differenze presenti nelle varie stesure? 

Se torno ad aprire file e fogli con versioni precedenti di libri che ho pubblicato, mi raggiunge ancora un vortice leggero; viene da quei piccoli gorghi che spesso si aprono sulla superficie di un testo, come nell’acqua quando forze opposte si scontrano. Poi subentra l’azione calmante esercitata dal tempo, e dalla stampa che ha un effetto risolutivo, come una lapide: «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso». 
Posso portare un’altra versione del testo che apre e intitola il mio libro d’esordio, Mala kruna. È un esempio del lavoro che faccio per custodire la traccia di un’esperienza in una forma che le permetta di irradiarsi oltre la mia vicenda autobiografica. La versione che segue è apparsa nel 2004 nell’antologia Nodo sottile 4 a cura di Vittorio Biagini e Andrea Sirotti: 

Quest’orizzonte di dolore diverso 
lo portavi scritto sotto le unghie 
già da quando la vecchina nell’isola 
camminando ti s’affiancò 
e ti disse del vento, 
del cattivo tempo che non faceva 
partire le barche
e poi si fermò a leggere un foglio 
sul muro lungo la strada 
che annunciava una processione e ti disse: 
mala kruna 
(piccola corona di spine) 

Questa è la versione uscita, tre anni dopo, nel mio primo libro edito da Manni

all’orizzonte un mare diverso 
fermava il sangue sotto le unghie;
madre nera nell’isola 
ti venne a fianco e ti disse del vento, 
un cattivo tempo che non faceva 
partire le barche;
poi fissò un punto sul muro 
lungo la strada iniziava una festa

mala kruna, disse
piccola corona di spine. 

Nella versione definitiva è entrato un ritmo, si sono persi alcuni dettagli, e queste perdite hanno ampliato il significato oltre la narrazione, verso una dimensione che può essere esistenziale e anche simbolica. Sono due testi che rileggo quando conduco laboratori che chiamo di “ascolto e di esperienza della parola poetica” perché contengono la traccia di quel passaggio fondamentale che porta una voce a definirsi, a trovare le proprie coordinate, oltre la necessità di depositare sulla pagina il proprio vissuto. Era questo il varco che stavo scoprendo e sperimentando in quegli anni: quello attraverso cui frammenti e sequenze di una vita entrano dentro la lingua. C’è un filtro attraverso cui passa la vita per farsi parola, e questo comporta sempre una trasformazione. Dobbiamo essere pronti a perdere, a lasciare andare, per ricevere attraverso ciò che pensiamo di conoscere (la nostra esperienza, le parole che ci raggiungono), qualcosa di inaspettato, qualcosa che ci oltrepassa. In quel periodo accanto ai miei occhi ne avevo altri, fraterni, di compagni di viaggio e di maestri (occhi che non abbandono mai, neanche ora). È molto probabile che grazie a loro la mia attenzione si sia fermata su alcuni punti del testo dove qualcosa non fluiva come avrebbe potuto, qualcosa gravava sul foglio invece di aprire le ali. Per esempio, nel primo verso, la parola dolore. Ora posso guardare alla me stessa di quegli anni come a un’altra persona che sta iniziando a cercare la propria voce, un proprio cammino nella scrittura. E posso dirle che quella parola è una finestra chiusa da una tenda nera. Non permette di vedere, impedisce l’immaginazione, oscura tutto lo spazio che potrebbe aprirsi. Nominando direttamente il dolore è molto probabile che al lettore non arrivi alcuna vibrazione di quello stato emotivo, perché è richiamato attraverso una via per lo più astratta, mentale. La scommessa è invece fare sì che quel dolore raggiunga il lettore, e per questo le immagini sono in genere un mezzo di trasmissione più potente. Il secondo verso della versione definitiva, contiene infatti un’immagine attraverso cui può parlare quel dolore, che è legato anche a un’impossibilità di partire, di mettersi in viaggio. Altri due cambiamenti decisivi sono quelli che sostituiscono la parola «vecchina» con «madre nera» e «una processione» con «una festa». In entrambi i casi la direzione è la stessa: verso il ritmo e verso parole che, senza tradire e inventare nulla, portano il vissuto in una frequenza più alta, che può intercettare altre scie di significato, altre vite. L’immagine di una festa che inizia, per esempio, può contenere la gioia di una giovinezza che si apre all’esistenza – nonostante l’orizzonte, così come la frase ascoltata per strada, sembrano predire difficoltà e spine.
La vecchina che avevo incontrato in una piccola isola della Croazia si era accostata a me con la naturalezza di chi mi ha conosciuto da sempre. Era vestita di nero, come si usava nelle nostre campagne. Chiamandola «madre nera» affiora la sua essenza. La percepii infatti in quell’incontro come madre, e poi, quando compresi il significato delle sue parole, anche come una donna oracolare, una di quelle vecchine che nelle fiabe rivelano al protagonista le prove che lo aspettano. «Nera» non perché malvagia, ma perché predice qualcosa di oscuro, e anche di doloroso. Oppure perché in lei si fa presente un’origine difficile, che impedisce il viaggio. Nel tempo, attraverso altri occhi che hanno letto questi versi, è affiorato un altro significato, legato alla Madonna Nera – a Loreto, a un’ora di auto da dove vivo, c’è un santuario dedicato a lei. In questa icona forse vive la Grande Madre dei culti antichi, nera come la notte che porta luce, come la terra che genera. 

*

Per scaricare l’intervista: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione – intervista a Franca Mancinelli

Immagine: Elisabetta Biondi, Grida la vela, collage su carta, 40×40

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