a cura di Marco Malvestio
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In destarsi al romor del mare
Amico sonno e placida quiete,
davan tregua a l’usata mia fatica;
e i danni, che mi fa bella nimica,
erano tutti omai sepolti in Lete.
Ma nel vicino mar, da le secrete
parti già suona il Dio che l’acque intrica,
e par che l’onda al mio riposo dica:
fuggi da quelle membra afflitte e quete.
Così mi desto, e ‘l tralasciato affanno
mi trovo intorno, e nuove pene amare
che la strada del cor troppo ben sanno.
E forse del mio pianto ivi son care
l’acque, e se i fiumi volentier lo danno,
vuol pur dagli occhi miei tributo il mare.
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Notte
Amica notte, dal sublime nido
d’alteri monti per pietate omai
vola veloce, e i chiari e lieti rai
di Febo asconda il mar lungi dal lido.
Si celi Amor nel manto ombroso e fido
che di stellata pompa ornar ti fai:
le vie gradite e solitarie sai,
ov’io t’aspetto e lascio il vulgo infido.
O dolce speme degli accesi amanti,
ombra gentil, che per soave aita
sol di riposo col tacer ti vanti,
vieni deh vieni; e poiché anco t’invita
colei ch’è vaga d’asciugarmi i pianti,
sii tu parte maggior de la mia vita.
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Ad un lauro, nella crudeltà della sua donna
Arbor, già donna innesorabil fera
in fuggir troppo il tuo leggiadro amante,
egli ti vide pur fermar le piante
e ti venne a baciar, benché non vera.
Ed agli amati rami espose intiera
l’amara istoria del voler costante:
al sordo tronco languida e tremante
giunse la voce vaga e lusinghiera.
I’ misero, i’ dolente, ho già seguito
un cor sì duro ch’è converso in pietra;
né mai fermo è però, ma più spedito.
Dal mio l’ultima speme ancor s’arretra,
e rimanendo mesto e sbigottito,
solo da l’ombre tue riposo impetra.
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Torquato Accetto viene ricordato non tanto come poeta quanto come compilatore di quel trattato Della dissimulazione onesta che è poi stato ingiustamente trasformato in un simbolo dei difetti del suo secolo; e sarebbe difficile ammettere che i suoi versi meritano un posto a sé nella storia della letteratura italiana. Accetto in effetti è una di quelle figure che risultano inevitabilmente spettrali nel momento in cui ci si accorge che la mancanza di informazioni su di loro nasconde davvero una assenza di informazioni da raccogliere: di una vita spesa tra il lavoro di segretario e un cauto costeggiare i circoli letterari campani, non ci rimangono che un (allora) sfortunato trattato e un altrettanto sfortunato canzoniere, da cui vengono queste rime, delicate, graziose e tradizionali. La figura che si intravede dietro di esse, nella sua malinconiosa pavidità, ha qualcosa da dire sul ruolo, sulla condizione e anche sulla personalità dei letterati italiani: e anche per questo non mi sembra inopportuno chiudere con lui la nostra rubrica.
Immagine: Guercino, Paesaggio al chiaro di luna, 1616