Conversazione con Umberto Fiori (prima parte)

POLAROID FIORI CASE 1

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L’uscita dell’Oscar Mondadori che ne raccoglie la produzione poetica edita ad oggi ci ha suggerito di proporre a Umberto Fiori una conversazione sulla sua poesia. L’occasione si è presentata nei giorni della sua lettura per Poesia nel Tubo, ospitati in aula dal Dipartimento di Filologia e Critica dell’Università di Siena. All’incontro sono intervenuti anche Stefano Dal Bianco e Antonio Prete. Il testo che vi proponiamo è la trascrizione rivista della conversazione di quel 3 aprile.

[Ringraziamo Maria Stella Lo Re per il prezioso aiuto.]

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Simone Burratti: Nella prefazione al libro, Afribo individua per la tua poesia diversi tratti di convergenza a un certo filone novecentesco. Partendo dalle sue considerazioni noterei innanzitutto che nonostante i vari stacchi che ci sono stati nella tua poetica dagli esordi all’ultimo libro, e soprattutto tra Chiarimenti (1996) e La bella vista (2002), è notevole la differenza anche con Voi (2009). Nella tua produzione si sente molto forte la presenza dell’altro, atipica rispetto alla tradizione del Novecento. Vorrei quindi cominciare col chiederti come vedi l’alterità, intesa come lettore e come oggetto di indagine poetica.

Stefano Dal Bianco: Potresti partire leggendoci delle poesie, e pensare nel mentre alla risposta.

Umberto Fiori: Ne cerco qualcuna che abbia a che fare con quello che mi si chiede. Ecco. Da Esempi (1992) leggerò una poesia che fa vedere, credo, quanto i libri che ho scritto sono come degli sviluppi della raccolta precedente. Dentro Esempi – che peraltro è una rifusione di Case (1986) – ci sono già in parte i temi che saranno al centro di Chiarimenti, cioè soprattutto quello della discussione, del contrasto dialettico. In genere, progettando un libro e poi scrivendolo, tendo a concentrarmi su certi motivi, ma intanto qua e là ne emergono di nuovi, che però, a libro finito, mi sembra vadano approfonditi. Scrivendo, tendo a tornare sugli stessi temi perché, per quanto ne abbia parlato e riparlato, ho la sensazione che si possa dire ancora qualcosa. I miei libri, come dicevo, nascono uno dall’altro, ognuno è un po’ il completamento del precedente. Il tema della discussione, che è centrale in Chiarimenti, era già presente, come dicevo, in alcuni testi di Esempi. Ad esempio questo:

Quando due che discutono
sono arrivati al cuore della questione
e uno alza gli occhi al cielo, scuote le braccia,
l’altro si guarda intorno
a mani giunte, come cercando aiuto,
e gridano fatti, e prove,
cambiano tono, si chiamano per nome,
ma non c’è niente, nessuno che possa più
dare ragione a nessuno –
proprio allora, lontani come sono,
rivedono il miracolo:
che sia una la stanza,
che sia lo stesso
il tavolo dove battono.1

Queste altre che leggo, invece, sono tipiche del primo periodo, quello di Case e Esempi.

In alto girano le gru
e sotto è un via vai di sirene,
ma questo scavo
che fanno in mezzo alle case
sembra in campagna quei torrenti asciutti,
fermi.

Ora il terreno
visto tutto intero
da su, dal sesto, dal settimo piano,
è un grande cratere spento.
Fa paura vedere quanta luce,
quanto vento contiene.

Per mesi e mesi in questo teatro immenso
si sentiranno urlare le misure.
Poi tutto il vuoto della scena
cemento e vetro l’avranno coperto
e a un terrazzino – chi vorrà ancora guardare –
sventolerà un asciugamano2.

***

Quando verso le sei del pomeriggio
in una via già in ombra
ti capita di alzare
la testa, e di vedere
sopra le piante
i piani alti di un paio di palazzi
ancora in piena luce, chiari, caldi,
ti fermi e guardi.

