Un nuovo modo di compiersi. La supplica all’azione di Stefano Dal Bianco /1

Sayaka Ganz, Emergence

di Pietro Cardelli

«Scusa, non so da quanto poco tempo non sopporto
nessuna cosa che sia fuga»

[S. Dal Bianco, Dislivello. Primo appello]

I. Introduzione

Pubblicato nel settembre 2012, Prove di libertà (Mondadori) di Stefano Dal Bianco si è rivelato fin da subito un libro complesso, difficile e necessaria prosecuzione di Ritorno a Planaval (Mondadori, 2001). Silloge di sessanta poesie scandite su un’attenta architettura in nove sezioni, Prove di libertà costruisce l’itinerario, o meglio, il lavoro che il poeta pratica su di sé e che, quasi in un atto d’amore, mostra e presenta al lettore. Ne deriva un vero e proprio percorso sulla via che i micro-soggetti che dicono “io” delle poesie costituiscono, i quali, sempre tesi ad una ricomposizione conclusiva ma mai definitiva, sembrano dirci per voce del poeta: questo è quello che io sto cercando e costruendo nella mia vita, credo che sia qualcosa in cui tutti dovremmo immetterci, o almeno qualcosa su cui tutti dovremmo capirci1. Proprio su questo elemento di base emerge quel senso di fatica, di volontà di evasione dalla gabbia iniziale, che alimenta l’intera raccolta e che, nel suo procedere, infonde ai testi quell’agognata libertà propria del titolo. Se infatti Ritorno a Planaval è stato più volte descritto come un diario, io direi che Prove di libertà possa definirsi con un nuovo termine: lavoro2. E’ infatti un vero e proprio lavoro, nella sua accezione di pratica di verità, di esercizio di vita, che caratterizza l’intera raccolta e che riesce a far sì che anche i momenti più gurdjieffiani non vengano mai sentiti come “trasposizione in versi di precetti filosofici”, ma come passi di verità e di azione, vera e necessaria “poesia delle cose”. Gli insegnamenti di Grotowski e Gurdjieff, entrambi cari a Dal Bianco, riescono così ad emergere senza fatica pagina dopo pagina, trovando qui nella stesura in versi quella forma che i due maestri cercavano di trasmettere sulla scena e nella vita. Ciò è fondamentale per capire come tutta la raccolta sia incentrata ed indirizzata verso una pratica quotidiana, un modus vivendi, da compiersi giorno dopo giorno, ognuno per sé e, forse, ognuno per tutti.

Un altro elemento che mi preme sottolineare come introduzione a questa analisi è il rapporto fra Ritorno a Planaval e Prove di libertà. Se infatti il primo è un libro estremamente aperto e collettivo, diaristico e familiare, contemplativo e petrarchescamente antitetico; il secondo si presenta invece come fondato sul gesto, sulla pratica quotidiana, sull’azione da compiersi ognuno nella propria esistenza, al fine di liberarsi da quelle che sono le costrizioni della propria «gabbia» o personalità. La frattura è però tanto grande quanto minima. Il Dal Bianco di Planaval non può naturalmente essere quello di Prove di libertà e il lungo tempo senza scrivere apertosi nel 2001 e più volte evidenziato dal poeta3 ne è il simbolo manifesto, ma quella voglia di aprirsi al lettore, di abbracciarlo in una volontà di comprendersi sempre più ampia e integra, rimane il lascito principale della prima alla seconda raccolta; così come quel sentire quasi inconscio, ritmico e formale, per la tradizione che emerge nelle prime sezioni di Prove di libertà. E allora ciò che sarà necessario notare, elemento centrale per capire sia il rapporto fra le due sillogi che il movimento interno a Prove di libertà stesso, è invece il mutamento che si sviluppa fra la raccolta del 2001 e quella del 2012: l’ultimo libro di Dal Bianco, infatti, condivide fortemente nella prima parte quelli che erano gli elementi, in particolar modo ritmici e intonativi, di Planaval, per poi, in una sorta di frattura determinata dall’esigenza di dire determinate cose e di farlo in un certo modo, abbandonarli e mutare completamente dettato; e, se accogliamo come l’aspetto formale sia centrale in questo poeta4, comprenderemo il solco, netto e deciso, apertosi fra le due raccolte. Negarne la forza sarebbe miope e incoerente. Sta a noi adesso addentrarci tra queste pagine, per cercare di cogliere questa notevole frattura.

