Viktor Šklovskij | L’arte come procedimento

30546149_10213931744319108_670246797_o

in L. Rosiello (a cura di), Letteratura e strutturalismo, Zanichelli, Bologna 1974, pp. 45-61.

*

[…]

Anche la legge dell’economia delle energie creative appartiene al gruppo di quelle leggi che vengono comunemente accettate. Spencer scriveva: «Alla base di tutte le norme che determinano la scelta e l’uso delle parole, troviamo la stessa esigenza fondamentale: il risparmio di attenzione… Condurre l’intelletto per il cammino più facile al concetto desiderato è in molti casi l’unica meta, e comunque quella principale…» (Filosofia dello stile). […] Il principio dell’economia delle energie creative, che è cosi seducente in particolare nell’esame del ritmo, fu riconosciuto anche da Aleksandr Veselovskij, che completò il pensiero di Spencer: «Il pregio dello stile consiste proprio nel fornire la maggiore quantità possibile di concetti nella minore quantità possibile di parole». Anche Andrej Belyj, che nelle sue pagine migliori ha dato tanti esempi di un ritmo «impedito», e per così dire «zoppicante», e che ha mostrato la complessità degli epiteti poetici (specialmente su esempi di Baratynskij), ritiene indispensabile parlare della legge dell’economia in un suo libro che rappresenta un vero tentativo eroico di creare una teoria dell’arte sulla base di fatti non verificabili, tratti da libri ormai invecchiati, e di una grande conoscenza dei procedimenti della creazione poetica, nonché sul manuale di fisica di Kraevič per i ginnasi.

Il concetto dell’economia delle energie, come quelli della legge e dello scopo della creazione, sicuri (forse) nel caso particolare della lingua, cioè sicuri nella loro applicazione alla lingua «pratica», – questi concetti, per le scarse conoscenze delle differenze tra le leggi del linguaggio pratico e quelle del linguaggio poetico, erano diffusi anche recentemente. Il rilevamento del fatto che nel linguaggio poetico giapponese ci sono suoni che non si trovano nel giapponese pratico, fu – si può dire – la prima indicazione concreta della non-coincidenza dei due linguaggi. L’articolo di L. P. Jakubinskij sull’assenza della legge della dissimulazione delle liquide nel linguaggio poetico, e la tolleranza da lui rilevata nel linguaggio poetico dell’accostamento, difficilmente pronunciabile, di suoni simili, è una delle prime indicazioni di fatto, che reggano ad una critica scientifica, della opposizione delle leggi del linguaggio poetico nei confronti di quelle del linguaggio pratico – anche se, diciamo per ora, solo in questo caso.

Pertanto bisogna parlare delle leggi del dispendio e dell’economia nel linguaggio poetico, non in analogia con quello prosaico, ma in ragione delle sue leggi particolari.

Se ci mettiamo a riflettere sulle leggi generali della percezione, vediamo che diventando abituali, le azioni diventano meccaniche. Così, per esempio, passano nell’ambito dell’«inconsciamente automatico» tutte le nostre esperienze; se uno ricorda la sensazione che ha provato tenendo in mano per la prima volta la penna, o parlando per la prima volta in una lingua straniera, e confronta questa sensazione con quella che prova ora, ripetendo l’azione per la decimillesima volta, sarà d’accordo con noi. Col processo dell’automatizzazione si spiegano anche le leggi del nostro linguaggio prosaico, con le sue frasi non completate, e le sue parole pronunciate a metà. È un processo la cui espressione ideale è l’algebra, in cui gli oggetti vengono sostituiti dai simboli. Nella rapidità del linguaggio pratico le parole non vengono pronunciate fino in fondo, e nella coscienza appaiono appena appena i primi suoni della parola. Pogodin (La lingua come creazione, p. 42) porta come esempio che, quando un bambino pensa la frase «Les montagnes de la Suisse sont belles», la pensa sotto forma della serie di lettere «L, m, d, l, S, s, b».

Questa proprietà del pensiero non solo ha suggerito la via dell’algebra, ma anche la scelta dei simboli (le lettere, e precisamente le iniziali). Con questo metodo algebrico, gli oggetti vengono considerati nel loro numero e volume, ma non vengono visti: li conosciamo soltanto per i loro primi tratti.

