Lo sguardo del cobra (ancora su ‘La pura superficie’)

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[Il numero e la qualità delle reazioni a La pura superficie (Donzelli 2017) di Guido Mazzoni confermano quanto già a una prima lettura era perfettamente riscontrabile: che si tratta di un libro importante anche per gli spazi di riflessione che apre relativamente a questioni fondamentali della poesia contemporanea, quali, per tenersi a pochi e capitali esempi, lo statuto del soggetto, la funzione del linguaggio, le opzioni formali (versi/prosa, lirica/saggismo) con tutto ciò che ne viene implicato. Abbiamo già pubblicato un intervento di Carola Borys sulla raccolta qui. Questo secondo, di Filippo Grendene, arricchisce la riflessione da un prospettiva differente ma in qualche modo complementare.]

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Rivendicare un’ottica generazionale stride all’orecchio: suona come un lamento, pare nascondere un errore da imputare allo scarso angolo prospettico. La dissonanza ha a che fare con molte cose: con la difficoltà nel proporre criteri collettivi, con rimorsi economici (per la prima volta, il futuro dei figli è peggiore di quello dei padri, ecc. – per la prima volta, davvero?) oppure psicanalitici (i riflettori puntati su Telemaco non mettono in ombra che la morte del padre è ormai un quasi luogo comune), o altro ancora. Nonostante questa impronunciabilità, se il poeta dice ‘io’ (o ‘tu’, o ‘egli’) è necessario rispondere con un ‘noi’ – noi lettori, noi di una generazione più giovani. Per un motivo ben preciso: il libro di Mazzoni parla del nostro passato, e di una possibilità concreta – e terribile – per il nostro futuro. Proprio per questo, forma e contenuto di questo libro sono veri e vanno affrontati.

Nei versi e nelle frasi di Mazzoni la realtà è colta tutta, ma attraverso lenti polarizzate. La radiazione luminosa del mondo giunge intera quasi fino all’organo della percezione poetica, all’io lirico, ma poco prima dell’avvenimento della percezione incontra questa lente, e solo la radiazione dall’inclinazione e dalla lunghezza d’onda corrispondente riesce passare. Qui si incontra la prima delle contraddizioni che sostengono il libro: l’io lirico sa che la realtà è caleidoscopica e multiforme, ma è anche cosciente di poterne scorgere solo un profilo; gli è stato detto e forse, in passato, ha saputo che poteva essere diverso, ma di tutto questo resta solo un simulacro di cui dubitare. «A volte ha l’impressione di abitare un io vagamente falso che si è costruito nel corso del tempo perché diventi la sua parte migliore» [Genova].
In altri termini, su un piano leggermente sfalsato: in questi testi di qui c’è colui che parla, di là gli ‘altri’ e il ‘mondo’. La ragione dice al primo che i secondi non possono che essere come lui, che dietro ai loro volti chiusi (è la prima delle ossessioni mazzoniane) aleggiano delle anime; mentre l’esperienza e il sentimento suggeriscono che essi non siano altro che spazi vuoti di tutto con i quali è non inutile ma ingenuo pensare di comunicare. L’io lirico assiste al divorzio fra razionalità ed esperienza e si schiera con la seconda.

[…] Non aderisco a nulla, mi sembra
che non aderiate a nulla, siete la parete che manca
del vostro mondo, siete un luogo inabitato. [Quattro superfici]

Immergiamoci come lettori nel gioco della luce fredda che, riflessa dalla pura superficie, oltrepassa gli occhiali mazzoniani. La realtà che ci sta davanti è scarna e brutale, ne esce in tutta la sua nettezza depurata di sovrastrutture emotive e morali, dalle quali l’iride dell’io si ripara con lenti polarizzate. Una parte di ciascuno di noi ha sempre saputo quello che ogni verso e riga di questo libro ci va dicendo: non c’è forza né volontà che possa porre freno al disordine del mondo, non c’è costruzione né amore che resisterà alle ingiurie del tempo, anche del tempo breve. Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Le relazioni umane sono destinate a lacerarsi; si dividono in cinque cerchie, di cui solo la prima è passibile di continuità. La cristallizzazione di questa, però, è avvenuta nel passato («Le persone che significano qualcosa / pochissime, immobili nel tempo – / i genitori interni, B, gli amici fissi, i nemici fissi, / coloro cui rendere conto mentalmente») e non può allargarsi: per ragioni anagrafiche piuttosto tenderà al contrario, rendendo così l’esistenza un’ascesa nel purgatorio della solitudine e della rassegnazione. Verso cosa?

