Pier Paolo Pasolini, La libertà stilistica

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[Durante la pausa estiva pubblicheremo alcuni post usciti durante il primo anno di formavera, coerenti al percorso svolto finora e con il tema del prossimo ciclo. La redazione augira a tutti i lettori buone vacanze]

Da “La libertà stilistica”, in “Officina”, 9-10, 1957.

*

[…]
Il neo-sperimentalismo non è dunque che una denominazione utile a definire un tipo dello sperimentare: nella fattispecie quello che, con un forse prematuro sforzo storiografico, ci sembra appartenere a questi ultimi dieci anni di storia della letteratura, e tuttora in atto. Abbiamo visto come questo neo-sperimentalismo implichi un’accettazione degli istituti stilistici precedenti: volontaria nei post-ermetici, involontaria nei neo-realisti: i primi operando su quegli istituti una specie di adattamento alla novità e alla maggiore libertà della loro passione: i secondi adottando quegli istituti per esprimere contenuti solo surrettiziamente nuovi, in quanto il tono, innografico, profetico, fraternizzante ecc. resta nel fondo lirico-religioso, non esprime un rinnovamento di idee se non generico e intuitivo, e perciò non può non riassumere stilemi del novecentismo superato.

Al di là di questo sperimentalismo storicamente attuale, quale tradizione recente e persistente del novecentismo (e a questo punto non temiamo più il tono programmatico e parenetico di chi enunci le intenzioni del proprio lavoro) si presenta, con una violenza che trascende l’ambito letterario, la necessità di un vero e proprio sperimentalismo, non solo graduale e intimo, sprofondato in un’esperienza interiore, non solo tentato nei confronti di se stessi e della propria irrelata passione, ma della stessa nostra storia.

C’è stato un periodo di questa nostra storia in cui l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica: il che implicava passività sul fronte esterno e attività sul fronte interno. Ma è chiaro che non poteva trattarsi che di una libertà illusoria, se, in realtà, l’involuzione antidemocratica fascista era effetto della stessa decadenza dell’ideologia borghese, liberale e romantica, che aveva portato all’involuzione letteraria di una ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria coscienza estetica. L’elusività, tipica via di resistenza passiva alle coazioni della realtà, assumeva così le forme dell’assolutezza stilistica, classicheggiante, per ipotassi, per grammaticalità esasperata, «ordinante dall’alto» fin nelle più esteriori e ormai convenzionali dilatazioni semantiche; e lo stesso può esser detto per le esperienze letterarie oppositrici, che fanno capo al Pascoli pregrammaticale e realista di genere, il cui sforzo linguistico era un allargamento lessicale meglio che un mutamento stilistico.

Tuttavia questa serie di istituti formatisi per «partenogenesi» nel primo novecento dotava chi iniziasse il suo apprendistato fra il ’30 e il ’40 – e, in parte, tuttora – del senso di una estrema libertà stilistica: una lingua fondamentalmente eletta e squisita, classicistica nella sostanza, con le tangenti però della dilatazione semantica, del «pastiche», della pregrammaticalità pseudo-realistica. Ma erano audacie collaudate: e non c’era invenzione per quanto scandalosa e abnorme che non fosse in realtà prevista. L’inventare, insomma, come in ogni periodo di «fissazione», era un momento individuato e diventato cosciente di una sorta di specializzazione, che si mescolava ormai abitudinariamente alla stessa ispirazione – che, a sua volta, aveva come oggetto immediato la poesia: la poesia pura. Il salto fra tale lingua che era tutta aprioristicamente invenzione, «lingua per poesia», e la lingua strumentale, era incolmabile: e ne conseguiva una identificazione fra il poetico e l’illogico, fra il poetico e l’assoluto: il poetare era un atto mistico, irrazionale e squisito. Perciò, come in ogni comunione strettamente gergale, l’invenzione non era mai una innovazione: il desueto rientrava sempre e comunque nella norma.

Lo ripetiamo: in un simile tipo di lavoro, non si poteva non avere il senso, inebriante, di essere estremamente liberi: quasi che non ci fosse fine alla catena delle invenzioni. Era addirittura possibile inventare un intero sistema linguistico, una lingua privata (secondo l’esempio di Mallarmè), trovandola magari fisicamente già pronta, e con quale splendore, nel dialetto (secondo l’esempio, imperfetto, del Pascoli).