L’oggetto passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è, per il posto che occupa, ma ne vediamo solo la superficie. Per influsso di tale percezione, l’oggetto si inaridisce, dapprima solo come percezione, ma poi anche nella sua riproduzione; e precisamente con questa percezione della parola prosaica, si spiega la sua «non-ascoltabilità» totale (cfr. L. P. Jakubinskij) e quindi la sua «non-pronunciabilità» totale (di qui vengono tutti i lapsus).

Dal processo di algebrizzazione, di automatizzazione dell’oggetto, risulta una più ampia economia delle sue forze percettive: gli oggetti o si danno per un solo loro tratto, per es. per il numero; oppure si realizzano come in base ad una formula, anche senza apparire nella coscienza.

«Avevo pulito in camera, e fatto il giro della stanza, mi sono avvicinato al divano, senza riuscire a ricordarmi se l’avevo spolverato o no. Poiché questi movimenti sono abituali ed inconsci, non potevo neppure avvertire che ormai era impossibile ricordarsene. Sicché, se avevo già pulito il divano e me n’ero dimenticato, cioè se avevo agito inconsciamente, era come se non lo avessi fatto. Se qualcuno coscientemente mi avesse visto, avrebbe potuto farmelo tornare in mente: ma se nessuno aveva visto, o aveva visto ma inconsciamente; se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata≫ (Appunti dal diario di Lev Tolstoj, Nikol’-skoe, 29 febbraio 1897, in «Letopis’» [Annali], dicembre 1915, p. 354).

Così la vita scompare trasformandosi in nulla. L’automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra.

«Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata».

Ed ecco che per restituire il senso della vita, per «sentire» gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte e di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come «visione» e non come «riconoscimento»; procedimento dell’arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di «sentire» il divenire dell’oggetto, mentre il «già compiuto» non ha importanza nell’arte.

La vita di un’opera poetica (artistica) si muove dalla «visione» al «riconoscimento», dalla poesia alla prosa, dal concreto all’astratto, dal Don Chisciotte – scholasta e povero cortigiano che semiconsciamente prova umiliazione alla corte del duca –, al Don Chisciotte di Turgenev, grande ma vuoto; da Carlo Magno alla parola korol’ (re); a misura dell’agonia dell’opera e dell’arte, essa si estende, la favola è più simbolica del poema, e il proverbio della favola.

[…]

Gli oggetti percepiti diverse volte, cominciano ad essere percepiti per «riconoscimento»: l’oggetto si trova dinanzi a noi, noi lo sappiamo, ma non lo vediamo.

Per questo noi non possiamo dirne nulla. La sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione si compie nell’arte in vari modi: in questo saggio voglio indicarne uno, quello di cui si servì quasi costantemente L. Tolstoj, scrittore che, almeno secondo Merežkovskij, sembra rendere le cose come egli stesso le vede, fino in fondo, pur senza modificarle.

Il procedimento dello straniamento in Tolstoj consiste nel fatto che non chiama l’oggetto col suo nome, ma lo descrive come se lo vedesse per la prima volta, e l’avvenimento come se accadesse per la prima volta; per cui adopera nella descrizione dell’oggetto non le denominazioni abituali delle sue parti, bensì quelle delle parti corrispondenti in altri oggetti. Porto un esempio. Nell’articolo Vergogna, L. N. Tolstoj «strania» il concetto di fustigazione in questo modo: «…denudare, gettare al suolo e battere con le verghe sulla schiena chi ha infranto le leggi»; e alcune righe dopo: «scudisciare sulle natiche denudate».

A questo punto osserva: «E perché proprio questo stupido, selvaggio modo di causare dolore, e non un altro qualsiasi: pungere con aghi la spalla, oppure un’altra parte del corpo, o ancora, stringere con una morsa le mani o i piedi, oppure qualcosa del genere?»

Mi scuso per l’esempio pesante, ma è tipico della maniera di Tolstoj per toccare la coscienza. Una comune fustigazione viene «straniata» sia con la descrizione, che con la proposta di cambiarne la forma, pur senza mutarne l’essenza.

