Relazione, ricerca, rischio. Sulla poesia contemporanea

Nicole Wermers, Infrastruktur (2015)

di Francesca Ippoliti

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La poesia dovrebbe dire qualcosa di più e qualcosa di meno di una storia privata. Di più, perché l’immersione nella contingenza autobiografica è una forma di difesa e non travalica il campo dell’informazione per raggiungere quello della necessità; di meno, perché la rinuncia al vissuto biografico – la rinuncia all’investimento dell’io, alla presa di posizione – è quasi sempre una via di fuga, una divagazione (in ogni caso, un’operazione intellettuale). Sia il ripiegamento spicciolo nell’autobiografia che il sistematico allontanamento da essa rappresentano un approccio schermato alla scrittura, privo di autenticità e di rischio. La stessa riflessione si potrebbe estendere all’uso degli oggetti in poesia, nominati per lo più come mezzo di ancoramento alla realtà da parte dell’io oppure come strumento di ricerca di una superiore oggettività che trascenda il soggetto scrivente o ancora come espressione dell’insignificanza e dello smarrimento; tale uso infatti, mentre in passato ha avuto una fortissima motivazione storica, oggi sempre più frequentemente assume i tratti dell’abuso, configurandosi come mero riempitivo.

Questi atteggiamenti nei confronti della biografia e degli oggetti ineriscono in realtà ad un problema più ampio di posizione dell’io nel testo. In generale, si registrano attualmente due tendenze opposte, che per semplicità definiremo in maniera spiccia come se si trattasse di due oltranze, ben sapendo che il più delle volte si realizzano contaminandosi l’una con l’altra e determinando scenari testuali molto complessi: da una parte avremo il soggettivismo ipertrofico; dall’altra un’oggettività aprioristica.

Nella prima tendenza, che possiamo identificare con il lirismo tradizionale, il testo è regolato dal filtro della soggettività, nelle sue molteplici declinazioni e modulazioni possibili, spaziando da un massimo di estroversione ad un minimo di introversione e attraversando diverse possibilità di adesione o di scissione dell’io con la persona concreta dello scrivente e con la sua avventura biografica. I testi di quest’area stilistica sono spesso dominati dalla psicologia, ma una psicologia che si risolve per lo più nella forma: i risultati più frequenti sono o un rigido controllo tragico ed egotico o un sapiente gioco intellettuale – se il testo non si riduce, come accade spesso, ad escamotage brillante. In tale tipo di poesia può essere centrale la celebrazione del sentimento, che nei casi deteriori viene appiattito sull’espressione narcisistica del dolore oppure su una spinta meccanica alla gioia. Un esempio di questa tendenza, nella sua forma degradata, è offerto da molta poesia femminile, la quale, rinunciando a realizzarsi solo come «poesia» senza attributi, e preferendo invece incarnarsi come «poesia + etichetta x», finisce spesso per istituirsi come inevitabilmente «minore».

Anche la seconda tendenza si basa sulla scelta di un filtro, e cioè quello dell’oggettività, che si realizza secondo diversi livelli di riduzione del ruolo del soggetto e sul superamento dei suoi particolarismi biografici e psicologici. Questa tendenza è portata alle estreme conseguenze nella scrittura di ricerca o scrittura non-assertiva. Tale scrittura, pur rappresentando una delle zone più vive e interessanti della poesia contemporanea, non è esente da notevoli criticità: sotto la maschera di un io che non giudica, in realtà i testi non-assertivi, mettendo sulla pagina lo spossessamento dell’io nella società di massa e la sua impossibilità quasi ontologica di affermare, cioè di giudicare, pongono in primo piano e silentio proprio l’io e il suo giudizio come grande assente: insomma la soggettività, uscita dalla porta principale, rientra da quella sul retro. Un grande egotismo domina la materia, incanalandola in confini aprioristici, confini che spesso diventano il vero nucleo del testo. In un simile approccio, mi sembra che esista un rischio molto concreto di sfociare in una grammaticalizzazione dei procedimenti formali, assunti come regola seconda per l’elaborazione di testi talora sclerotizzati, meccanici. Si può quindi ipotizzare che l’importanza di tali scritture vada ricercata non tanto nei singoli testi – che pure in molti casi trovano piena riuscita – quanto nella loro funzione di laboratorio di invenzioni formali che potrebbero diventare rilevanti in futuro per autori provenienti da spazi di scrittura anche molto differenti.

Al di là di eventuali giudizi di valore sull’uno o l’altro approccio, mi sembra che il nodo centrale del panorama delineato consista in questo: che in entrambe le tendenze il problema dello scrivere poesia è ridotto spesso ad una questione unicamente formale, a volte anche solo grammaticale (dire o non dire io, asserire o non asserire, usare o non usare la marca del femminile se chi scrive è una donna, andare a capo oppure riempire tutto il rigo, ecc.). Ma in realtà se si deve scrivere poesia è necessario che ci sia un movente molto più forte della forma: serve una posizione interiore autentica e potente, una rassegnazione completa. Sto parlando di un’apertura, di una completa esposizione, di una presa di responsabilità: di una posizione dell’io che non sia esterna, puramente grammaticale, ma interna, pervasiva, solida, incandescente e magmatica. La forma è vera solo a fronte di questo magma, è vera solo se è tutta interiore. Non ha nessun senso discutere di questioni linguistiche se non si parte da questo, o meglio: discutere della forma ha un’importanza capitale, ma nessuna forma può essere potente se non è il tramite di un’autenticità, di un nucleo duro di pensiero, se non si sceglie esponendosi a un rischio immenso, se non è un triplo salto mortale senza rete. Detto in altri termini: il problema della forma non è a monte, è a valle. A monte c’è una ricerca incessante, uno spazio aperto e libero, un azzardo del pensiero.

Un secondo nodo, direttamente legato al primo, mi sembra essere quello del rapporto con il lettore. Leggendo molti testi di poeti contemporanei, si ha spesso l’impressione che manchi da parte dello scrivente una considerazione profonda del lettore, del suo rapporto con il testo, del suo diritto ad esserne parte in causa. Ovviamente questo non vuol dire che sia necessario ricorrere a un tu grammaticale, che anzi spesso è solo un riferimento fittizio, una stampella per l’onanismo di chi scrive; significa rispettare il proprio lettore, averne cura, dargli fiducia. Quando la relazione con il lettore viene recisa, la poesia diviene autoreferenziale, si trasforma in puro esercizio colto. Volendo esemplificare questo punto con una metafora, basti pensare all’enorme differenza che intercorre tra il camminare in cerchio nella propria stanza e il camminare in strada, in mezzo alle persone. In entrambi i casi si compie un movimento, ma solo nel secondo si perviene ad un concreto spostamento che non sia solo mentale ma anche fisico. Solo nel secondo il movimento è arioso.

Se relazione, ricerca e rischio sono le parole chiave della nostra riflessione, possiamo pensare la poesia come una forma d’ascolto, un atto conoscitivo che si compie al di fuori della morale, un gesto relazionale per parlare del mondo con il mondo. La poesia si fonderà allora sulla piena accettazione del vuoto – qualcosa di simile ad una rassegnazione potente – e dunque su una rinuncia alla scorciatoia della difesa preventiva: abbandonato il mito della salvezza, avrà una potenza tale da superare il presente eterno e il suo inevitabile portato di angoscia, la sua mancanza di profondità e di prospettiva: attraverso un percorso dall’ordine al caos, potrà condurci al di là della fruizione del tempo e della sua organizzazione mentale, per capire davvero che cos’è il tempo.

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Immagine: Nicole Wermers, Infrastruktur (2015)

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