MATILDE MANARA – COMMENTO A “MAN CARRYING THING” DI WALLACE STEVENS

Quando avviciniamo troppo la poesia di Wallace Stevens a quella di T. S. Eliot, Ezra Pound, Eugenio Montale e di altri scrittori modernisti per i quali la conoscenza letteraria è necessariamente una conoscenza individuale e frammentata – un’ «occasione» che si manifesta come per caso e sempre a partire dal contatto con un dato reale, ma apparentemente indecifrabile, dell’esperienza – tendiamo a ricondurre la sua opera alle poetiche dell’epifania. Non mi sembra che Stevens possa rientrare in questa categoria. The Anecdote of the Jar,, testo frequentemente evocato come esempio dell’affinità di Stevens con le teorie del correlativo oggettivo, può aiutarmi a introdurre il problema. La poesia, una delle più celebri della raccolta d’esordio Harmonium, vede l’io lirico affermare di aver «messo un barattolo nel Tennessee, / […] rotondo, sopra una collina; […] Il barattolo era grigio e netto. / Non donava uccello né arbusto, / come nulla d’altro in Tennessee». Invece di presentarci l’irruzione, nella monotonia del paesaggio, di un elemento grazie al quale è possibile sottrarsi alla ripetizione degli eventi, Stevens suggerisce che il barattolo non è altro che sé stesso: di più, il barattolo non appare, non si mostra all’io come un segno o un miracolo. È lui stesso a metterlo sulla collina, trasformando così il Tennessee e tutto ciò che il lettore percepirebbe come reale in una grande finzione poetica capace di «afferma[re] ovunque il suo dominio1».

La distanza di Stevens dalle poetiche dell’epifania è ancor più evidente se prendiamo un testo altrettanto famoso e ampiamente commentato: Man Carrying Thing, dalla raccolta Transport to Summer.

The poem must resist the intelligence
Almost successfully. Illustration :

A brune figure in winter evening resists
Identity. The thing he carries resists 

The most necessitous sense. Accept them, then,
As secondary (parts not quite perceived

Of the obvious whole, uncertain particles
Of the certain solid, the primary free from doubt, 

Things floating like the first hundred flakes of snow
Out of a storm we must endure all night,
 
Out of a storm of secondary things),
A horror of thoughts that suddenly are real.

We must endure our thoughts all night, until
The bright obvious stands motionless in cold.
La poesia deve resistere all’intelligenza
Quasi con successo. Illustrazione : 

Una figura bruna nella sera d’inverno resiste
All’identità. La cosa che porta resiste

Al senso più necessario. Accettale, dunque,
Come secondarie (parti non del tutto percepite 

Dell’ovvio intero, incerte particelle 
Del certo solido, il primario libero dal dubbio, 

Cose sospese come i primi cento fiocchi di neve
Da una tempesta che dobbiamo sopportare tutta la notte,

Da una tempesta di cose secondarie),
Un orrore di pensieri che d’improvviso sono reali.

Dobbiamo sopportare i nostri pensieri tutta la notte,  finché 
Il chiaro ovvio non emerge immobile dal freddo. 
(Man Carrying Thing2)

Rispetto ad altre poesie di Stevens a carattere esplicitamente programmatico (e spesso, per la stessa ragione, parodico: è il caso su tutti di Esthétique du Mal), Man Carrying Thing sembra rispondere alle attese di un lettore che pensi di trovarsi di fronte a una lirica. Il testo si compone di sette distici in versi liberi di lunghezza omogenea; il suo vocabolario insieme vago («uomo», «figura», «cosa») e rarefatto (la maggior parte delle parole si ripete più volte) attinge dal bacino lessicale delle stagioni e dell’inverno in particolare, secondo un topos che si interseca con la storia della poesia almeno a partire da Orazio. Fin dai primi versi, tuttavia, l’effetto di familiarità suscitato da questi elementi lascia il posto a un senso di spaesamento. Gli enunciati più pesanti dal punto di vista semantico – l’esposizione del compito affidato alla poesia da un lato («la poesia deve», v. 1) e ai suoi lettori dall’altro («noi dobbiamo», v. 14) – si trovano infatti collocati alle estremità opposte, separati da una lunga parentesi che si estende per quattro distici. Al suo interno una serie di immagini (le particelle incerte, i primi cento fiocchi di neve, la tempesta) si aggiungono a quella evocata nella seconda strofa (una figura bruna che avanza nel buio), contribuendo a illustrare il senso della frase gnomica che apre la poesia. 

Il problema è che questa frase è gnomica solo in apparenza. Certo, il fatto che «la poesia deve resistere all’intelligenza» viene presentato come una necessità; ma il suo carattere assoluto è immediatamente attenuato dalla parte di enunciato («quasi con successo») collocata nel rejet dell’inarcatura. Questa clausola inaspettata e paradossale – come può il successo di un compito coincidere con il «quasi successo» del compito stesso? – non mi aiuta ad avanzare nella lettura e mi blocca alle soglie della poesia. Per evitare di farmi andare del tutto fuori strada, Stevens decide perciò di fornirmi un’«illustrazione»: la resistenza esercitata dalla poesia è paragonata a quella esercitata da una figura «bruna» che cammina nella notte portando un oggetto sotto il braccio. Il problema è che, complice l’oscurità o i vestiti neri, l’identificazione dell’uomo e della cosa è impossibile. Persino il processo cognitivo e linguistico più elementare – quello per il quale stabiliamo una corrispondenza uno-a-uno tra un nome e un referente reale – è messo in sospeso.