[…]

Esaminando il linguaggio poetico nella sua dimensione fonetica e lessicale, come nella modalità di collocazione delle parole e delle costruzioni semantiche costituite dalle parole stesse, troviamo dappertutto lo stesso segno della artisticità: il fatto che esso viene creato intenzionalmente per una percezione estratta dall’automatismo, e che la sua «visione» è lo scopo stesso dell’autore, e viene creata «artificiosamente» in maniera che la percezione vi indugi, e raggiunga la sua forza e durata più alte possibili, per cui l’oggetto è recepito non nella sua spazialità, ma, diciamo cosi, nella sua continuità. A queste condizioni soddisfa anche il linguaggio poetico. Il linguaggio poetico secondo Aristotile deve avere il carattere dello «straniero» e del sorprendente; e in pratica risulta spesso straniero: sumerico per gli assiri, latino per l’Europa medievale, arabo per i persiani, vetero-bulgaro come fondamento del russo letterario, o lingua inconsueta come lingua delle canzoni popolari, lingua corrente per quella letteraria. A questo possiamo ricondurre gli arcaismi largamente diffusi nella lingua poetica, le difficoltà della lingua del dolce stil novo (XIII secolo), la lingua di Arnaud Daniel col suo stile oscuro e le sue forme difficoltose (harte) «che confidano nella difficoltà della pronuncia» (Diez, Leben und Werke der Trobadour, p. 213) . L. Jakubinskij in un suo saggio ha mostrato le leggi della difficoltà per quanto riguarda la fonetica della lingua poetica, nel caso particolare della ripetizione di suoni simili. Sicché la lingua della poesia è una lingua difficile, difficoltosa, impedita. In alcuni casi particolari la lingua della poesia si avvicina alla lingua della prosa, ma ciò non inficia le leggi della difficoltà.

[…]

Il linguaggio poetico è un «linguaggio-costruzione». La prosa è linguaggio consueto: economica, regolare, facile (dea-prorsa – dea dei parti regolari, della «giusta» posizione del bambino). Parlerò più particolareggiatamente dell’impedimento dell’indugio, come legge generale dell’arte, a proposito delle composizioni dell’intreccio.

Ma la posizione di coloro che propongono il concetto dell’economia delle energie come di qualcosa esistente nel linguaggio poetico e che addirittura lo definisce, sembra a prima vista motivata nella questione del ritmo. Sembra del tutto indiscutibile la spiegazione della funzione del ritmo che diede Spencer: «Le battute dateci ad intervalli irregolari ci costringono a trattenere i muscoli in una tensione eccessiva, talora inutile, perché non prevediamo la ripetizione della battuta; con la regolarità delle battute noi economizziamo energie». Questa che potrebbe parere un’osservazione convincente, soffre di un difetto comune: la confusione delle leggi del linguaggio poetico con quelle del linguaggio prosaico. Spencer nella sua Filosofia dello stile non li distingue, mentre invece è ben possibile che esistano due tipi di ritmo. Il ritmo prosaico, il ritmo della canzone di lavoro, della dubinuška1, da una parte sostituisce il comando: «Su! avanti» al momento giusto, dall’altra alleggerisce il lavoro automatizzandolo. Ed effettivamente marciare a tempo di musica è più leggero che senza, ma è ugualmente più leggero camminare conversando animatamente, quando l’atto del camminare esce dalla nostra coscienza. Pertanto il ritmo prosaico e importante come fattore di «automatizzazione»: mentre non così il ritmo della poesia. Nell’arte c’è un order, ma neppure la colonna di un tempio greco attua con esattezza il suo order; il ritmo artistico consiste nell’infrazione del ritmo prosaico. Tentativi di sistematizzazione di queste infrazioni sono già stati intrapresi: rappresentano il compito odierno della teoria del ritmo. Si può pensare che questa sistematizzazione non riuscirà: in realtà, il fatto è che si tratta non di un ritmo complesso, ma della infrazione del ritmo, e di un’infrazione tale da non poter essere prevista. Se questa infrazione entrasse in un canone, perderebbe la sua forza di procedimento «impediente». Ma toccherò le questioni del ritmo in maniera più particolare, quando dedicherò loro un libro specifico.

1 Canzone russa cantata durante un pesante lavoro fisico (N.d.T.).

*

Immagine: Erica Nyholm, Bereavement (2014)

Submit a comment