Questa persona non significa nulla per te. La penetri per inerzia
per la logica della serata, quasi tutto ti sfugge,
l’angoscia che provi al risveglio vuol dire che sei solo.
[…]
Da qualche tempo gli eventi scivolano sopra di me,
non mi toccano. Su questo lato
sono con voi, un altro scorre dentro,
è invisibile e mi sovrasta.                                    [Étoile]

La superficie è dunque – già dal titolo – il topos portante. Nella forma di vita occidentale lo scontro fra superficie e profondità è vinto dalla prima, che appare nella sua purezza; per fare in modo che lo resti, deve essere osservata nella pura distanza [Essere con gli altri], o in stato di pura distrazione [finestra altissima], lontana e intonsa come le pure vittime [Angola] o i significati puri [Eigentlich]. La purezza, seconda ossessione, è la cifra del mancato coinvolgimento: tutto ciò che acquista un senso e viene intaccato dai nostri pensieri e azioni entra a far parte di noi, in un certo senso si sporca e non può più esistere in quanto separatezza, nella propria atarassica, pura espressione. La poesia della Pura superficie richiama la purezza perché il coinvolgimento – da non confondersi con l’engagement politico, rispetto a questo più umano, più individuale, prossimo all’empatia – è con attenzione mantenuto distante: della sua violenza s’è già fatta esperienza, non se ne può parlare. Come in un western americano, l’eroe lirico maledetto arriva nella ghost town del presente carico del proprio passato; lo spettatore esperto del genere sa che questo non gli sarà rivelato se non per squarci, ma sa anche che tutto lo svolgimento ne porterà il greve peso. «Ho quarant’anni, sono fatto di pezzi, nulla mi giustifica. Quando provo a raccontare me stesso, la separazione da una persona che ho amato enormemente, so di non capire; quando provo a raccontarla agli altri, mi sembra chiaro che nessuna vita può essere compresa».
Nella raccolta, fra il sé e il resto la lente polarizzata funziona in entrambe le direzioni: non si può capire gli altri come gli altri non possono comprendere l’io; ognuno vede solo la infrangibile pura superficie. Le sue figure sono molteplici, terza ossessione: vetri («La tatuata scende prima di diventare umana, il vetro / moltiplica i dettagli» [Uscire]) schermi («Accade così, senza forma, come questo pomeriggio esploso, il loro, il mio da questa parte dello schermo, la melma in testa, anni interi che non riesco a ricordare» [Accadere]), superfici a specchio («Questa sera capisce di essere una persona media, una persona media e sovrappeso riflessa nel frigo tra i magneti e i ritagli di giornale mentre sta cenando» [Esserci e non avere paura]). Anche i volti hanno la funzione di superficie pura e inattingibile, vera barriera che non lascia trasparire se non l’evidenza: «Spesso nei volti io vedo una distanza pura, / un’esteriorità assoluta [Essere con gli altri]; «Eppure ciò che penso non uscirà da questa faccia, la mia vita impropria sarà mia per sempre» [Eigentlich]. Oppure ancora, ma solo in sogno, la superficie riflettente si rovescia nell’angoscia della pura trasparenza, o della posizione sbagliata:

La seconda superficie è la percezione,
il modo in cui crea un piano di realtà semplificando.
A volte, in sogno, vedo le persone
senza la parete addominale, con gli organi aperti.
È un sogno, significa molto.
In questa poesia significa ciò che normalmente
resta impercepito, la meccanica del corpo, il tubo
di feci che portate dentro per esempio, la sorpresa
di quando la merda si mostra all’esterno come una sostanza aliena. [Quattro superfici]

