Giorgio Ghiotti | Costellazioni

Uscirà domani, per l’editore Empirìa, Costellazioni, un saggio di Giorgio Ghiotti. Pubblichiamo in anteprima una parte del primo capitolo, intitolato “Una giovinezza inventata”. Ringraziamo autore e editore per la gentile concessione.

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I. Una giovinezza inventata

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1. Per la prima volta da che si è andata formando (ed è ancora in fase d’emersione), una nuova generazione di poeti, quella dei nati negli anni Novanta, ha sentito l’esigenza di scrivere o di riflettere sottendendo – felicemente e miracolosamente, a mio giudizio – un “noi” collettivo.
L’occasione è stata la pubblicazione, nell’aprile 2018, del librino La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… del poeta Cesare Viviani, che apertamente e non privo di un certo rancore taccia i giovani poeti tout court, quasi trattandoli come categoria indistinta o mostro a tre teste, di ignoranza, narcisismo, autoreferenzialità, operando una semplicistica banalizzazione della realtà: «La maggior parte dei poeti più giovani, dai ventenni ai quarantenni, non valorizza il lavoro di noi più anziani. Ci hanno letti solo nelle antologie o su internet. Noi, “ai nostri tempi” e modi, abbiamo letto tutti i libri, dalla prima all’ultima poesia, dei poeti più anziani, con passione e ammirazione (…) il problema è che voi non avete letto nemmeno Luzi o Zanzotto, Sereni o Giudici, Raboni, Porta o Pagliarani, se non nelle antologie o su internet.» Magari le antologie universitarie antologizzassero Raboni o Porta! E in quanto a Pagliarani, bisogna fare il diavolo a quattro per recuperare in libreria l’Elefante Garzanti di tutte le poesie. Per la pace di Viviani, lo spreco è la misura della giovinezza e i poeti ventenni sono disposti a tutto per scovare sugli scaffali più nascosti di qualche libreria indipendente un libro di poesia oramai introvabile, ritrovandosi con la testa piena di versi, la loro camera – spesso di fuorisede – zeppa di libri e poco o niente antologie, le tasche leggere.
Questo lo dico senza alcuna demonizzazione delle antologie, che tanta parte hanno avuto soprattutto dagli anni Settanta a oggi – da Donne in poesia di Frabotta al Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli, fino alla Parola innamorata, all’Io che brucia di Paris e oltre, ai Poeti degli Anni Zero di Ostuni, all’antologia dei poeti bolognesi (di nascita o in transito nella città-simbolo della poesia giovane) Centrale di Transito a cura di Brusa, Campi, Grutt.
Che l’“identikit dei nuovi poeti” tracciato da Viviani possa aderire a qualcuno di noi non lo si nega. Ma Viviani può dormire sonni tranquilli: tra le molte difficoltà e l’inesistente ritorno economico degli studi umanistici oggi in Italia, c’è ancora chi legge, rilegge, rumina, studia, da Alceo a Giorgio Caproni, da Lucrezio e Petrarca ad Amelia Rosselli e Vittorio Sereni, o Toti Scialoja, Vito Riviello, Cosimo Ortesta.  Addirittura – ma qui metto una sola mano sul fuoco – capita che i giovani poeti si leggano tra di loro. Se ne stupisce, signor Viviani?
Non mi interessa la difesa a un attacco (o a un’analisi) privo di fondamento e, dopotutto, facilmente riducibile a quel che è: un lamento che però, a ben vedere, ha avuto il grande merito di innescare nei giovani poeti un desiderio di verità rispetto al racconto che volentieri si fa di loro, un desiderio che spero continui a formalizzarsi nella prima persona plurale, “noi”, generazionale, fugando abilmente anche le insidie del pronome più prezioso e più pericoloso di tutti. No, non ho interesse nel difenderci. I giovani poeti si difendono benissimo da soli con le poesie che scrivono e i libri che pubblicano, quando le une e gli altri hanno un valore riconoscibile. A me interessa piuttosto ragionare sui contrasti e le contraddizioni che coabitano nelle pagine di questo librino, senza che l’autore se ne renda conto, forse offuscato nella sua capacità critica dall’insoddisfazione e dalla delusione per una generazione di poeti «giovani, giovanissimi, che in qualche occasione pubblica mi guardano storto, loro che hanno letto niente dei libri che ho scritto, e mi salutano appena, forse per fare contento il loro tutore che non mi ama, o forse perché io non sono mai riuscito a elogiare i loro versi.»

