Jacopo Sannazaro, due prose

sannazaro

a cura di Marco Malvestio
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dall’Arcadia

I

Giace nella sommità di Partenio, non umile monte de la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso però che il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare verdura. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o quindici alberi, di tanto strana et eccessiva bellezza, che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli. Li quali alquanto distanti, et in ordine non artificioso disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono.

Quivi senza nodo veruno si vede il drittissimo abete, nato a sustinere i pericoli del mare; e con più aperti rami la robusta quercia e l’alto frassino e lo amenissimo platano vi si distendono, con le loro ombre non picciola parte del bello e copioso prato occupando. Et èvi con più breve fronda l’albero, di che Ercule coronar si solea, nel cui pedale le misere figliuole di Climene furono transformate. Et in un de’ lati si scerne il noderoso castagno, il fronzuto bosso e con puntate foglie lo eccelso pino carico di durissimi frutti; ne l’altro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia e ‘l fragile tamarisco, insieme con la orientale palma, dolce et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo presso un chiaro fonte sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete, nel quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso Apollo non si sdegnarebbe essere transfigurato. Né sono le dette piante sì discortesi, che del tutto con le lor ombre vieteno i raggi del sole entrare nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente gli riceveno, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda grandissima recreazione. E come che di ogni tempo piacevole stanza vi sia, ne la fiorita primavera più che in tutto il restante anno piacevolissima vi si ritruova.

In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti convenire, e quivi in diverse e non leggiere pruove esercitarse; sì come in lanciare il grave palo, in trare con gli archi al versaglio, et in addestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte, piene di rusticane insidie; e ‘l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro, non senza pregio e lode del vincitore. […]
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V

Era già per lo tramontare del sole tutto l’occidente sparso di mille varietà di nuvoli, quali violati, quali cerulei, alcuni sanguigni, altri tra giallo e nero, e tali sì rilucenti per la ripercussione de’ raggi, che di forbito e finissimo oro pareano. Per che essendosi le pastorelle di pari consentimento levate da sedere intorno a la chiara fontana, i duo amanti pusero fine a le loro canzoni. Le quali sì come con maraviglioso silenzio erano state da tutti udite, così con grandissima ammirazione furono da ciascuno egualmente comendate, e massimamente da Selvaggio, il quale non sapendo discernere quale fusse stato più prossimo a la vittoria, amboduo giudicò degni di somma lode; al cui giudicio tutti consentemmo di commune parere. E senza poterli più comendare che comendati ne gli avessemo, parendo a ciascuno tempo di dovere omai ritornare verso la nostra villa, con passo lentissimo, molto degli avuti piaceri ragionando, in camino ne mettemmo.

Il quale avegna che per la asprezza de l’incolto paese più montoso che piano fusse, non di meno tutt’i boscarecci diletti che per simili luoghi da festevole e lieta compagna prender si puoteno, ne diede et amministrò quella sera. E primeramente avendosi nel mezzo de l’andare ciascuno trovata la sua piastrella, tirammo ad un certo segno; al quale chi più si avvicinava, era, sì come vincitore, per alquanto spazio portato in su le spalle da colui che perdea; a cui tutti con lieti gridi andammo applaudendo dintorno e facendo maravigliosa festa, sì come a tal gioco si richiedea. Indi di questo lasciandone, prendemmo chi gli archi e chi le fionde, e con quelle di passo in passo scoppiando e traendo pietre, ne diportammo; posto che con ogni arte et ingegno i colpi l’un de l’altro si sforzasse di superare. Ma discesi nel piano e i sassosi monti dopo le spalle lasciati, come a ciascuno parve, novelli piaceri a prendere rincominciammo; ora provandone a saltare, ora a dardeggiare con li pastorali bastoni, et ora leggierissimi a correre per le spiegate campagne; ove qualunque per velocità primo la disegnata meta toccava, era di frondi di pallidi ulivi onorevolmente a suon di sampogna coronato per guiderdone. Oltra di ciò, sì come tra’ boschi spesse volte addiviene, movendosi d’una parte volpi, d’altra cavriuoli saltando, e quelli in qua et in là con nostri cani seguendo, ne trastullammo, insino che agli usati alberghi da’ compagni, che a la lieta cena n’aspettavano, fummo ricevuti; ove dopo molto giocare, essendo gran pezza de la notte passata, quasi stanchi di piacere, concedemmo alle esercitate membra riposo.

[…]

***

La ricchezza innaturale dei dettagli, incastonati in una prosa che procede a ondate, variando pochi tratti e incastonando subordinate, crea una sensazione di suadente artificiosità. L’orizzonte è chiuso, ma al suo interno si raccoglie prodigiosamente tutta la varietà della vita: l’abete, la quercia, il frassino, il platano, il pioppo, il castagno, il bosso, il pino, il faggio, il tiglio, la tamerice, la palma, il cipresso. Anche un tramonto non è mai un solo tramonto, ma una somma di tutti i tramonti possibili, viola, rosati, rossi, limpidi, nerastri, dorati. E al di sotto di questi paesaggi è tesa comunque una rete di sicurezza: niente è originale, ogni cosa ha un riscontro puntuale nella letteratura coeva e passata. In questo scenario (in questa scenografia) di malinconica e rassicurante falsità si muovono i pastori, le proiezioni dell’autore e dei suoi: e la letteratura, di nuovo e per sempre, si trasforma in una fuga dalla morte.

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