Le case vedono il sole:
questa scena non sai
come lasciarla.
Non lo sai dire, questo bene.
Non lo sai dire il vuoto,
la pena che viene.

Cos’è? Vorresti essere
a uno di quei balconi
lassù in cima, e la luce che vedi
sentirla addosso?
No, non è questo.
Anzi, sono già troppo
anche qui, da lontano,
i muri così vivi, così presi
nella loro visione.

Le case vedono il sole.
Passando, noi guardiamo
le case al sole
come un bambino
dentro gli occhi di chi
lo tiene per mano
segue un lungo discorso
serio, che qualcuno
fa, lì davanti.3

Bene, ora cerco di rispondere alla domanda sull’Altro, che è abbastanza complessa. L’immagine delle case, che ritorna nei primi libri, è in sé un’immagine dell’alterità; ma un’immagine ambigua, perché le facciate e i muri sono, diciamo, una pietrificazione del volto dell’Altro, e anche una sua spersonalizzazione. La mia scrittura, soprattutto all’inizio, è nata proprio dall’ambivalenza del volto dell’Altro. Che cos’è un muro? Un ostacolo, uno sbarramento, qualcosa che ferma lo sguardo, che ti ferma. Penso alle facciate, ma soprattutto ai muri ciechi di Milano, che ho a lungo fotografato negli anni Ottanta, maniacalmente, con la mia Polaroid. Ne Le meraviglie d’Italia Gadda ha scritto cose divertentissime contro l’architettura di Milano, dicendo che nasce dalla logica facilona dei capimastri, che lui chiama – in milanese – èm sémper fà inscì, “abbiamo sempre fatto così”. I muri ciechi sono lì perché i costruttori pensavano a un’altra casa, che però non è arrivata. Ed ecco queste facciate senza finestre, cieche appunto, squallide. E però – dico io – quando la luce le investe le case più tristi si animano, diventano come di carne. Ieri sera raccontavo che quando ero a scuola – non ricordo se alle elementari o al ginnasio – a una certa ora il sole girava e dalla nostra aula a pianterreno si vedeva lassù uno di questi muri, tutto illuminato. È un’apparizione che mi ha segnato profondamente; poi, nella mia lunga adolescenza, me ne sono dimenticato. L’ho ritrovata molti anni dopo, in un momento dei più bui della mia vita. Quella vista, quella visione, era un angelo, un annuncio dell’Altro.

Un’altra figura dell’alterità nelle mie poesie è il cane: lì, l’Altro è minaccia, pericolo. Il suo furioso abbaiare io lo sento come il nostro parlare umano che arriva al suo limite, diventa verso, il verso di un animale che non dice se non la sua nuda presenza; perché l’animale non può discutere, non può spiegarsi… Penso allo scarafaggio di Kafka: quello che capita veramente a Gregor Samsa non è trasformarsi in un animale ma perdere la parola, e quindi non poter più dire, giustificarsi, spiegarsi, chiedere aiuto. Solo pigolare. I miei cani abbaiano contro qualcosa, qualcuno, e io pure mi sento abbaiare, mi sento un parlante-abbaiante.

L’esperienza della parola, per la mia generazione, è stata un’esperienza estrema. Molti di noi hanno pensato, allora, che i discorsi potessero avere una potenza persuasiva, operante, cogente. La parola per noi era soprattutto logica, dialettica, discussione, propaganda, invettiva, slogan. Più tardi, in anni per me decisivi – i primi anni Ottanta – io ho sentito che quella (presunta) potenza della parola si stava perdendo, che la discussione si era svuotata, aveva perso senso. E però la parola c’era ancora, e in me suonava appunto come questo farneticante abbaio di cane; perché uno non può perdere il suo verso: è lì, vivente, e parla, o abbaia appunto. Ma la parola – come io la sentivo – non aveva più la speranza di essere persuasiva, di avere delle cose dietro di sé di cui essere il veicolo. La parola non era più uno strumento per dire, per esortare, per predicare qualcosa. La poesia è stata per me l’esperienza di un arrivare alle parole; venire alle parole, come si dice venire alle mani. Certo, le parole si possono spiegare: a una frase ne segue un’altra che la spiega, e questa può essere ulteriormente spiegata; ma poi, come dice Wittgenstein, a un certo punto le spiegazioni finiscono. Lì, per me, comincia la poesia. La poesia è una parola che non ha spiegazioni. Poi noi la possiamo spiegare, naturalmente, ma la poesia dice le cose in modo assoluto e definitivo, e senza nessuna giustificazione, nessuna spiegazione; ripeto: noi giustamente la interpretiamo, usiamo altre parole, c’è tutta l’ermeneutica della poesia, come di tutti i testi: la nostra tradizione è fatta così. Però la poesia è veramente l’esperienza di essere arrivati alle parole; le parole diventano qualche cosa che tu non controlli più. Sei come un elefante che barrisce, uno scarafaggio che pigola…

