di Tommaso Di Dio
[Oggi pubblichiamo la prima parte di un progetto di “false traduzioni” che Tommaso Di Dio ha intrapreso su alcune Odi di Orazio, accompagnata da una nota introduttiva]
Queste, più che vere e proprie traduzioni, si propongono al lettore come viraggi, o, se si vuole, teatrali interpretazioni. Liberate sia dai pur giusti e severi obblighi del filologo, sia dalla facile pretesa dell’invenzione, potrà capitare loro di indignare il lettore più scrupoloso; a costui vorrei suggerire che il massimo adempimento di questi che ha davanti a sé sia l’offerta di un’inaspettata e ulteriore occasione che sì, si torni a leggere quell’ordito di straordinario nitore, tanto numinoso negli originali; e che si indaghi il margine nascosto fra le due lingue, la loro straniata distanza e violenta prossimità. In fondo, sempre si scrive il testo a fronte di un precedente perduto, appena ricordato, sillabato nel vuoto della voce… ritrovarlo qui è il più grande godimento e l’unica ambizione che mi si possa addurre.
***
III, XXV
Quo me, Bacche, rapis tui
plenum? Quae nemora aut quos agor in specus
velox mente nova? Quibus
antris egregii Caesaris audiar
aeternum meditans decus
stellis inserere et consilio Iovis?
Dicam insigne, recens, adhuc
indictum ore alio. Non secus in iugis
exsomnis stupet Euhias,
Hebrum prospiciens et niue candidam
Thracen ac pede barbaro
lustratam Rhodopen, ut mihi devio
ripas et vacuum nemus
mirari libet. O Naiadum potens
Baccharumque valentium
proceras manibus vertere fraxinos,
nil parvum aut humili modo,
nil mortale loquar. Dulce periculum est,
o Lenaee, sequi deum
cingentem viridi tempora pampino.
III, XXV
Dove mi trascini, o Bacco, io che sono
ricolmo di te? In quali boschi e in quali grotte
sono io veloce gettato, con una mente
irriconoscibile? Da quali antri
io sarò udito mentre provo
ad infiggere l’eterno splendore di Cesare
fra le stelle e fra i seguaci del dio Giove?
Dirò l’emblema, fresco di forza, ciò che fin qui
non fu mai detto d’altra bocca. Come la baccante
sui gioghi dei monti, priva di sonno è stupefatta
contemplando il fiume Ebro, la piana bianchissima
della Tracia innevata e il Rodope percorso dal piede
di popoli stranieri, così io lontano
dagli umani cammini godrò vedendo vuoti
i boschi e le spiagge. O potenza delle Naiadi
e delle baccanti che con le mani possono
inginocchiare gli alti frassini, io non pronuncerò
alcun suono meschino, né terreno
né mortale. È un dolce pericolo, o Leneo
seguire il dio incoronato
da un verdeggiante pampino.
***
II, V
Nondum subacta ferre iugum valet
cervice, nondum munia comparis
aequare nec tauri ruentis
in venerem tolerare pondus.
Circa virentis est animus tuae
campos iuvencae, nunc fluviis gravem
solantis aestum, nunc in udo
ludere cum vitulis salicto
praegestientis. Tolle cupidinem
immitis uvae: iam tibi lividos
distinguet autumnus racemos
purpureo varius colore;
iam te sequetur; currit enim ferox
aetas et illi quos tibi dempserit
adponet annos; iam proterva
fronte petet Lalage maritum,
dilecta, quantum non Pholoe fugax,
non Chloris albo sic umero nitens
ut pura nocturno renidet
luna mari Cnidiusve Gyges,
quem si puellarum insereres choro,
mire sagacis falleret hospites
discrimen obscurum solutis
crinibus ambiguoque voltu.