2. Viviani attribuisce un’importanza centrale al silenzio, ritenendo che in poesia si debba partire dal silenzio e dal vuoto per arrivare alla parola che conserva in sé il silenzio e il vuoto (oggi, scrive, si parte invece dalla parola per scrivere poesia). Lo stesso vuoto che, secondo lui, esiste tra vita e poesia. E non c’è ponte che possa attraversarlo. A me pare, invece, che la poesia stessa sia in grado di farsi ponte tra la vita del poeta e la dimensione più assoluta cui il poeta tende. È vero; «le disgrazie della vita di un poeta e le sue diversità non possono diventare motivazioni dirette o contenuti espliciti della sua poesia. Altrimenti risultano essere veicoli pubblicitari.» Però ogni allegoria ha bisogno, per esistere, di un fatto vero. Se può avere un senso parlare di poesia tematica, è altrettanto insensato credere che il tema possa fare la poesia, o addirittura essere poesia. L. non è diventato un poeta rivoluzionario perché era un uomo della rivoluzione; così come M., che non è stata una donna della rivoluzione, non è diventata conservatrice. «Poeta della Rivoluzione e poeta rivoluzionario – due cose diverse» (Cvetaeva).
Risulta incomprensibile, allora, perché Viviani abbia scritto una lettera d’apprezzamento per uno degli esordi più discussi dell’ultimo anno, Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto, opera strutturata nelle intenzioni come un romanzo in versi sulla transessualità. La premessa è notevole e di enorme interesse, poiché si tratta di uno dei primi libri di poesia ad affrontare il tema della transizione; il risultato (poetico) è per me deludente. Come un giallo magistralmente pianificato che però, per difetto di lingua e di stile, si abbandona prima d’aver risolto il rompicapo. Verrebbe da chiedersi: ma perché voler scegliere per forza la poesia come strumento espressivo? Nessuno ci ha ordinato mai di essere scrittori o poeti. Libro e autrice presentano alcuni degli aspetti criticati proprio da Viviani quando scrive «L’impegno civile della poesia non è dato dai contenuti, espliciti o allusivi che siano. È la poesia stessa (quando c’è) ad essere impegno civile», o, altrimenti detto più efficacemente con Benjamin, il valore politico di un’opera letteraria è il suo valore letterario; «Alcuni poeti oggi puntano sulla propria biografia o su di sé come personaggio: cercano una più facile notorietà attraverso elementi – atti e fatti – biografici.»
È vero, ciò accade perché la critica militante e non, è sempre meno capace di affrontare il testo poetico. Se gran parte della critica non è stata in grado di salvare dalla dimenticanza autori dal potente dettato poetico, relegati a editori minori e costretti a un successo provinciale (ho sentito nello studio di un’agenzia letteraria un agente, che si dichiarava amante della poesia e suo conoscitore, affermare di una poeta romana “Oltre Viterbo non se la fila nessuno”, lasciando intendere che il problema fosse della poeta, e non della critica), come si può pretendere una riflessione seria e circostanziata sui primi risultati poetici dei giovanissimi nati degli anni Novanta? Per fortuna ci sono poeti-critici che continuano, nonostante tutto, a dimostrare un rispetto eguale per poeti di ieri e di oggi, sicuramente nella serietà del loro approccio alla lettura, priva di pregiudizio, indipendentemente dal dato anagrafico dell’autore. Parlo di Roberto Deidier, di Biancamaria Frabotta, per fare solo due nomi.