Alessandro Perrone: Infatti, citandoti, «solo chi ha parlato veramente / può veramente essere frainteso»4, e se non è un caso, forse, che i primi oggetti di alterità studiati sono state case, cani, qualcosa di altro dall’uomo, forse quest’incontro con la parola, con la voce che cerca di scendere alla propria parola vera, forse rappresenta un’esigenza di ricollettivizzare un Noi infranto. Voglio quindi chiederti quanto sia stata importante l’esperienza politica di quegli anni nel tuo incontro con la poesia e nell’elaborare la nozione di Canto. E quindi cos’è il Canto e se nasce dall’esigenza di ricollettivizzare questo noi infranto, o da cos’altro. Un’operazione, quella del Canto, che nelle tue poesie e nei tuoi saggi spieghi avvenire attraverso la ricerca della propria parola, quindi quella vera, e quindi potremmo dire individuando e salvaguardando anche il buono del relativismo, forse non per soverchiare la voce dell’altro, ma indicando col proprio cantare la via anche all’altro, a ogni monologismo, per parlare veramente, e quindi insieme incontrarsi nell’alterità. Una terza domanda sarebbe quindi se questo parlare solo con la propria parola, quella vera, perciò persuasiva e incontrovertibile, sia il tuo mezzo paradossale di salvaguardare la polifonia del mondo.

Fiori: È ancora una domanda difficile; spero di riuscire a rispondere. Intanto il Canto. Nella quarta di copertina dell’Oscar è riportato un passo dell’Introduzione di Andrea Afribo che può essere frainteso. Dice Per essere poeta, ha scritto Umberto Fiori, bisogna saper cantare. Questa citazione è per me un po’ imbarazzante; uno che non conoscesse il saggio da cui è tratta potrebbe obiettare: ma perché, scusa, quelli che non sanno cantare non possono essere poeti? Insomma, chi è stonato non può scrivere poesie? Sarei un imbecille, se sostenessi una cosa del genere. Allora cosa intendo dire? Il Canto ovviamente non lo intendo come phonè, uso armonioso, musicale, della voce: semmai proprio il contrario: per me è il saper riconoscere la propria voce, è non utilizzarla a fini retorici, persuasivi, estetici, ma arrendersi, in un certo senso, alla voce che ci è toccata.