II, V
Pur sottomessa, la tua giovenca non è ancora capace
di sopportare il giogo; non ancora eguaglia
nel lavoro i doveri di compagna, né tollera
il peso che irrompe
del toro in amore. L’istinto la spinge attorno
ai campi verdeggianti, ora alleviando
la forte afa nei fiumi, ora desiderando
sotto l’umido salice il gioco
con i vitelli. Scaccia
il desiderio dell’uva prematura: già per te lividi
l’autunno distinguerà i racemi
vario di purpureo colore; fra poco, sarà lei stessa
che ti seguirà, perché feroce
il tempo corre; e quegli anni che avrà
tolto a te, a lei saranno aggiunti. Già sfrontata
Lalage cerca l’uomo, amata
quanto mai lo sarà la ritrosa Foloe, né Clori
con le spalle così splendenti e bianche, come pura
luna che ride riflessa
sul mare di notte; neppure Gige di Cnido, che
se lo mescolassi ad un coro di ragazze
mirabilmente un oscuro limite
ingannerebbe il più scaltro ospite, quando
sono sciolti i suoi capelli, tanto
ambiguo è il suo volto.
***
I, XXII
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nec venenatis gravida sagittis,
Fusce, pharetra,
sive per Syrtis iter aestuosas
sive facturus per inhospitalem
Caucasum vel quae loca fabulosus
lambit Hydaspes.
Namque me silva lupus in Sabina,
dum meam canto Lalagem et ultra
terminum curis vagor expeditis,
fugit inermem,
quale portentum neque militaris
Daunias latis alit aesculetis
nec Iubae tellus generat, leonum
arida nutrix.
Pone me pigris ubi nulla campis
arbor aestiva recreatur aura,
quod latus mundi nebulae malusque
Iuppiter urget;
pone sub curru nimium propinqui
solis in terra domibus negata:
dulce ridentem Lalagen amabo,
dulce loquentem.
I, XXII
L’uomo puro da crimini e che gode
intero della vita non ha bisogno, o Fosco,
dei dardi mauri, non dell’arco né della faretra
gravida di frecce avvelenate, sia che debba
viaggiare per le ondose Sirti o per l’inospitale
Caucaso o per i territori che il favoloso
Idaspe tocca. Infatti un lupo davanti a me senza armi, fuggì via
in un bosco della Sabina
mentre andavo cantando la mia Lalage
vagando oltre i confini scacciati
tutti i pensieri: un mostro tale che mai
nutrì la bellicosa Daunia, densa di larghi
lecceti, né mai generò la terra di Giuba, nutrice
arida di leoni. Mettimi
dove nessun albero negli sterili campi
sia ristorato dal vento estivo o in quell’area
del mondo che un mal cielo schiaccia
di piogge e di nuvole; mettimi
in una terra negata alle case umane perché troppo
vicina sotto il carro del sole: io amerò
sempre, Lalage che dolce ride
che dolcemente parla.
***
I, IX
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto?
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
strauere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quaerere, et
quem fors dierum cumque dabit, lucro
adpone nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
I, IX
Vedi come sta alto di neve candido
il monte Soratte, né già ne sostengono
i boschi affaticati il peso e per l’acuto
ghiaccio i fiumi stanno immobili? Dissolvi
il freddo riponendo largamente
legna sopra il fuoco e, o Taliarco, cava
con abbondanza dall’anfora sabina
il vino vecchio di quattro anni. Agli dèi
lascia ogni altra cosa; non appena abbattono
i venti che imperversano sull’agitato
mare, non si muovono più
né i cipressi, né gli orni. Su ciò che sia il domani
scaccia ogni pensiero e qualunque giorno
la sorte ti darà, riponilo
come guadagno; tu giovane
non disprezzare i dolci amori né le danze
finché dal tuo vigore stia lontana
la vecchiaia piena di indugio. E adesso per te
siano il Campo di Marte e le piazze
e che tu possa ripetere i deboli sussurri
all’ora stabilita; per te ora sia l’ingannevole
gradito riso della ragazza che si nasconde
nell’angolo più remoto e il pegno
che tu le strappi dal braccio o dal dito
che resiste, sempre di meno.
Immagine: Bartolomeo Manfredi, Bacco e un bevitore
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