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II. Il suono delle cose

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a. Struttura e intento della raccolta

Come già evidenziato nell’introduzione, Prove di libertà si presenta costituito da un’attenta struttura: sessanta poesie si distribuiscono all’interno della raccolta su nove sezioni, sette delle quali seguono la successione delle note della scala musicale e due, “Avvocato del diavolo” (quarta) ed “Essere umani” (nona e ultima), come intervalli. Numerose citazioni, colte o quotidiane, anticipano e precedono alcune delle nove parti che la compongono. Quella che a prima vista sembrerebbe una complessa e alquanto razionale segmentazione, mostra invece, già quindi con la sua architettura, la volontà di aderire al pensiero della scuola di Georges Ivanovic Gurdjieff. Secondo il filosofo e mistico armeno, infatti, ogni processo di cambiamento nella vita quotidiana di ognuno di noi segue un percorso non lineare e non retto simile alla scala diatonica musicale dei sette toni (DO, RE, MI, FA, SOL, LA, SI), in cui tra il MI ed il FA ed il SI ed il DO, non esistono semitoni, ma dei vuoti, degli intervalli che determinano degli sviamenti. Solo la presa di coscienza dell’esistenza di questi vuoti all’interno della vera vita vissuta e la conseguente messa in pratica di shock, anche dolorosi, su di sé ci può permettere di superare, concretamente nella vita quotidiana appunto, quelli che sono i momenti di “deviazione”. Vuoto sarà allora parole-chiave dell’intera raccolta5, ricorrente in particolar modo nelle prime sezioni, con un acme in quella d’incipit: Dalla gabbia.

Ma cosa si intende con questo vuoto, con questi intervalli di niente dei quali è fondamentale prendere coscienza e superarli nella vita concreta e quotidiana, nella viva azione di tutti i giorni? Per rispondere a questa domanda è necessario analizzare quella che è la situazione di partenza, il cumulo di contraddizioni che dà vita al libro. Il soggetto di Prove di libertà è un elemento sdoppiato, frammentato, sempre alla ricerca di una risoluzione, quasi di uno spogliamento, che dia la possibilità di placare la dialettica interiore, di riempire i vuoti e gli intervalli della nostra esistenza eludendo le sovrastrutture della personalità. Ascolto, azione, dialogo interiore saranno allora il fondamento di un percorso «che passa per un vuoto / ma che non trova il vuoto». Lo sdoppiamento del soggetto, condizione iniziale e pervasiva della raccolta, deriva quindi da una contraddizione: quella fra personalità ed essenza. Ciò che siamo soliti chiamare dolore e che attribuiamo alle più molteplici concause, viene qui individuato da Dal Bianco con franchezza, determinazione e nessuna sicumera: «ma è soltanto dolore / di anime costrette, / solitudine di molti, / vuoto vissuto male, / mancanza o assenza di uno scopo». Con dolore si intende quindi la gabbia iniziale, gabbia in cui tutti ci troviamo senza neppure rendercene conto, gabbia costruita da noi stessi, dagli attributi coscienti o meno della nostra personalità. Abbandonare ciò che crediamo di essere, il soggetto che crediamo ci determini, deve essere il passo decisivo da compiersi. Prendere coscienza di esso è il primo gradino di un intero percorso personale. Solo così, su queste basi di partenza, è possibile allora osservare quella che è l’intera raccolta: un cammino in prima persona nel magma della vita, nella quotidianità delle azioni, in un continuo dialogo con se stessi, con il «gemello» che ci abita, al fine di spogliarci da ciò che crediamo sia la nostra personalità per raggiungere la vera essenza della nostra persona. Affidare il proprio cammino alla poesia significa quindi rischiare, camminare sul labile confine del banale e dell’essenziale, sporcarsi le mani nel fluire della vita, ma, allo stesso tempo, significa affidarsi totalmente al lettore, al quale viene così richiesto non solo uno sforzo che sia prova d’amore, ma anche la volontà, la fatica di comprendere che quello che viene delineato è un cammino che tutti dovrebbero compiere, o al quale almeno si dovrebbero rivolgere.