Ma in quella libertà non c’era né scelta né sofferenza: ed era atta a far operare su una sola direzione, quella interiore: in ciò la costrizione di quella libertà era rigorosa. Non c’era spiraglio per riuscirne, neanche per concepire una diversa direzione.  Tutta la lingua – forse per la prima volta nella storia della letteratura italiana – era in sincronia, nei suoi vari generi: la fissazione linguistica era perfetta. Soltanto che la sincronia tra prosa e poesia era stata raggiunta portando tutta la lingua al livello della poesia, e la prosa non era più possibile. Neanche quella prosa che fosse un «momento» della poesia. La storia non esisteva più: e il mondo interiore era in definitiva una prigione. Dentro questa istituzione stilistica, non c’è dunque soluzione di continuità per le invenzioni; era comodo, rallegrante, fertile restarci: con la garanzia, secondo la frase di D’Annunzio citata da Contini – a proposito del Carducci bolognese stilista di chiose – che lo «stile» possiede una sua, interna e ineffabile, «resistente virtù vitale».

Ciononostante ci abbiamo rinunciato. La stessa passione che ci aveva fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che imponevano libere esperimentazioni inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e impone, dunque, esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo. Si capisce: facendo questo, siamo usciti da una posizione sicura, la cui ambizione di assolutezza, di déréglément garantito, rientrava in qualche modo nella storia, se non altro per sopravvivenza: e abbiamo rischiato tutte le contingenze e le volgarità che la lotta con l’espressione di un mondo attuale e problematico trascina con sé.

Malgrado questa rinuncia, dunque, alla sicurezza di un mondo stilistico maturo, raffinato e anche drammatico – nell’interno dell’anima – (e di cui del resto non possiamo cessare di restare usufruttuari), nessuna delle ideologie «ufficiali» attraverso cui interpretare la «vita di relazione», e magari metterla in rapporto con la vita interiore, ci possiede. È una indipendenza che costa terribilmente cara: quanto vorremmo, come usa dire, avere scelto. La base laica e crociana, acquisita attraverso una violenta lotta contro l’irrazionale e il dogmatico che persistono in ogni natura ferita e facilmente in preda dell’angoscia, non è che una base per pentimenti, ricadute, esaltazioni: l’adozione della filosofia marxista è dovuta in origine a un impeto sentimentale e moralistico, ed è perciò continuamente permeabile all’insorgere dello spirito religioso, e, naturalmente, cattolico, ch’essa presupponeva, ecc. ecc.

Nello «sperimentare» dunque, che riconosciamo nostro (a differenziarci dall’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico, coincidente con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede il continuo, doloroso sforzo del mantenersi all’altezza di un’attualità non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista o un liberale: e questo, poi, implica una certa gratuità di quello sperimentare, un certo eccesso, comunque: l’attitudine sperimentalistica sopravissuta.

Ma vi incide anche un momento positivo, ossia l’identificazione dello sperimentare con l’inventare: con l’annessa opposizione critica e ideologica agli istituti precedenti, ossia un’operazione culturale […] idealmente precedente l’operazione poetica.

Da tutto questo si possono trarre due corollari, meglio incidenti nel nostro discorso: 1) Anche lo stile è una forma di possesso, o, come usa dire la terminologia marxista, un privilegio, con la tipica mancanza di coscienza del fatto che caratterizza ogni possesso o privilegio materiale acquisito per appartenenza a una classe dominante (nella specie dominante ideologicamente: attraverso le sue filosofie, dalla rivoluzione francese allo storicismo, e, per quel che meglio ci riguarda, all’irrazionalismo che è l’aspetto letterario, squisito, di quella mancanza di coscienza o riflessione del proprio privilegio culturale e stilistico).

2) Poiché, nell’incosciente erede di istituti sociali, filosofici o stilistici, il mondo si era ridotto a oggetto di poesia, e quindi di un’apparentemente sconfinata libertà linguistica, è chiaro che in seguito alla crisi, e alla rinuncia di quel mondo pieno e concluso – avanzante, all’infinito, solo sul fronte interiore – la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia, tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico, con l’implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella precedente.