«Si siede su un davanzale e si sporge per guardare una partita di calcio posta nel profondo, il campo è coperto dai fumogeni, la finestra è altissima in sogno. Per un lungo segmento di tempo la partita lo cattura; poi capisce di avere le gambe nel vuoto a cento metri dal suolo e viene preso dall’angoscia, la finestra si richiude. Ora ha un vetro alle spalle, trova un appiglio nel muro e continua a sporgersi in avanti fino a quando il movimento del corpo lacera il sogno e lo riporta nel letto, da questo lato del vero.» [Finestra altissima in sogno]

Vetro/vero: la paronomasia è calco o eco di Fortini («il sigaro spento non per il dubbio / ma per il dubbio e la certezza / nell’ultima foto / dall’altra parte del vero / occhi smarriti guardandoci»), dove però il soggetto della poesia, György Lukács, sta dall’altra parte del vero proponendo assieme, smarrito, il dubbio e la certezza, mentre qui, da questa parte, solo l’angoscia del vuoto, sotto di sé.

È in una delle tante traduzioni, o rifacimenti, delle poesie di Wallace Stevens che troviamo una delle chiavi della raccolta.

Le foglie gridano. Non è un grido di attenzione divina,
il fumo di eroi tronfi o un grido umano.
È il grido di foglie che non trascendono se stesse
in assenza di immaginazione
senza significare più di ciò che sono. [34]

La trascendenza non è rifiutata solo in quanto tensione religiosa, ma anche dal punto di vista del linguaggio, delle idee e delle cose. Il fatto che nulla significhi più di ciò che è richiama un’altra prospettiva sulla purezza, tale in quanto conclusa e isolata nei propri confini. Attraverso un particolare sguardo sull’abisso materialistico-relativista, vediamo l’io lirico osservare l’intangibilità non solo dell’altro ma più in generale del mondo.
La spirale relativista, quando rifiuta la dialettica, ha lo sguardo ipnotico del cobra, blocca la vita nell’abbaglio della morte. L’io lirico di questa raccolta non distoglie lo sguardo, anche se – qui la seconda contraddizione, che è uno sviluppo della prima – sa che dovrebbe, sa che al pessimismo della ragione una volta ha corrisposto l’ottimismo della volontà. Non è solo un richiamo a Gramsci, ma a quegli squarci di memoria o nostalgia o rimpianto che, alle volte, si aprono inaspettati, soprattutto nelle prose: «ma nel 1976 il mondo è leggibile, lo è oggettivamente; la realtà è un conflitto fra due forme di vita, e questo schema è rozzo ma sta dentro le cose» [Angola]. Lo sguardo del cobra allo specchio vede e sa che il proprio incanto è storico, che solo quaranta anni prima tutto era diverso; tuttavia, il relativismo individualista diviene assoluto, con l’effetto paradossale di approfondire il proprio distacco ipnotico. Infatti, «i conflitti ci interessano perché significano solo se stessi, perché il Ruanda, la Jugoslavia, le primavere arabe significano solo se stesse, sono eventi illeggibili, pure vittime, mentre la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa, anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia. Per questo guardo il viale e passo ad argomenti prossimi […]» [Angola].

L’antropologia mazzoniana coglie l’individuo come compartimentato, incapsulato, impossibilitato a scendere a patti, prima che con gli altri, con le diverse parti in cui è scisso. «Un movimento fatto di aggressione, a suo modo sempre vero, che fa sembrare la vostra vita visibile una schermatura, una costruzione fatta per incapsularsi e coesistere senza attrito», riflette il terribile io lirico-saggistico di Barely legal con le mutande calate davanti a un filmato pornografico. Non dirò certo felicemente scisso e plurale, non si accuserà Mazzoni di decostruzionismo; è piuttosto la constatazione, avvilita, di un dato di fatto. La materialità delle percezioni del reale, insidiata da video e dispositivi, è scavata con l’implacabile fredda abilità del chirurgo di se stesso.