Se l’illustrazione mi permette almeno di visualizzare la prima parte della frase («la poesia deve resistere all’intelligenza»), la seconda («quasi con successo») continua a sfuggirmi. Prestando attenzione all’immagine e non all’operazione retorica che presiede al suo ingresso nel testo non mi sono accorta che l’uomo e la cosa non si limitano a sostituire una formula astratta con un dato sensibile, ma sono figura stessa di questa sostituzione (in greco antico μεταφέρω significa «porto»). Capisco allora che, come la poesia deve resistere all’intelligenza, anche gli elementi di una metafora devono resistere all’identificazione: se le due parti corrispondessero perfettamente, la figura retorica (e con lei l’uomo della poesia) non avrebbe ragione di esistere. Invece di considerarla come uno strumento capace di azzerare la distanza tra il nome e il suo referente reale, scelgo di vedere nella metafora l’unico processo in grado di sospendere questa identificazione. Nello stesso modo in cui la nostra coscienza organizza i dati sensibili in una serie di immagini al tempo stesso analoghe e indipendenti dai contenuti di realtà da cui derivano, così il passaggio da un polo all’altro della metafora avviene a condizione che la configurazione iniziale (nel nostro caso, la poesia che deve resistere all’intelligenza) continui a essere presente anche una volta che la configurazione finale (il fatto che ciò avvenga «quasi con successo», cioè che non avvenga) sarà sopraggiunta. Se la metafora non conservasse alcuna traccia dell’universo da cui ha avuto origine – nel caso di Man Carrying Thing, se l’uomo e la cosa fossero interamente assimilabili a una persona biografica e a un oggetto definito – l’operazione mentale che Stevens le attribuisce si perderebbe tra gli altri processi cognitivi. Molto più che uno strumento volto ad applicare i principi logici di identità e di non contraddizione all’esperienza che facciamo del mondo, la metafora – e, per esteso, la poesia – permette di mostrarne la parzialità. 

Costretta a muovermi tra livelli letterale e letterario, ho rischiato di convincermi che in fondo non valesse la pena di “resistere alla resistenza” imposta dalla poesia. Ho rischiato cioè di pensare che quello che ho davanti sia un testo oscuro, forse addirittura incomprensibile. Quale atteggiamento adottare nei confronti di questa presunta oscurità? È possibile, mi chiedo allora, che due porzioni di realtà – o, come nel caso dell’enjambement, due porzioni di enunciato – siano unite e distinte al tempo stesso ? Torno alla frase tra parentesi: il procedimento metaforico messo in campo a proposito della figura bruna e della cosa che porta con sé è qui ripreso per illustrare, attraverso l’elenco di immagini, il carattere «secondario» del ragionare per aut-aut. Come una tempesta è al tempo stesso composta da invisibili fiocchi di neve («particelle incerte») e dalla grande nuvola che formano («il certo solido»), così la poesia e la realtà che riflette devono essere conosciute sia nelle loro parti che nel loro insieme, soprattutto se queste due dimensioni non coincidono. Il fatto che la comprensione di un singolo verso («la poesia deve resistere all’intelligenza») e la sua comprensione all’interno dell’enunciato che lo contiene («la poesia deve resistere all’intelligenza / quasi con successo») siano in conflitto tra loro indica che, pur essendo incompatibili, entrambi partecipano a comporre il senso del testo. Non è allora un caso che Stevens sia passato dalla metafora (la poesia che «resiste all’intelligenza» è l’uomo che porta una cosa) alla similitudine (i paradossi della ragione sono secondari come le «parti non ancora percepite del tutto»). La similitudine si differenzia infatti dalla metafora perché garantisce che ciascuno dei suoi elementi mantenga la propria specificità senza confondersi con l’altro.