Ne deriva una, probabilmente imprevista, riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi, o tradizionali nel senso corrente del termine, in quanto rientrati ormai nei confini del linguaggio razionale, logico, storico, se non addirittura strumentale.

Tali modi stilistici tradizionali si rendono dunque mezzi di uno sperimentare che, nella coscienza ideologica, è assolutamente, invece, anti-tradizionalista: tale da mettere, con violenza, per definizione, in discussione la struttura e la sovrastruttura dello stato, e da condannarne, con atto probabilmente tendenzioso e passionale, tutta la tradizione, che, dal Rinascimento alla Controriforma al Romanticismo, ne ha seguito l’involuzione sociale e politica, fino al fascismo e alle condizioni attuali. […]

Le componenti che, dunque, è possibile individuare nel nostro atteggiamento ideologico (non troviamo altra definizione, per ora, alla nostra attività non poetica) possono parere contraddittorie e quasi di diversa qualità: attitudini concentrate e sovrapposte, esigenze nuove su passioni sopravviventi. Stratificazione che non neghiamo, ma: 1) Lo spirito filologico che ci deriva dalla lezione continiana, sia pure ridotto in noi a pura e violenta aspirazione, quasi a ispirazione (non si potrebbe aggiungere certo nostro lavoro – la nostra antologia di poesia popolare, gli studi bibliografici di Leonetti, le novelle erudite dei «tempi di Re Gioacchino» di Roversi – in appendice allo «stilismo dei chiosatori emiliani» di cui parla appunto Contini a proposito di Carducci?), tale spirito filologico, dunque, formatosi prima della crisi, prima del ’45, era una poetica esigenza di chiarezza scientifica, una illogica e inquieta presunzione di logicità: galleggiava allora infatti sopra una cultura posseduta come un bene ereditario, un diritto, come abbiamo qui sopra accennato. Il suo persistere ora, sempre sotto il segno della splendida intelligenza continiana, è un atto solo apparentemente monotono: in realtà quello spirito filologico si fa ora strumento di una diversa cultura, perdendo gradatamente le sue (ahi, stupende) suggestioni, facendosi latore di quello spirito logico e storiografico cui aveva surrogato negli anni disperati della prima formazione. Il suo fine, come abbiamo già scritto altra volta su questa rivista, è di abolire alle origini ogni forma di «posizionalismo», in una verifica continua, in una lotta continua contro la latente tendenziosità: facendoci adattare senza pace «il periscopio all’orizzonte» e non viceversa.

2) Questo stesso spirito filologico presiede dunque anche all’atteggiamento politico, al nostro difficile, doloroso e anche umiliante atteggiamento d’indipendenza, che non può accettare nessuna forma storica e pratica di ideologia, e che insieme soffre, come d’un rimorso, d’un indistinto e irrazionale trauma morale, per l’esclusione da ogni prassi, o, comunque, dall’azione. Non per nulla, sul Croce amato e odiato, sul Gobetti, su qualsiasi altro, domina nella nostra vita politica lo spirito di Gramsci: del Gramsci «carcerato», tanto più libero quanto più segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero.

3) Lo sperimentalismo stilistico, dunque, che non può non caratterizzarci, non ha nulla a che fare con lo sperimentalismo novecentesco – inane e aprioristica ricerca di novità collaudate – ma, persistendo in esso quel tanto di filologico, di scientifico o comunque cosciente, che la parallela ricerca «non poetica» comporta, esso presuppone una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito. La libertà della ricerca che esso richiede consiste soprattutto nella coscienza che lo stile in quanto istituto e oggetto di vocazione, non è un «privilegio di classe»: e che dunque, come ogni libertà, è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, angosciante.  Ci difendiamo da ogni misticismo, e quindi anche da quello del coraggio in sé, del pensare stoico: ma sappiamo che, alla fine, la serie delle esperimentazioni risulterà una strada d’amore – amore fisico e sentimentale per i fenomeni del mondo, e amore intellettuale per il loro spirito: la storia: e che su questa strada non potremo non essere sempre, «col sentimento, – al punto in cui il mondo si rinnova».

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