«Poi c’è uno stacco, c’è un effetto di montaggio dopo il quale le teste dei siriani ricompaiono scisse dal corpo, poggiate sulle schiene, e parte la sigla di chiusura. È un video orribile. È un video molto bello. Significa molte cose – per esempio che lo avete visto, che avete desiderato vederlo, che uccidere un nemico è un gesto umano e vi appartiene, e chi sa compierlo è forte, più forte di chi lo guarda mentre fa colazione in una società esteriormente pacifica, occultamente crudele. Mette via il computer, finisce di mangiare.» [Sedici soldati siriani]

L’io lirico è utensile, strumento: impugnato come una mazza, squaderna il sipario sulle viscere esposte del suo omologo, il soggetto occidentale. Dietro l’io lirico non c’è l’autore, c’è il suo pensiero antropologico sul presente, complessivo e orientato – lo si scorge nella foggia degli occhiali polarizzati fatti indossare ai suoi protagonisti, siano essi in terza, seconda o prima persona. L’io lirico è e rimira il rifiuto di ogni trascendenza laica.

La prima volta che ho parlato de La pura superficie di Guido Mazzoni, uscito nel 2017 per Donzelli, è stato con Isacco Boldini, un amico del cui parere sulla poesia contemporanea tendo a fidarmi. Nel libro di Mazzoni, vedila un po’ come ti pare – questo diceva – c’è più storia che in qualsiasi altra raccolta degli ultimi decenni. Provo a verificare questa opinione sulla raccolta e mi rendo conto che è vera, ma a patto di non intendere la Storia come il G8 o il crollo delle torri, ritrovandone invece la tensione nello sguardo che l’io lirico costringe il lettore a non scostare. Lo sguardo del cobra ci mostra una verità sul nostro tempo, sull’incapacità che un’intera cultura ha maturato di concepire l’altro come prossimo e le esistenze come collettive, ancor prima che come modificabili; che solo uno sguardo moralista bollerà come cinica. Per questo La pura superficie è un libro importante, che potrebbe parlare non solo ad un pubblico di letterati. Tuttavia – ecco la terza contraddizione – il pensiero relativista non relativizza se stesso – e d’altra parte, sarebbe possibile? Fino a che punto?
L’assertività non contestabile perché oggettiva, componente fondamentale e costitutiva della lirica, invade spazi che tradizionalmente alla lirica sono contigui, come il saggismo.

«Ha odiato la forma di vita che questa nazione ha imposto al mondo nella seconda metà del XX secolo, sconfiggendo l’idea che un mondo meno ingiusto fosse possibile e facendo di lui un piccoloborghese; può scrivere le parole che leggete grazie alla forma di vita che questa nazione ha imposto al mondo nella seconda metà del XX secolo, sconfiggendo le dittature nate per costruire un mondo meno ingiusto e facendo di lui un piccoloborghese.» [I destini generali]

Se questo estratto non fosse in un libro di poesia, potremmo senza paura tacciarlo di rappresentare una cultura di destra e attaccarlo con argomenti logico-razionali. Si può accusare un libro di poesie di esser di destra? Non ci spingeremo a tanto. Peschiamo allora un po’ a caso – si potrebbe guardare altro – l’estratto da un saggio su 2666 di Roberto Bolaño, pubblicato su Allegoria, postulando il pregio dell’unità d’ispirazione che ogni lettore potrà riconoscere alla scrittura mazzoniana.

«Il caso e la violenza, il caos e l’assurdo sono parte di quella stessa vita che produce differenza e avventura, curiosità e desiderio. Anche Bolaño […] non sembra più credere all’idea di ordine che è implicita nei miti della redenzione o del progresso o al loro riflesso negativo – la nostalgia. Una simile tonalità emotiva parla, senza nominarle, di due svolte storiche decisive: la fine dei miti di emancipazione che hanno segnato la modernità e la diffusione di un nuovo sentimento di immanenza assoluta che è il primo effetto del processo cui Pasolini diede il nome di mutazione antropologica. Un’umanità sciolta dalle promesse e dai legami che non si aspetta alcuna restaurazione, rivoluzione, giustizia o alcun rimedio per il caos, la precarietà e il male, e che vive le intensità libere disponibili qui e ora, spostando il peso dall’interiorità all’azione, dalla ricerca del tempo perduto all’esplorazione dello spazio, dai bilanci esistenziali alle avventure, dal lutto alla disperata vitalità, dall’elegia al desiderio, senza indulgere alla riflessione o alle domande ultime che non hanno risposta, o hanno solo risposte angosciose o indecifrabili. Solo nel disordine siamo concepibili.»