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4. Per poter avere occhi in grado di capire ciò che si legge, e criticare in modo libero – l’unico possibile –, è necessario riconoscere che anche il critico-critico o il poeta-critico più puro esercita sempre su un testo un giudizio di merito e un giudizio di gusto. L’importante è saperli calibrare, e lasciare che la bilancia penda, per quanto poco, più verso il primo che verso il secondo. “Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace” è un proverbio che non dovrebbe poter funzionare quando si parla di letteratura. Non così poveramente almeno. Io lo riformulerei così: “È bello ciò che è bello, e non sempre è bello ciò che piace”. Che ogni critico porti avanti un discorso teso a includere i suoi “preferiti” e a marginalizzare i restanti (tutti gli altri) mi sembra auto-evidente e, in parte, sensato. Accade lo stesso con i manuali di storia, chi dà una certa rilevanza alla storia economica, chi alla storia delle ideologie, chi alle teorie dei conflitti, chi alla storia sociale. L’importante è non essere ciechi, ma realmente capaci di ammirazione; non chiudersi in gruppi e parrocchie incapaci di comunicare con l’esterno, inclini a bocciare ogni alterità nella quale non scorgano piena corrispondenza. Altrimenti anche la cultura potrebbe non essere lontana, come la politica, dal costruire muri, dal ragionare irrazionalmente e pericolosamente in termini oppositivi: “noi” e “loro”. Ecco il rischio, cui alludevo all’inizio, sul quale deve costantemente sorvegliare la prima persona plurale.
Come ha scritto Berardinelli in Leggere è un rischio, «il critico non dovrebbe approvare libri brutti che illustrano, applicano, sostengono la sua poetica preferita: meglio che invece sappia riconoscere il valore di opere riuscite che si ispirano a una poetica che disapprova.» Parole condivisibili di un critico che non è nuovo ad attacchi duri e a volte esagerati nei confronti della poesia. Parole di un critico al quale Andrea Cortellessa ha augurato di “tornare a credere nella poesia”. Un critico che non più crede nella poesia è un critico in pensione, e farebbe bene a deporre le armi. “Io credo solo in quelle poesie che mi fanno credere nella poesia!” Come nel caso Ortese-Napoli, si è più duri con la creatura che più si ama? «Io stesso detesto la poesia pur avendo organizzato la mia vita su di essa», scrive Ben Lerner in Odiare la poesia.
Per parlare di poesia bisogna parlare d’altro; ma occorrono certamente degli strumenti, e io credo che i poeti della mia generazione, i giovani critici della mia generazione si stiano armando a dovere, mossi dalla passione e dall’intelligenza cui alcuni dei più vecchi pensano forse di poter abdicare, in nome proprio di un nome raggiunto. Non è così se un poeta come Caproni, vivendo al contempo l’esperienza della morte di Dio e della fine del viaggio, del commiato, dell’essere in un certo senso caro a Ferroni già “dopo”, “postumo”, fa monito a se stesso: «Tutto rimane ancora / (ricordalo!) da dimostrare.»
Gli strumenti poetici, critici e umani servono per non lasciare, come accade oggi nella rete-gabbia, che la misura del valore poetico o del valore di pensiero sia legittimato dal numero dei like collezionati sui social. Si dirà: ma ognuno deve essere libero di esprimere il proprio giudizio! E il suo giudizio deve contare quanto il tuo, questa è la democrazia! Questa non è democrazia. Siamo all’acclamazione popolare, al crucifige!, al paradigma della massa manovrabile[1] traslocata da una piazza reale a uno spazio incorporeo ma altrettanto reale. E il simbolo della promozione o della bocciatura della proposta, del “vivi o muori”, è, ieri come oggi, il pollice alzato o abbassato. I segni dei tempi si offrono ambigui non meno dei loro simboli.
Può darsi che non sia per forza (solo) un male la falsa democrazia che, caratterizzante le società contemporanee e in particolar modo quella italiana d’oggi, ha raggiunto com’era inevitabile ogni grado di istituzione esistente, compresa quella culturale. Voglio credere, con Fortini, che il caos dei gusti sia la condizione del buon gusto (del riconoscimento di ciò che è buono davvero), così come l’idiozia è la condizione dell’intelligenza.