Caratteristica principale di questo cammino, abbiamo detto, è il lavoro, l’attuazione nella prassi quotidiana del processo che viene compiuto. Questo fa sì che il libro si presenti come una continua dialettica tra ciò che è interiore – dialogo fra i micro-soggetti che ci costituiscono, ascolto del «gemello», dell’autocoscienza senecana che è in noi – e ciò che è esteriore – l’azione concreta nella quotidianità dell’esistere. Ad evidenziare la componente fisica ed attuativa di questo lavoro sono numerose ricorrenze lessicali legate appunto al lavoro, alla necessaria fatica di questo percorso, alla lotta intrattenuta dal soggetto poetante con ciò che lo costituisce e lo lega: «imparo la fatica di ascoltare» da La conquista del futuro, «l’amico mio che vive in me / e mi trattiene in lotta con me stesso» da Beata solitudo? Sola beatitudo?, «Non si combina niente senza un pensiero intenzionale» da Varietà e problemi di pensiero, «concentrato, maledettamente preso / nel suo sogno, come fosse un lavoro» da Sogno o visione di Arturo, «Meccanismo infernale» e «si gira attorno alla cosa da fare» da Meccanismo infernale, «Un lavoro da fare» da Un lavoro da fare, «Considera che siamo in molti / in questo sogno faticoso» da Un equilibrio di fatiche6. Scrive giustamente Simone Burratti nella sua recensione a Prove di libertà:

Siamo in presenza qui di una volontà poetante estremamente “attiva”, a un vero e proprio compendio di “prove di libertà”, tentativi di evadere dalla «gabbia» e «dal dolore / di anime costrette» della poesia d’apertura: tutta la raccolta può essere riassunta in questo sforzo, in questo costante lavoro su se stessi che si contrappone, con metodo, ai continui snodi palinodici di un io frammentato”.7

Il cammino di ricerca di sé, di distruzione di tutto ciò che è personalità, deve avvenire allora e soprattutto sul piano pratico della vita, nelle azioni compiute nella quotidianità. La questione del ruolo della poesia si pone allora con forza. Che valore può avere il verso in tutto questo? Se da un lato alla poesia si chiede di farsi descrizione del cammino, apertura al lettore, necessità di comunicazione, ma assolutamente non risoluzione del dramma (emblematica in questo caso la lirica Meccanismo infernale: «Ma la peggiore delle cose è farne, / per salvarsi, un argomento di scrittura / come farebbe il più imbecille dei poeti […] Poesia, schifosa scappatoia, / sparisci, via, dalla mia vita»); dall’altro non si può non notare come questo testo citato sia inserito nella sezione “Cinismi e cattiverie”, la quale richiede una lettura nettamente antifrastica, quasi a voler trasmettere il contrario di ciò che i versi recitano, e di come altri momenti della raccolta consegnino invece alla poesia un ruolo decisamente diverso, quasi liberatorio e salvifico: «Portami via, poesia, non farmi fare più / ciò che non voglio / perché davvero io non finga più con gli altri / al passo della produzione / di cose e parole». Ciò che emerge è, in definitiva, una spinta antitetica, nella quale entrambi i momenti sono necessari e funzionali all’intera silloge: da un lato la pressante inevitabilità di concentrarsi su ciò che è azione al fine di costruirsi un percorso che possa condurre ad un nuovo riconoscimento di sé, della propria essenza, mettendo così da parte gli aspetti personalistici e post-romantici della scrittura; dall’altro l’idea di fondo di tutta la poesia di Dal Bianco, ovvero, come scriveva già nel 2003, nel saggio Il suono della lingua e il suono delle cose:

