Orazio, Odi. Esercizi per false traduzioni di Tommaso Di Dio, parte IV

Victor Man, Zephir (2014)

di Tommaso Di Dio

[Pubblichiamo la quarta e ultima parte del progetto di “false traduzioni” che Tommaso Di Dio ha intrapreso su alcune Odi di Orazio, accompagnata da una nota introduttiva. Qui la prima, la seconda e la terza parte.]

Queste, più che vere e proprie traduzioni, si propongono al lettore come viraggi, o, se si vuole, teatrali interpretazioni. Liberate sia dai pur giusti e severi obblighi del filologo, sia dalla facile pretesa dell’invenzione, potrà capitare loro di indignare il lettore più scrupoloso; a costui vorrei suggerire che il massimo adempimento di questi che ha davanti a sé  sia l’offerta di un’inaspettata e ulteriore occasione che sì, si torni a leggere quell’ordito di straordinario nitore, tanto numinoso negli originali; e che si indaghi il margine nascosto fra le due lingue, la loro straniata distanza e violenta prossimità. In fondo, sempre si scrive il testo a fronte di un precedente perduto, appena ricordato, sillabato nel vuoto della voce… ritrovarlo qui è il più grande godimento e l’unica ambizione che mi si possa addurre.

***

I, XI

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

I, XI

Non è lecito sapere e tu non chiedere quale termine
alla mia vita o alla tua gli dèi abbiano dato, né potrai indovinarlo
con i numeri di Babilonia: meglio patire quello che sarà.
Sia se Giove ci abbia graziato di molti inverni, sia se questo
sia l’ultimo che sulle opposte rocce sfibri
il mare Tirreno. Sii saggia: rendi chiaro il mosto e riduci
in uno spazio breve la vasta speranza. Mentre parliamo, sfuggito
sarà già il tempo che ci odia: afferra
ogni attimo e, per quanto puoi, non credere al domani.

***

IV, VII

Diffugere nives, redeunt iam gramina campis
arboribus comae;
mutat terra vices et decrescentia ripas
flumina praetereunt;
Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
ducere nuda chorus.
Inmortalia ne speres, monet annus et almum
quae rapit hora diem.
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas,
interitura simul
pomifer autumnus fruges effuderit, et mox
bruma recurrit iners.
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae:
nos ubi decidimus
quo pater Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,
puluis et umbra sumus.
Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae
tempora di superi?
Cuncta manus avidas fugient heredis, amico
quae dederis animo.
Cum semel occideris et de te splendida Minos
fecerit arbitria,
non, Torquate, genus, non te facundia, non te
restituet pietas;
infernis neque enim tenebris Diana pudicum
liberat Hippolytum,
nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro
vincula Pirithoo.

IV, VII

Si dissolvono le nevi e già tornano l’erba sui campi
le foglie sugli alberi;
la terra alterna e muta la propria sorte e i fiumi che decrescono
abbandonano le loro rive.
La Grazia con le Ninfe e le sue due sorelle osa nuda
condurre le danze.
Affinché tu non speri cose immortali, la stagione ammonisce e l’ora
che toglie ogni nostro giorno capace di vita.
Il vento Zefiro rende mite il freddo, la primavera lo schiaccia e l’estate
morirà, non appena il fruttuoso
autunno avrà sparso le sue messi e subito inerte
arriva nuovamente il gelo.
Le veloci lune dei mesi ripareranno i danni prodotti dal cielo:
quando cadremo,
dove il padre Enea, dove il ricco Tullo e Anco sono,
saremo polvere e ombra.
Chi conosce se gli dei senza tempo aggiungeranno
giorni futuri ai giorni odierni?
Tutto sfuggirà dalla mano avida dell’erede, tutto ciò
che avrai saputo dare al tuo animo amico.
Una volta che sarai tramontato e di te Minosse
avrà dato i più lucidi giudizi,
non la tua famiglia, o Torquato, non la tua ricchezza
non il tuo amore verso gli dei ti riporternno in vita;
dalle tenebre degli inferi, Diana non liberò
il casto Ippolito,
né Teseo fu capace, per il suo amico Piritoo, di spaccare
le catene dei morti.

***

III, XIII

O fons Bandusiae splendidior vitro,
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberis haedo,
cui frons turgida cornibus
primis et venerem et proelia destinat.
Frustra: nam gelidos inficiet tibi
rubro sanguine rivos
lascivi suboles gregis.
Te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile
fessis vomere tauris
praebes et pecori vago.
Fies nobilium tu quoque fontium
me dicente cavis impositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae.

III, XIII

O fonte Bandusia, più trasparente del vetro
e degna di dolce vino; non senza fiori domani
ti donerò un capretto, la cui fronte
turgida per le prime
corna all’amore e alla guerra lo destina
invano: l’allegro neonato di un gregge
farà rosse di sangue le gelide tue
acque scorrenti. Non osa
toccarti l’atroce ora dell’ardente estate; e invece offri
un’amabile frescura al toro
stanco per l’aratro e al vagabondo
bestiame. Diverrai fonte fra le più celebri
poiché canto l’elce che s’inclina
sugli scavati sassi, da cui scattano
loquaci le acque tue.

***

II, XX

Non usitata nec tenui ferar
penna biformis per liquidum aethera
vates neque in terris morabor
longius invidiaque maior

urbis relinquam. Non ego pauperum
sanguis parentum, non ego quem vocas,
dilecte Maecenas, obibo
nec Stygia cohibebor unda.

Iam iam residunt cruribus asperae
pelles et album mutor in alitem
superne nascunturque leves
per digitos umerosque plumae.

Iam Daedaleo ocior Icaro
uisam gementis litora Bosphori
Syrtisque Gaetulas canorus
ales Hyperboreosque campos.

Me Colchus et qui dissimulat metum
Marsae cohortis Dacus et ultimi
noscent Geloni, me peritus
discet Hiber Rhodanique potor.

Absint inani funere neniae
luctusque turpes et querimoniae;
conpesce clamorem ac sepulcri
mitte supervacuos honores.

II, XX

Con un’ala comune e tenue non salirò
io, vate biforme, attraverso i fluidi
spazi del cielo; superiore all’invidia
non mi tiene la terra e le città
abbandonerò. Non io, pur sangue di padri poveri
non io che tu, o amato Mecenate, chiami per nome,
andrò incontro e sarò rinchiuso
dall’onda Stigia. Già, ecco, la rugosa pelle sulle gambe
aderisce; e dall’alto sono trasformato
in alato biancore mentre crescono
leggere le piume sulle dita e sulle spalle. Vedrò
più rapido dell’industrioso Icaro le ecolaliche
coste del Bosforo e cantando
vedrò le Sirti in volo
di Getulia e gli Iperborei
campi. Mi conoscerà l’abitante
della Colchide e il Dacio che finge di non temere
le schiere dei Marsi e poi in terra gli estremi
Geloni; imparerà il mio nome il dotto Ibero
e il Gallo che beve dal fiume Rodano. Stiano lontane
dal mio cadavere le inutili canzoncine di pianto
e la vergognosa tristezza e il lamento; tu reprimi
il clamore: abbandona
le superflue onoranze del sepolcro.

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Immagine: Victor Man, Zephir (2014)

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