Quando parlo di questo argomento mi viene in mente un racconto di Kafka – che come vedete è per me un autore di riferimento importante –: Giuseppina la cantante ovvero Il popolo dei topi, sul quale anni fa ho scritto un saggio. Un topo racconta della topolina-cantante che è la protagonista, e dice più o meno: Giuseppina è la nostra cantante. Chi non la conosce non sa cos’è la potenza del canto. È strano però, perché noi topi siamo refrattari alla musica, non sappiamo cos’è un canto e non abbiamo la capacità di apprezzarlo. E così va avanti. Vi risparmio le varie incongruenze e contraddizioni del racconto; quello che succede è che la topolina crede di avere il controllo del proprio canto, di sapere quanto vale, e pretende un riconoscimento da parte dei topi. Ma – ahimè – i topi non sono in grado di darle il riconoscimento che lei vorrebbe, perché non sono competenti. D’altra parte, il topo narrante dice: sì, lei è una cantante molto brava, ci affascina, ci incanta, però chissà se il suo è veramente un canto; quando ne parliamo tra noi ci pensiamo bene e diciamo che in fondo il suo non è un canto ma un fischio, e di fischiare siamo capaci tutti, anzi forse siamo anche più bravi di Giuseppina. Avete capito qual è la logica, no? Giuseppina sostiene di proteggere il suo popolo, il popolo sostiene invece di essere lui a proteggere lei; quello che ama in lei non è tanto l’abilità quanto l’inermità. La topolina crede di mostrare la sua bravura; quando canta si appassiona, trema tutta; i topi vedono che lei è in pericolo, e alla fine apprezzano non tanto il suo canto (il canto) come bravura, come talento, quanto l’inermità, il rischio nel quale la povera topolina-cantante si muove. In questione, qui, è la comunità. Il Canto fonda la comunità; ma sfugge tanto a chi lo detiene (o pretende di detenerlo) quanto al popolo che dovrebbe riconoscerlo e che dal canto è fondato. E’ talmente alto, il Canto, che non può essere afferrato né dall’uno né dall’altro. È qualcosa che sfugge a tutti e due, ma che li mette insieme, che fonda la comunità, proprio perché non è un’attività estetica, non è l’attività di un artista che mostra la sua bravura e può aspirare a un giusto riconoscimento. La poesia – perché di questo si tratta – è un’offerta, è un dono. Non è un contratto che si stipula con qualcuno: io ti scrivo delle belle parole, tu mi dici bravo. È un’avventura della parola, una sfida, un rischio; un perdersi, anche. Perché altrimenti – almeno così penso io come lettore – quando non c’è in un testo poetico questo abbandonarsi, questo essere disarmati, resta semplicemente la bravura letteraria, l’abilità; una certa sapienza tecnica e culturale, un’ironia, un’intelligenza, tutto quello che volete. Ma la poesia, per me, è un’altra cosa.

Burratti: Infatti Perdere le bravure è anche il titolo del saggio di Afribo.

Fiori: Sì. È una citazione da un saggio che ho scritto anni fa. “Perdere le bravure”, per me, è la premessa per arrivare al canto.

Burratti: E quindi, in modo schietto, secondo te è più difficile scrivere una cosa male, senza bravure, o scriverla bene?

Fiori: Senza bravure. Scrivere male è facilissimo. Scrivere senza bravure è molto difficile. Non voglio dire che noi siamo inevitabilmente bravi, però tutta la nostra educazione ci insegna che esserlo è importante. Essere bravi significa avere il controllo delle cose, del linguaggio, dello stile, della parola, conoscere la tradizione, tutti i punti di riferimento; ma a un certo punto tutte queste bravure bisogna anche perderle, non tanto come scelta stilistica, quanto per entrare in un’altra dimensione; il che non significa che io pensi a una poesia ingenua, naïf, o a un totale disancoramento dalla tradizione, per carità: chi non ha studiato la tradizione è un dilettante, e non sa neanche che cosa sta facendo.

Burratti: Poi non ci sarebbe neanche lo sforzo di aver accumulato le cose e averle poi buttate via.