Chi ama la lingua ama le cose, chi sa ascoltare la lingua sa ascoltare il silenzio delle cose. Non c’è amore senza fisicità e non c’è poesia senza un rapporto fisico con le cose e con la lingua, che ne è l’allegoria razionale. Per il tramite delle cose la temporalità entra nella lingua: bisognerebbe toccare le parole come se fossero cose8.

Solo la lingua, e quindi la poesia, permette al poeta di toccare con mano quello che è un percorso di vita concreta, di riconoscimento e spogliamento nella realtà quotidiana; solo la poesia può garantire la forza e la veridicità di un resoconto di questo tipo; solo la poesia, in conclusione, può consegnarsi in modo tale al lettore da aprire la via al suo di percorso, alla sua di fatica.

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b. Lontano da Planaval, tra levità e consapevolezza

Il rapporto fra Ritorno a Planaval e Prove di libertà emerge all’interno dell’ultima raccolta come un processo di allontanamento, di distacco progressivo da quella che era stato uno dei libri di poesia più letti ed amati dei primi anni zero. Ciò che mi preme sottolineare e su cui vorrei soffermarmi è il fatto che, a partire dalla sezione intitolata “Mi. Aforismi di lavoro”, e ancor più con la seguente “Fa. Cinismi e cattiverie”, vada a costituirsi una frattura vera e propria, sia in senso formale-stilistico che contenutistico, rispetto a Ritorno a Planaval. Ciò è ancora più evidente, e si vedrà nella seconda parte di questo saggio, se osserviamo come nella sezione delle poesie dedicate ad Arturo – “Re. Lontano dagli occhi” – Dal Bianco raggiunga l’acme per quanto riguarda quegli elementi ritmico-prosodici tipici della raccolta uscita nel 2001 e di Stanze del gusto Cattivo9, per poi rivolgersi ad una scrittura diametralmente opposta, fondata più sulle cose che sulla lingua. Ma soffermiamoci adesso sugli aspetti più propriamente contenutistici di questa frattura.

Dopo aver descritto la situazione iniziale, di stallo e vuoto, del soggetto rinchiuso nella gabbia della propria personalità, punto di partenza del percorso di riconoscimento e spogliamento, Prove di libertà si apre ad una serie di poesie dedicate o riferite ad Arturo, figlio del poeta. Quest’insieme di componimenti, nove in tutto, incentrati su quei momenti della quotidianità che vanno a costruire il rapporto padre-figlio, introducono una contrapposizione che sarà fondamentale per tutto l’insieme del libro. Ciò che si nota10 è infatti una sorta di contraddizione interna: da un lato la consapevolezza della propria condizione di «anima costretta» e quindi la necessità di non lasciarsi distogliere da quelle che sono le piccole gioie quotidiane, e con questa tutto il dolore in senso sia metafisico che concreto che ne consegue, dall’altro la volontà e il desiderio di abbandono nella leggerezza di Arturo, nella sua inconsapevole saggezza, unica forza forse possibile, imperterrita dinnanzi al mondo dei «grandi». Antitesi in primo luogo petrarchesca che emerge in maniera lampante e struggente in queste liriche. Si prenda per esempio la quarta poesia della sezione, Sogno o visione di Arturo, della quale in seguito si proporrà anche un’analisi stilistica:

Un pomeriggio ho chiuso gli occhi a letto un quarto d’ora
e in sogno o in dormiveglia, ma molto chiaramente,
ho visto Arturo che dormiva.

