Orazio, Odi. Esercizi per false traduzioni di Tommaso Di Dio, parte II

Wenzel Hablik - Crystal Castle in the Sea

di Tommaso Di Dio

[La seconda parte del progetto di “false traduzioni” che Tommaso Di Dio ha intrapreso su alcune Odi di Orazio, accompagnata da una nota introduttiva]

Queste, più che vere e proprie traduzioni, si propongono al lettore come viraggi, o, se si vuole, teatrali interpretazioni. Liberate sia dai pur giusti e severi obblighi del filologo, sia dalla facile pretesa dell’invenzione, potrà capitare loro di indignare il lettore più scrupoloso; a costui vorrei suggerire che il massimo adempimento di questi che ha davanti a sé  sia l’offerta di un’inaspettata e ulteriore occasione che sì, si torni a leggere quell’ordito di straordinario nitore, tanto numinoso negli originali; e che si indaghi il margine nascosto fra le due lingue, la loro straniata distanza e violenta prossimità. In fondo, sempre si scrive il testo a fronte di un precedente perduto, appena ricordato, sillabato nel vuoto della voce… ritrovarlo qui è il più grande godimento e l’unica ambizione che mi si possa addurre.

***

II, III

Aequam memento rebus in arduis
servare mentem, non secus in bonis
ab insolenti temperatam
laetitia, moriture Delli,
seu maestus omni tempore vixeris
seu te in remoto gramine per dies
festos reclinatum bearis
interiore nota Falerni.
Quo pinus ingens albaque populus
umbram hospitalem consociare amant
ramis? Quid obliquo laborat
lympha fugax trepidare rivo?
Huc vina et unguenta et nimium brevis
flores amoenae ferre iube rosae,
dum res et aetas et Sororum
fila trium patiuntur atra.
Cedes coemptis saltibus et domo
villaque, flauvs quam Tiberis lavit,
cedes, et exstructis in altum
divitiis potietur heres.
Divesne prisco natus ab Inacho
nil interest an pauper et infima
de gente sub divo moreris,
victima nil miserantis Orci;
omnes eodem cogimur, omnium
versatur urna serius ocius
sors exitura et nos in aeternum
exilium impositura cumbae.

II, III

Ricordati di conservare nelle avversità
una mente serena; non diversamente
nei giorni di fortuna, sii distante
dall’insolente allegrezza. O Dellio: morirai
sia che tu abbia vissuto afflitto tutto il tempo
sia che su di un’erba remota, in giorni
di gioia, tu ti sia beato
del vino di Falerno dall’etichetta più segreta.
A quale fine il grande pino e il bianco pioppo
con i rami amano intrecciare
un’ombra ospitale? Perché s’affatica nel curvo
fiume l’onda rapida, tremando? Ordina
di portare qui i vini, i profumi e le deliziose
troppo brevi rose, mentre lo permettono
le sostanze, l’età e i neri stami
delle tre sorelle. Svanirai
dalle terre che hai comprato; e dal palazzo
e dalla villa che il biondo Tevere dilava
sarai cancellato: del patrimonio che hai
tanto in alto accumulato un erede
prenderà possesso. Non importa
se ricco sei nato dall’antico e nobile Inaco
o se povero, da infima famiglia, ti attardi
sotto il nudo cielo: sarai vittima
dell’Orco che di nulla prova pietà. Tutti
siamo spinti verso lo stesso luogo; per tutti
dentro l’urna una sorte si agita che, presto o tardi,
rivelandosi, ci imporrà l’esilio
eterno, su di una piccola nave.

***

I, XXXIV

Parcus deorum cultor et infrequens,
insanientis dum sapientiae
consultus erro, nunc retrorsum
vela dare atque iterare cursus
cogor relictos: namque Diespiter
igni corusco nubila dividens
plerumque, per purum tonantis
egit equos volucremque currum,
quo bruta tellus et vaga flumina,
quo Styx et invisi horrida Taenari
sedes Atlanteusque finis
concutitur. Valet ima summis
mutare et insignem attenuat deus,
obscura promens; hinc apicem rapax
Fortuna cum stridore acuto
sustulit, hic posuisse gaudet.

I, XXXIV

Ero incerto nel culto degli dei e poco curante
finché ho vissuto nel decreto
di una folle sapienza; ma ora indietro
sono costretto a dirigere il corso delle vele
e a ripetere la rotta abbandonata: infatti il dio padre
che spacca le nuvole con il lampo del fuoco
per il puro cielo conduce i tonanti
cavalli e l’alato carro, per il quale trema
la bruta terra e i mobili fiumi, la spaventosa
entrata dell’odiato Tenaro e lo Stige, trema
il confine di Atlantide. È capace e inverte
le più vili cose nel contrario: il dio fa opaco
colui che splende, poiché porge
alla luce l’oscuro. Rapace la Sorte
con un acuto fischio da qui
solleva un elmo e gode
laggiù di averlo riposto.

***

III, XXII

Montium custos nemorumque virgo,
quae laborantis utero puellas
ter vocata audis adimisque leto,
diva triformis,
inminens villae tua pinus esto,
quam per exactos ego laetus annos
verris obliquom meditantis ictum
sanguine donem.

III, XXII

Dei monti custode e dei boschi, o Vergine
che tre volte invocata il travagliato
ventre delle donne ascolti e togli
alla morte; o dea triforme
questo che sulla villa incombe sia
il tuo pino; che io, quando al termine
volga ogni anno, felice possa
di un maiale che si prepari al ricurvo assalto
donare sangue.

***

II, XI

Quid bellicosus Cantaber et Scythes,
Hirpine Quincti, cogitet Hadria
divisus obiecto, remittas
quaerere nec trepides in usum
poscentis aevi pauca: fugit retro
levis iuventas et decor, arida
pellente lascivos amores
canitie facilemque somnum.
Non semper idem floribus est honor
vernis neque uno luna rubens nitet
voltu: quid aeternis minorem
consiliis animum fatigas?
Cur non sub alta vel platano vel hac
pinu iacentes sic temere et rosa
canos odorati capillos,
dum licet, Assyriaque nardo
potamus uncti? dissipat Euhius
curas edacis. Quis puer ocius
restinguet ardentis Falerni
pocula praetereunte lympha?
Quis devium scortum eliciet domo
Lyden? Eburna dic, age, cum lyra
maturet, in comptum Lacaenae
more comas religata nodum.

II, XI

 

Rimanda che cosa mediti il guerreggiante
Cantabro o lo Scita, diviso da noi dal gettato
mare Adriatico, o Quinzio Irpino
rimanda ad altro momento
e non farti trepido per un’età della vita
che chiede poco: fugge alle spalle
la grazia e la leggera giovinezza, mentre arida
la vecchiaia i dolci amori
scaccia e il facile sonno. Non sempre
la medesima bellezza è nei fiori di primavera
né con un volto solo
brilla rossa la luna: perché affatichi
la mente che di propositi eterni
non è capace? Perché non sdraiati
insensati, beviamo sotto l’alto platano
o sotto questo pino, profumati
e aspersi finché ci è concesso nei bianchi capelli
dall’unguento di nardo e dalla rosa? Evio dissipa
gli affanni che ci divorano. Quale ragazzino
tempererà veloce il boccale di ardente Falerno
con l’acqua che da fonte scorre? Chi riuscirà
a trascinare fuori da casa l’inaccessibile
Lide la puttana? Dille di venire
con la lira d’avorio, che s’affretti:
come una donna di Sparta
con la chioma scomposta e legata
in un nodo.

Immagine: Wenzel Hablik – Crystal Castle in the Sea

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