Fiori: Certo, ma qui non si tratta neanche di superare la tradizione o di inaugurare un nuovo canone; secondo me si tratta proprio di scrivere con tutta un’altra mentalità. Cioè non dicendo (schematizzo) adesso scrivo una bella poesia come dovrebbe piacere ai miei referenti: il pubblico, i miei critici di riferimento, gli autori grandi che mi fanno da modelli ecc.; questo è uno scrivere… come posso dire… da minorenni. Quando diventi “maggiorenne” non te ne frega più niente del fatto che ti dicano bravo, perché quello che è importante, – per ricollegarmi alla domanda che faceva Alessandro prima e alla quale non ho in parte risposto – perché quello che è in gioco veramente, nella parola, è la promessa di una comunità. Che però non c’è. Quello che è in gioco, insomma, non è un riconoscimento artistico, estetico, personale: è trovare quella parola che può – se non fondare – almeno promettere una comunità, identificarla in qualche modo, essere parola comune, comunicare in questo senso profondo; perché altrimenti si è nella sfera estetica, che a me interessa ormai molto poco. Diciamo che quello a cui penso è un passaggio dalla sfera estetica alla sfera etica, o anche politica e, se vogliamo, alla sfera della più autentica poesia. Io credo che la poesia sia l’ambito politico più profondo che c’è oggi, nonostante la sua apparente marginalità. È nella poesia che entrano in gioco le parole. Negli altri ambiti le parole sono come provvisorie, “trattabili”: se ne può discutere, si commerciano, si utilizzano più o meno bene per certi scopi; in poesia, ne va della vita. Il rapporto con la parola lì è vitale, è un rapporto quasi di sangue. In gioco è un’intera comunità, che potrebbe anche non esserci. Quando – ancora per ricollegarmi a quello che diceva Alessandro – negli anni Settanta scrivevo canzoni (ma anche poesie, poi rifiutate), pensavo a un noi che era già dato, perché era il noi dell’ideologia. A tutte le nostre domande c’era una risposta: il presidente Mao Tse-Tung dice che chi non ha fatto pratica tra le masse non ha diritto di parola. Oh! Adesso sappiamo la verità; benissimo, possiamo andarcene tutti a casa. Poi questa cosa si è persa; e per fortuna si è persa, perché se c’è già qualcuno che ti spiega come stanno le cose, se c’è una statua di bronzo nella quale metti un soldino e lei ti dice la verità, allora tu – cosa ci stai a fare? Quando è caduta questa credenza si è perso non soltanto il noi ma direi che si è perso l’Uomo, un’idea precostituita di Uomo… Gli ultimi anni Settanta, e poi gli anni Ottanta e i seguenti, non sono stati soltanto la fine di una certa prospettiva politica: sono stati la fine di una storia dell’Umanesimo che durava da secoli. Io credo che la mutazione che c’è stata in quegli anni sia molto più profonda di quello che riusciamo a pensare. Per me, è stata dolorosissima; ma è stata anche l’occasione per dire: va bene, può anche darsi che la nostra idea di uomo non abbia nessun fondamento, che sia un costrutto ideologico. E poi?. Così, ho ricominciato a pensare. Ma non più a partire da la situazione internazionale è fatta così e così e quindi noi, compagni, dobbiamo fare questo e quest’altro. Ho cominciato a pensare: “io cammino per la strada; un altro deve passare per la stessa strettoia. Chi ci passa? Ci passo io, ci passa lui? E soprattutto: in base a che cosa io ho la priorità e lui no, e perché alla fine lo lascio passare, e perché lui non mi ringrazia, non mi saluta? Perché, invece, io saluto le persone?” Cose assolutamente elementari, primitive, che però rimettevano in gioco, per me, proprio un’idea di uomo che si era completamente appiattita e irrigidita. Bisognava ripensarla e ricostruirla a partire dallo sguardo che la mattina scambi con il tizio che fa colazione con te al bar.

(continua)

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1 Altra discussione, in Esempi, Marcos y Marcos, Milano 1992.

2 Scavo, in cit.

3 La scena, in cit.

4 Un peso, in Chiarimenti, Marcos y Marcos, Milano 1995.

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  • “Perché altrimenti – almeno così penso io come lettore – quando non c’è in un testo poetico questo abbandonarsi, questo essere disarmati, resta semplicemente la bravura letteraria, l’abilità; una certa sapienza tecnica e culturale, un’ironia, un’intelligenza, tutto quello che volete. Ma la poesia, per me, è un’altra cosa.”