Profondità e superficie, ordine e disordine, mediazione e immediatezza: le endiadi convivono fianco a fianco, nella poesia e nella scrittura di Mazzoni, senza possibilità di dialettizzarsi. Il presente coincide, oggettivamente, con il secondo termine delle coppie, il primo è al massimo passato o nostalgia ma spesso tragedia; nel momento in cui si prende parola bisogna badare alla sola oggettività, alla superficie, a ciò che si mostra senza significare più di ciò che è. Il presente può esser colto solo attraverso l’immediatezza della percezione, nel suo significato materiale e assieme relativo, ogni tentativo di imporvi un ordine risulta illusorio e vano.
In effetti, «l’impianto categoriale del pensiero che innerva la politica moderna […] consiste […] nella centralità del nesso fra disordine come dato e ordine come esigenza: da una parte esiste una realtà minacciosa e instabile, lo stato di natura, dall’altra è indispensabile costruire un edificio che dia forma e stabilità alla politica. Sono questi i due lati, inscindibili, del modo moderno di guardare alla politica. […] è insomma la politica di sinistra a essere orientata dall’idea che siano possibili sicurezza e stabilità, sia pure come esito ultimo di politiche tutt’altro che pacificate e anzi anche molto dinamiche e conflittuali di emancipazione […]; mentre invece per la destra, nonostante l’enfasi che pone sull’Ordine e sulla Tradizione […] è politicamente centrale il disordine» [Galli, Perché ancora destra e sinistra, Roma-Bari 2010, Laterza, pp. 25-42].
In un abisso di sineddochi, un libro di poesia sta al pensiero di un grande intellettuale e questo dà forma alle tensioni di una generazione – quella dei nostri padri o, al massimo fratelli maggiori; quelli nati nel quindicennio 1960-1975, dei quali quale nelle assemblee, nelle discussioni e più in generale nell’impegno sentiamo con violenza la mancanza, bruciati dal craxismo e da Genova («Il giorno dopo sapranno che la polizia è entrata in una scuola per torturare i manifestanti, come nel Sudamerica degli anni Settanta, e proveranno odio, per qualche settimana si sentiranno parte di un movimento immenso, un mese dopo si dissolveranno, dieci anni dopo saranno soli e incomprensibili» [Genova]). Per questo, come dicevo in apertura, il libro di Mazzoni è il nostro passato, ed è una possibilità concreta – e terribile – per il nostro futuro. Per questo in parte ci riconosciamo nei versi, in parte no. Non è detto che, come invece ci dice il poeta sorridendo disperato, non ci sia alternativa.
Per chiudere, leggiamo intero un testo.

Terzo ciclo

E mentre guardi le riviste,
le vite dei calciatori in mezzo alle larve
nella sala della chemioterapia,
sappiamo entrambi che non vivrai,
sappiamo che non servono parole, perciò
guardiamo la stanza o parliamo di Antognoni
o di questo muro fuori filo, che è fatto male e ti disturba,
hai lavorato nei cantieri, è stata questa la tua vita.
Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora,
di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano.

All’ultima poesia de La pura superficie, al limite del libro lo sguardo del cobra si ritrae dal limite della vita. C’è qualcosa nell’oggettività della morte che non consente uno sguardo oggettivo, che non permette all’io lirico di vedere le cose significare solo se stesse. Solo in presenza della morte la lente polarizzata si incrina, e l’io lirico può essere felice assieme a un altro. È vero. Può non essere così.

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Immagine: Larry Towell, The Mennonites (1994)

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