Vittoria Colonna, Rime spirituali

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a cura di Marco Malvestio

*

Poi che ‘l mio casto amor gran tempo tenne
l’alma di fama accesa, ed ella un angue
in sen nudrio, per cui dolente or langue
volta al Signor, onde il rimedio venne,

i santi chiodi omai sieno mie penne,
e puro inchiostro il prezioso sangue,
vergata carta il sacro corpo exangue,
sì ch’io scriva per me quel ch’Ei sostenne.

Chiamar qui non convien Parnaso o Delo,
ch’ad altra acqua s’aspira, ad altro monte
si poggia, u’ piede uman per sé non sale;

quel Sol ch’alluma gli elementi e ‘l Cielo
prego, ch’aprendo il Suo lucido fonte
mi porga umor a la gran sete equale.


*

Quel pietoso miracol grande, ond’io
sento, la sua mercé, due parti estreme,
il divino e l’uman, sì giunte inseme
ch’è Dio vero uomo e l’uomo è vero Dio,

erge tant’alto il mio basso desio
e scalda in guisa la mia fredda speme
che ‘l cor libero e franco più non geme
sotto l’incarco periglioso e rio.

Con la piagata man dolce e soave
giogo m’ha posto al collo, e lieve peso
sembiar mi face col Suo lume chiaro;

al’alme umili con secreta chiave
apre il tesoro Suo, del qual è avaro
ad ogni cor d’altere voglie acceso.

*

Se per serbar la notte il vivo ardore
dei carboni da noi la sera accensi
nel legno incenerito arso conviensi
coprirli, sì che non si mostrin fore,

quanto più si conviene a tutte l’ore
chiuder in modo d’ogn’intorno i sensi,
che sian ministri a serbar vivi e intensi
i bei spirti divini entro nel core?

Se s’apre in questa fredda notte oscura
per noi la porta a l’inimico vento
le scintille del cor dureran poco;

ordinar ne convien con sottil cura
il senso, onde non sia da l’alma spento,
per le insidie di fuor, l’interno foco.

*

Temo che ‘l laccio, ond’io molt’anni presi
tenni gli spirti, ordisca or la mia rima
sol per usanza, e non per quella prima
cagion d’averli in Dio volti ed accesi.

Temo che sian lacciuoli intorno tesi
da colui ch’opra mal con sorda lima,
e mi faccia parer da falsa stima
utili i giorni forse indarno spesi.

Di giovar poca ma di nocer molta
ragion vi scorgo, ond’io prego ‘l mio foco
ch’entro in silenzio il petto abbracci ed arda.

Interrotto dal duol, dal pianger fioco,
esser de’ il canto vèr Colui ch’ascolta
dal Ciel, e al cor non a lo stil risguarda.

*

Con Vittoria Colonna si esce dall’addolorato pentimento di Casa, che resta, misurando bene le parole, quasi laico, per entrare nel territorio impervio della poesia religiosa. L’esperienza cristiana infatti è l’orizzonte totalizzante delle Rime della Colonna: un’esperienza che non si manifesta solamente nell’imminenza della morte e che non è fatta solo di rimpianto, come per Casa, ma che si estende continuativamente, nell’arco intero di una vita, e si nutre di dubbi incessanti (Temo che sian lacciuoli intorno tesi/ da colui ch’opra mal con sorda lima), di disperazione, di atti di assoluta devozione personale e intellettuale.

Quella di Vittoria Colonna è una sensibilità acuta, dolorosa, personale dell’esperienza religiosa, cui solo la posizione sociale dell’autrice ha permesso di sopravvivere alla Controriforma, e che probabilmente non sarebbe stata più possibile già un decennio più tardi. D’altra parte, la fede della Colonna non è esattamente di natura mistica, e alla dolorosa consapevolezza dei propri limiti terreni si accompagna anche un alto senso della propria dignità sociale, che si manifesta soprattutto nelle rime in morte del marito, e che si riverbera sulla forma chiusa, in una certa misura opprimente del suo linguaggio: si vede bene per esempio in Quel pietoso miracol grande, ond’io, che serra nella propria struttura tetragona le contraddizioni insolubili del mistero cristiano, godendo anzi della loro insolubilità, rappresentata dal lussureggiare di concettismi e ossimori.

Immagine: Jules Lefèvre, Vittoria Colonna

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