Finora Man Carrying Thing mi ha offerto esempi di come la poesia resiste all’intelligenza senza rifiutarne il magistero, ma sfidando il lettore a farne un uso non convenzionale. Non ha però specificato in cosa consista questa intelligenza, né se il «quasi successo» su di essa coincida con l’approdo a una forma completamente nuova di conoscenza. Solo collegando il primo verso del penultimo distico con la frase interrotta dall’apertura della parentesi («Accettale, dunque, / Come secondarie») questi fenomeni apparentemente illogici a cui la ragione resiste e che Stevens mi chiede tuttavia di accettare si mostrano nella loro nudità («un orrore di pensieri che d’improvviso sono reali») provocando in me un senso di vertigine. Dalla sfera della riflessione astratta, in cui i paradossi illustrati nella poesia venivano presentati come giochi mentali più che come problemi reali, sono improvvisamente passata alla sfera emotiva. La prova a cui Stevens mi sottopone, lo capisco soltanto adesso, non ha nulla a che fare con un esercizio di disciplina mentale: ciò di cui la poesia vuole misurare la tenuta è la capacità che abbiamo di «sopportare i nostri pensieri», di combattere cioè contro la tentazione di ragionare per assiomi o servendoci di scorciatoie logiche prestabilite. Come un uomo che cammina nella neve senza vedere più in là della punta del proprio naso, anche noi dobbiamo fingere che la nostra immaginazione non sia un serbatoio di metafore precostituite, ma un paesaggio vuoto che chiede di essere riorganizzato ogni volta che un elemento nuovo si aggiunge agli altri già presenti. L’appello a «resistere all’intelligenza» non è quindi il vademecum del poeta oscuro e dei suoi happy few. È un invito allargato ad abbracciare il pieno potenziale della mente, consapevoli che «non è la ragione / a renderci felici o infelici» (Of Mere Being), ma il senso di appagamento che deriva dall’azzeramento dell’immaginazione. Sedimentati nelle forme della poesia, ma resi indipendenti dalla pressione che la realtà, la tradizione o il senso comune esercitano su di essi, i contenuti del  nostro linguaggio tornano a essere un veicolo di conoscenza.

Almeno in teoria, l’immaginazione lirica può operare la sua resistenza su qualsiasi frammento di realtà che arriva alla nostra mente chiedendo di essere accolto e rielaborato. A differenza di altri autori modernisti come Montale o Rilke, per i quali gli emblemi della donna amata (il rubino di Clizia in Palio) o i nomi delle cose (la genziana della Nona Elegia) rappresentano quei rari dati dell’esperienza a cui il poeta riesce ad attribuire un senso, la parte di mondo che entra nella poesia non viene rivestita da Stevens di un valore altro rispetto a quello che sarebbe il suo in un regime ordinario del sentire. In un’epoca in cui sembra che il linguaggio abbia smesso di essere garante del rapporto tra l’uomo e le cose, una visione così organica non è facilmente difendibile: per la maggior parte dei poeti degli anni Venti e Trenta, la terra è vana e inabitabile. Per Stevens, invece, la perdita di un’immagine collettiva e univoca della realtà è un incentivo a crearne di nuove. Anche se fittizie, queste immagini nasceranno comunque da un’esigenza concreta: compensare l’assenza dell’unica e assoluta idea di ordine (Ideas of Order è il titolo della seconda raccolta di Stevens) che dio incarnava un tempo attraverso la creazione di tante idee di ordine nate dall’incontro tra l’uso ordinario che facciamo del linguaggio e dei suoi tropi e la sensibilità del poeta.

L’idea più lirica del mondo è ed è sempre stata l’idea di dio. Uno degli aspetti più evidenti dell’immaginazione moderna è la sua distanza dall’idea di dio. La stessa poesia che ha creato l’idea di dio dovrà adattarsi a questo cambiamento, trovare un sostituto di questa idea o renderla definitivamente inutile. È probabile che le due alternative significhino la stessa cosa. La conoscenza della poesia è fatta di una parte di filosofia e di una parte di scienza e la sua importanza è l’importanza della mente3.

Per quanto l’opera di Stevens sia profondamente antimetafisica, dio vi svolge un ruolo centrale. Questa idea irreale, nata per soddisfare i bisogni reali degli individui, si trova al bivio tra la scomparsa e la reincarnazione. Il compito del poeta, se ne ha uno, è di sostituire l’idea di dio con altre, anch’esse irreali perché prodotte dall’immaginazione, ma capaci di resistere a una visione delle nostre attività mentali come puramente razionali o utilitarie. La conoscenza lirica, fatta com’è di «una parte di scienza» e di «una parte di filosofia» (il che non equivale a dire che è in parte scienza e in parte filosofia), non ha bisogno di essere elevata al rango di un sapere istituzionale. Così come in Man Carrying Thing il significato di ogni verso contraddice e allo stesso tempo corrobora il senso della frase che la contiene, la poesia si scontra e insieme partecipa con gli altri discorsi della sopravvivenza di quella «finzione suprema» che è l’uomo.

  1.  Wallace Stevens, The Anecdote of the Jar, in Harmonium, New York, Knopf, 1923, p. 43. La traduzione è mia. ↩︎
  2.  Wallace Stevens, Man Carrying Thing, in Transport to Summer, New York, Knopf, 1947, p. 21. La traduzione è mia. ↩︎
  3. [«The major poetic idea in the world is and always has been the idea of God. One of the visible movements of the modern imagination is the movement away from the idea of God. The poetry that created the idea of God will either adapt it to our different intelligence, or create a substitute for it, or make it unnecessary. […]The knowledge of poetry is a part of philosophy, and a part of science; the import of poetry is the import of the spirit» (Stevens, «Letter to Henry Church, October 15, 1933», Id., Letters of Wallace Stevens, ed. by Holly Stevens.,Uni e p. 376). La traduzione è mia]. ↩︎

L’immagine è di Federico Ambrosini

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