Giovanni Della Casa, quattro sonetti

Alfredo Sasso (1)

a cura di Marco Malvestio

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XXVI1

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Mentre fra valli paludose e ime
ritengon me larve turbate e mostri,
che tra le gemme, lasso, e l’auro e gli ostri
copron venen che ‘l cor mi roda e lime;

ov’orma di virtù raro s’imprime,
per sentier novi, a nullo ancor dimostri,
qual chi seco d’onor contenda e giostri,
ten vai tu sciolto a le spedite cime.

Onde m’assal vergogna e duol, qualora
membrando vo com’a non degna rete
col vulgo caddi, e converrà ch’io mora.

Felice te, che spento hai la tua sete!
Meco non Febo, ma dolor dimora,
cui sola pò lavar l’onda di Lete.

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1In risposta al sonetto Casa gentil, che con sì colte rime del Cappello.

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LVI

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Or pompa e ostro e or fontana ed elce
cercando, a vespro addutta ho la mia luce
senza alcun pro, pur come loglio o felce
sventurata, che frutto non produce.

E bene il cor, del vaneggiar mio duce,
vie più sfavilla che percossa selce,
sì torbido lo spirto riconduce
a chi sì puro in guardia e chiaro dielce,

misero; e degno è ben ch’ei frema e arda,
poi che ‘n sua preziosa e nobil merce
non ben guidata danno e duol raccoglie.

Né per Borea già mai di queste querce,
come tremo io, tremar l’orride foglie;
sì temo ch’ogni amenda omai sia tarda.

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LXII

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Già lessi, e or conosco in me, sì come
Glauco nel mar si pose uom puro e chiaro,
e come sue sembianze si mischiaro
di spume e conche, e fersi alga sue chiome;

però che ‘n questo Egeo che vita ha nome
puro anch’io scesi, e ‘n queste de l’amaro
mondo tempeste, ed elle mi gravaro
i sensi e l’alma ahi di che indegne some!

Lasso; e soviemmi d’Esaco, che l’ali
d’amoroso pallor segnate ancora
digiuno per lo cielo apre e distende,

e poi satollo indarno a volar prende;
sì ‘l core anch’io, che per sé leve fora,
gravato ho di terrene esche mortali.

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LXIII

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O dolce selva solitaria, amica
de’ miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne’ dì torbidi e manchi
d’orrido giel l’aere e la terra implica;

e la tua verde chioma ombrosa, antica,
come la mia, par d’ogn’intorno imbianchi,
or, che ‘nvece di fior vermigli e bianchi,
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;

a questa breve e nubilosa luce
vo ripensando, che m’avanza, e ghiaccio
gli spirti anch’io sento e le membra farsi;

ma più di te dentro e d’intorno agghiaccio,
ché più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte e dì più freddi e scarsi.

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***

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Glauco, che non può evitare di trasformarsi e di mischiare intimamente le proprie fibre alla natura dell’acqua, è la figura che meglio esemplifica la seconda parte del canzoniere dellacasiano, tutto centrato sui temi della penitenza e della colpa, pure non estranei nemmeno alla prima metà (XXVI). Quello che colpisce, in Casa, è la vertigine della rassegnazione: è difficile persino parlare di pentimento, perché il poeta è semplicemente stravolto (“sbigottito e stanco”, LXIII, 2) sia davanti all’enormità del tempo che ha sprecato, che alla coscienza dell’inevitabilità di questo spreco – vivere significa macchiarsi.

Infine, “Già lessi, ed or conosco in me” (LXII, 1): in questa processione di verbi stanno racchiusi tutto il valore e tutta la forza del mito in poesia, che non è un nome che colora la pagina o un gioco antiquario, ma un’immagine viva e attiva che si ripresenta alle nostre vite pronta a farsene figura, nominando qualcosa che non potrebbe essere nominato altrimenti. L’attualità della poesia di Casa è anche in questo.

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