Arturo, il vero Arturo,
quando dorme fa una faccia strafottente
come di chi non avesse doveri
ma soltanto diritti di pappa e di nanna
e di gioco e di cacca
da tenere a memoria,
e di questo si vantasse o compiacesse
perché possa invidiarlo
(alla faccia mia, al mio cospetto)
o sciogliermi d’affetto.

Questo qui della visione invece se ne stava
(falso Arturo, mia proiezione)
coricato sul fianco come un grande, e serio
concentrato, maledettamente preso
nel suo sogno, come fosse un lavoro.11

Poesia suddivisa in tre strofe, ognuna ha, dal punto di vista contenutistico, una sua rilevante importanza. Se infatti la prima è costituita dalla presentazione della scena e dall’introduzione all’evento – un semplice riposo pomeridiano del soggetto, il quale lo ha portato a sognare Arturo, lui stesso dormiente –, le seguenti due si costruiscono una in contrapposizione all’altra: da un lato il «vero Arturo», dall’altro il «falso Arturo, mia proiezione». È allora la figura di Arturo stessa che allegorizza l’antitesi propria del soggetto poetante, la sua scissione. Il «vero Arturo», infatti, è quello in cui ci si vorrebbe immedesimare, è colui che, eludendo la propria gabbia, riesce a “strafottersene” della sua costrizione, è il soggetto nella vera e piena espressione di sé, pronto nella sua bontà e semplicità a prendersi gioco di chi, guardandolo, non riesce ad accogliere tutta quella spontanea inconsapevolezza. Il «falso Arturo» invece, è più simile all’io della gabbia, cosciente della propria ineluttabile condizione e del cammino che lo aspetta, cammino fatto di dolori insostenibili ma necessari. Proprio per questo il «falso Arturo» ha le sembianze dell’adulto, serio e concentrato, «maledettamente preso / nel suo sogno, come fosse un lavoro»12; la sua consapevolezza gli impedisce di guardare alla vita in maniera differente, almeno fino a quando le sue prove di libertà cesseranno di essere solo tentativi.

Altri elementi di questa contrapposizione ricorrono lungo tutta la raccolta. Per quanto riguarda il polo positivo ma inconsapevole, che potremmo definire infantile, emblematica è anche la prima poesia della serie di Arturo, Per la mattina dopo del mio amore, prima che vada al lavoro, o Faccia di Arturo, in cui il desiderio di legarsi a quell’«infame paffuto»13, di accettare tutta la sua fede nel senso delle cose, raggiunge il suo apice. Questo Arturo, «vero Arturo», si pone così, rispetto al soggetto, con la forza della sua spontaneità e, viceversa, con la debolezza del suo “non-porsi-domande”. Sembra quasi, e in questo sta la tragicità ancora fortemente legata a Planaval di questa sezione, che egli non possa non andare incontro a quello che è il destino riservato al soggetto che lo descrive. Anche lui, raggiunta l’età adulta, acquisirà la decisiva e allo stesso tempo dolorosa coscienza della propria condizione, e anche lui, se non vorrà rimanere schiacciato dalla gabbia che lo rinchiuderà, dovrà iniziare il proprio percorso di ricostruzione.

Conclusasi la sezione relativa ad Arturo, si apre, come già accennato nell’introduzione al saggio, una vera e propria frattura rispetto a Ritorno a Planaval. Il «falso Arturo», la sua consapevolezza della necessità di dar inizio al percorso di ricostituzione interiore, ha avuto il sopravvento; non è più possibile rimandare. E’ infatti da questo momento che inizia il vero e proprio lavoro che il soggetto poetante deve compiere, dentro e fuori di sé. “Mi. Aforismi di lavoro”, terza sezione della silloge, ne determina il punto di partenza, introducendo i temi del gemello e del dialogo-scontro-ricomposizione dei vari micro-soggetti che costituiscono l’io poetante di Prove di libertà. D’ora in avanti la prima preoccupazione di chi parla nei versi sarà quella di esporre il proprio faticoso cammino, il percorso compiuto dentro di sé e nella vita quotidiana, al fine di ricondurre il lettore ad uno stesso sforzo. E’ come se, da questa sezione in poi, cominci un nuovo bisogno nella poesia di Dal Bianco: dire cose, fare in modo che possano essere davvero comprese, porsi sullo stesso piano del lettore e, con lui, affrontare il cammino più difficile ma inevitabile da compiersi.