    Con questo, Umberto Fiori, disintegra qualsiasi tipo di metodica congetturale, qualsiasi ostentazione delle analisi stilistiche, qualsiasi accademia iper introiettata negli impianti critici – per quanto acerbi – degli intervistatori, i quali, pur veicolando la Poesia in maniera encomiabile, attraverso l’imperscrutabilità mèsica dell’internet, sembrano fin troppo obbligati entro le nomenclature e i paradigmi degli apparati inibiti dei corsi universitari. Forse è bene destituire un certo approccio adolescenziale da intervento masturbatorio alle lezioni del primo anno di lettere e ricollocare, nell’imo della propria formazione, i sensi, le percezioni del miracolo scialbo della poesia. Dovremmo – mi ci metto anche io – ricominciare ad apprendere i modi della lettura, i tempi della lettura, il saper assimilare ogni singolo tratto poetico, e superare la necessità del giudizio.
    “E chi aprirà i vecchi miei lessici e legga / le carte soffiando la polvere, almeno / abbia un giusto scuotere del capo, il capo alzi, guardi / se la mattina è acuta, esca”.
    Diceva quell’altro.
    Un po’ di scioltezza – e un po’ di nazional popolare – ogni tanto fa pure bene.

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    • “Con questo, Umberto Fiori, disintegra qualsiasi tipo di metodica congetturale, qualsiasi ostentazione delle analisi stilistiche, qualsiasi accademia iper introiettata negli impianti critici – per quanto acerbi – degli intervistatori, i quali […] sembrano fin troppo obbligati entro le nomenclature e i paradigmi degli apparati inibiti dei corsi universitari.” Ma lei ha mai letto formavera? Ha mai letto gli editoriali? Perché da come scrive, e dal tono perentorio con cui esprime il suo giudizio, sembrerebbe che lei voglia apparire come tale. Probabilmente lo sarà pure, anche se mi pare altamente improbabile, a meno che lei non sia un pessimo lettore. E tale si dimostra, dal momento che non ha capito assolutamente nulla di quello che facciamo. E non credo neanche abbia letto la conversazione con Fiori, altrimenti avrebbe capito – forse – in che direzione vanno le domande.

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    • Credo che “i sensi, le percezioni del miracolo scialbo della poesia” cui lei si riferisce facciano parte di un’esperienza comune a qualsiasi lettore di poesia. E quindi? Fruizione che si gode il miracolo e non se ne parla più? Credo che invece di poesia si debba parlare eccome, perciò ben vengano la critica, la stilistica, la teoria – a dirlo è lo stesso Umberto Fiori che lei ha (mal) utilizzato come paladino di una lettura recisamente anti-discorsiva (leggere per credere: La poesia è un fischio).
      Affermare che la poesia “è un’altra cosa” dal discorso sulla poesia – e ci mancherebbe – non significa certo delegittimare il secondo, cosa che lei mi sembra fare dietro la maschera di un invito alla scioltezza.
      Quanto al “superare la necessità del giudizio”, mi dispiace: il giudizio estetico fa parte di ogni lettura, non solo delle “metodiche congetturali” da lei avversate.

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  • Mi scusi Dick DIver, lei sta utilizzando in maniera (questa sì) adolescenziale Umberto Fiori a conferma di un’idea di poesia e discorso sulla poesia che lei si è fatto. Ma, a parte le modalità terribilmente meccanicistiche di questa sua operazione, le sarebbe bastato aver letto un minimo del Fiori saggista (Es. “La poesia è un fischio”) per sapere che anche lui la pensa in modo completamente diverso da come lei vuole far apparire. Ricominciare “ad apprendere i modi della lettura, i tempi della lettura, il saper assimilare ogni singolo tratto poetico” può essere anche giusto (e in teoria dovrebbe essere la base di un primo approccio alla poesia) ma poi? Ci fermiamo lì? Anche in questo caso basterebbero i commenti che Fiori ha scritto a numerose poesie di Baudelaire, per fare un altro esempio, a smentirla.

    Prima di criticare a spada tratta il lavoro altrui, in particolar modo se si fa su internet, vetrina pubblica, forse sarebbe meglio come minimo leggere con calma e senza pregiudizi ciò che si vuole commentare. Con buona pace degli “interventi masturbatori alle lezioni del primo anno” e di Fortini.

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