5. Voltandosi indietro, alla stagione degli anni Settanta, Ottanta, Viviani denuncia a ragione la svalutazione che oggi avviene della poesia, marginale ora come allora, ma ieri quantomeno tenuta in grande valore. Non sarebbe meglio, si domanda, consegnare a mano 10-20-30-40 copie del libro stampato a nostre spese, facendo 10-20-30 doni?
È quel che ha fatto, da un certo punto in poi, Roberto Roversi, opponendosi strenuamente all’industria culturale e alle grandi case editrici, e decidendo di pubblicare solo su piccole riviste autogestite o di stampare i suoi lavori in proprio, distribuendoli poi agli amici. Così è circolato uno dei libri più belli della poesia italiana del secondo Novecento, L’Italia sepolta sotto la neve, ogni copia numerata a mano e firmata da Roversi con quella sua grafia appena spigolosa che affolla le pagine di vecchie agende usate come quadernoni per scrivere poesie.
Sono d’accordo con Viviani, in linea di principio; ma sento in me l’urgenza per la mia generazione di rispondere a una domanda che mi ossessiona da quando ho iniziato a leggere i libri degli altri e a pubblicare io stesso: Quale storia stiamo scrivendo, quale storia scriveremo domani?
La storia delle arti s’infittisce, s’infoltisce, e non si arresta. Starà a noi decidere, per quel che ci compete e per la fetta d’influenza che potremo avere – al momento sconosciuta in quale percentuale – starà a noi provare a indicare uno sviluppo possibile della storia della poesia contemporanea, per far sì che la narrazione di questi anni non parli (o non solamente) di una pluralità di scritture irrintracciabili, di una nebulosa impossibile da indagare, anni privi di nomi, di opere. La casa editrice è ancora, a me sembra, necessaria. Non se ne può fare a meno. Non così l’editore, sostituito da tecnici del settore o economisti che si comportano (inevitabilmente?) come dirigenti di azienda.
Una via percorribile ci è suggerita dall’esperienza dei poeti a Roma stretti, negli anni Ottanta, intorno alle riviste «Braci» e «Prato Pagano». Recuperando un filo diretto con la tradizione, da un lato, e con i fratelli maggiori che vegliavano ancora sui colli della città (erano ancora vivi e operanti Amelia Rosselli, Dario Bellezza, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni ecc.) dall’altro, hanno optato per un artigianato della poesia, per un impegno non gridato ma costante. Così alla Biblioteca Nazionale di Roma, nel 2018, è stato possibile grazie a Gabriella Sica raccontare una storia di giovinezze incendiate e vera poesia, di anni fragili ma luminosissimi, tra l’università ‘La Sapienza’ e gli spazi di Roma nei quali incontrarsi, ragionare, scontrarsi, crescere, lasciando che naturalmente emergessero nomi e percorsi destinati a durare. Mi domando: sarebbe utile, sarebbe possibile oggi replicare, in mutato contesto, un’esperienza simile a quella? Magari occupandosi, tutti insieme, di una rivista dedicata alla poesia italiana giovane, che non trascuri la pratica della giovane critica, evitando di frammentare esperienze e forze in iniziative magari anche lodevoli ma indipendenti le une dalle altre, come vedo fare soprattutto online da alcuni amici poeti coetanei? E le riviste e i blog online sono davvero più efficaci di una pubblicazione cartacea? Non contano per il successo di un progetto le forze che lo animano, auspicando una direzione comune pur nelle sacrosante e ineliminabili differenze di posizione, più del mezzo, del supporto, della piattaforma che lo veicola?

6. È abbastanza evidente: già da qualche anno, non troppi in verità, le case editrici, e di conseguenza le storiche collane italiane di poesia – dallo Specchio mondadoriano, alla “Bianca” einaudiana fino alla collana Poesia di Garzanti, per citare le tre maggiori – stanno accusando una non trascurabile perdita dell’aura. Che le gloriose collane di ieri non siano più garanzia di qualità letteraria lo dimostrano volumi dal dubbio valore pubblicati in questi ultimi tempi da Mondadori, per esempio Il comune salario di Fabrizio Bernini (discepolo non a caso di Maurizio Cucchi, consulente dello Specchio), o da Einaudi Fatti vivo di Chandra Livia Candiani. Anche le prime due uscite della rinnovata Poesia Garzanti, Via provinciale di Giampiero Neri e La linea del cielo di Franco Buffoni, non erano minimamente all’altezza di quanto pubblicato in precedenza dagli autori – Avrei fatto la fine di Turing è uno dei libri più preziosi di Franco Buffoni, e forse anche uno dei più lirici, insieme a Jucci. De La linea del cielo, mi si perdoni la franchezza, gli elementi migliori sono il titolo e la copertina, e solo in terza battuta uno sparuto gruppo di poesie.
E allora guardiamo altrove. Non ambiamo più a quell’industria che pubblica sempre gli stessi nomi e, possibilmente, sopra i cinquant’anni almeno, giusto? Siamo tutti pronti a traslocare altrove, non è vero? A non vederci più realizzati solo se accolti nelle solite collane note grazie alle quali, pure, abbiamo letto i nostri poeti più amati, i nostri maestri. Sì, giusto! Giusto! «Tutti ti dicono che sono d’accordo con te; in pratica poi, uno non si vuol guastare con l’editore, un altro deve pubblicare un libro e spera nella recensione di Y, un terzo aspetta di entrare nella terna, un quarto c’è entrato, un quinto non può dire quello che pensa di Z perché gli ha portato via la moglie, un sesto sta per partire per un semestre all’università di Salt Lake City, un settimo pensa che ci sia molto da sperare dal prossimo convegno degli scrittori a Kiev, un ottavo ha l’esaurimento nervoso, un nono è morto, un decimo deve ancora nascere.»[2]

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[1] Gustavo Zagrebelsky, Il Crucifige! e la democrazia, Einaudi, Torino 1995.

[2] Franco Fortini, Verifica dei poteri, 1965.

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Immagine: Giuseppe Gallo, Autoritratto autoritario 1 e 2 (2004)

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