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1 C. Crocco, La lirica, il silenzio, la nausea del verso. Conversazione con Stefano Dal Bianco, www.quattrocentoquattro.com. «L’inghippo in Prove di libertà è capire che c’è uno che ti sta facendo un diario di quello che sta costruendo in sé, perché ritiene sia quello che dovremmo fare tutti. Un libro così sta rischiando tanto, è chiaro. E’ sporchissimo, in un certo senso: c’è tutto».

2 Già Simone Burratti in La libertà dopo Planaval: una lettura di Prove di libertà di Stefano Dal Bianco su www.quattrocentoquattro.com: «E proprio quello del “lavoro” è, insieme alla “libertà” del titolo, uno dei temi fondamentali attorno al quale ruotano tutta la filosofia e le funzioni interne del libro; “lavoro” inteso come termine tecnico, importato direttamente dal pensiero e dalla scuola di Georges Ivanovic Gurdjieff».

3 C. Crocco, La lirica, il silenzio, la nausea del verso. Conversazione con Stefano Dal Bianco, www.quattrocentoquattro.com.

4 Si vedano: S. Dal Bianco, Manifesto di un classicismo, “Scarto Minimo”, I, marzo 1987, pp.11-15; S. Dal Bianco, Fra la vita e la poesia, “Scarto Minimo”, V, Giugno 1989, pp. 7-11; D. Dal Bianco, Il suono della lingua e il suono delle cose, “Trame di letteratura comparata”, III, 7, 2003, pp. 185-193; C. Crocco, La lirica, il silenzio, la nausea del verso. Conversazione con Stefano Dal Bianco, www.quattrocentoquattro.com.

5 Alcuni esempi: «vuoto vissuto male» da Dalla gabbia, «Ed è un percorso, amore mio, / che passa per un vuoto / ma che non trova il vuoto […] sono passato / da un troppo pieno, a un vuoto, a qualcos’altro» da Gradazioni, «Carità, sordità, vuoto» da Carità, sordità, vuoto, «Una poltiglia, un surgelato / il vuoto, il niente, l’assoluto» da Albori di io (corsivo mio).

6 Corsivo delle citazioni sempre mio.

7 S. Burratti, La libertà dopo Planaval: una lettura di Prove di libertà di Stefano Dal Bianco, www.quattrocentoquattro.com.

8 S. Dal Bianco, Il suono della lingua e il suono delle cose, “Trame di letteratura comparata”, III, 7, 2003, pp. 185-193.

9 S. Dal Bianco, Stanze del gusto cattivo, in F. Buffoni (a cura di), Primo quaderno italiano, Guerini e Associati, Milano, 1991.

10 Invito a notare come già in Ritorno a Planaval era presente una poesia che aveva come soggetto Arturo, o almeno un ipotetico Arturo. Sto parlando di Prima di Arturo nella sezione “Una vita nuova”. Per quanto riguarda invece la sezione sempre su Arturo di Prove di libertà, si tenga presente come essa sia stata una delle prime, in senso cronologico, ad essere scritta dopo il blocco seguito alla pubblicazione di Ritorno a Planaval, del 2001.

11 S. Dal Bianco, Prove di libertà, cit., p. 18.

12 Ibidem, p. 18. Interessante notare come negli ultimi versi della terza lassa venga ripetuto con una certa durezza, quasi a mimare la fatica del lavoro da compiersi, il nesso consonante occlusiva velare sorda /c/ più vocale semichiusa /o/: «coricato sul fianco come un grande, e serio / concentrato, maledettamente preso / nel suo sogno, come fosse un lavoro».

13 Ibidem, p. 19.

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