formavera, Quattro poesie inedite

Giulio Paolini - Gli uni e gli altri (enigma dell'ora)

A integrazione di quanto affermato nell’editoriale abbiamo deciso di pubblicare in serie un testo per ogni membro della redazione.

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Leggendo Brodsky

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Se sei sul treno insieme a una bella ragazza francese
e non la puoi toccare,
la foschia ti lascia accarezzare
il paesaggio di Champagne:

un mare ghiacciato, o un mare
che si è ghiacciato mentre si agitava,
o un mare che sta ghiacciando,
con il verde-acqua che passa al grigio…

quella foschia che ora è così perfetta
da rifuggire l’immaginazione.

Bravo, stropicciati gli occhi,
carica il tuo orologio,
accavalla i jeans.

Puoi, al limite, immaginare te stesso
andare verso la prigione dei tuoi sogni,
quell’unica che esiste.

È solo un pigro scienziato, il poeta?

«No» dice il Sommo Poeta
che tutti gli altri citano così spesso.

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[di Todd Portnowitz]

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Il compromesso

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1.

La riduzione cronologica dell’esistenza, il bisogno maniacale di collocare il mondo entro i confini di una diacronia, l’adozione di un criterio progressivo e verticale. Dare un ordine per dare senso. A questo ti sei abituato, ma l’abitudine è di per sé un limite: se ogni azione ha valore soltanto all’interno di una prospettiva, se l’equilibrio che credi di aver raggiunto non è altro che una costruzione basata su una proiezione, sul calcolo preliminare delle cause e degli effetti, l’esistenza che vuoi chiamare tua perde ogni consistenza, si riduce a idea, schema preparatorio, presupposto perenne di se stessa.

2.

Ma a volte capita che le cose arrivino ad assomigliare a ciò che sono, a convergere nel punto esatto del pensiero e a non far male, e tutto – persino l’amore, persino l’inverno, persino tu – tutto sembra esattamente ciò che deve sembrare, senza fatica e senza vergogna, senza provare sensi di colpa. Il pensiero si dilata, arriva dove prima non riusciva e ogni gerarchia, ordine o idea di costruzione cade di fronte all’evidenza delle cose, al mondo nel suo manifestarsi orizzontale. La percezione prende il posto del giudizio, la vita smette di affermarsi per forza di levare, si rivela in quanto tale, in quanto mia, ovvero tua, spazio senza margine d’azione o di reazione, assenza da colmare continuando a continuare ciò che siamo.

3.

Un’individualità non si stabilisce tramite la classificazione di se stessi, assetti e gerarchie interiori non confermeranno ciò che sei, non distingueranno te da tutti gli altri. Il principio della distinzione è soltanto un postulato, ciò che ci divide la presunzione di un pronome. Se un destino esiste veramente è quello per cui essere significa essere normali. Questo è il compromesso da accettare, l’unico equilibrio a cui poter ambire. Raggiungerlo non presuppone la costruzione di una verticalità che confermi una vita da chiamare mia, ma significa accettare l’orizzontalità dell’esistenza, i limiti di un mondo che proprio come noi è solo res extensa, vuoto da riempire, materia che copre la distanza da se stessa.

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[di Andrea Lombardi]

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Partite

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Quante pance rimbalzano sul pavimento.
Non ci basta tutto il riso.
E tutte le bandiere cucite al ghigno.
La mia bocca, il sogno rivelato.
Dormi bambino, che hai camminato tanto.
Nella risacca vedi i moti, le rotazioni.
Variazioni al silenzio, per le nostre tende.
-Allora togli il pavimento-
Le pance piene si svuotano all’alba,
la stessa mano un’altra mano.
Un ventaglio di millenni.
Non ci gioco, vincano a tavolino.
Allora togli il pavimento.
Mi mancherebbero.
O intanto io sarò il nascondino,
un aiuto regista, finché non ce n’era bisogno.
Inventiamo un gioco che non sappiate come fare,
una variazione, per le nostre tende.
Ora quell’onda è indecisa.
Per un po’ vediamo più in là del naso:
lì non ci siete, ci rincorrete
riprovate e vincete. Qualcuno muore
e molti miei sbadigli, lasciamo tutti stare.
Ne facciamo un altro, rovescio il tavolino
a vedervi basiti, e gloria, zitti che ascoltano,
ma non saprei a cos’altro giocare, e lascio stare.
Rimescoliamo, ne facciamo un’altra.

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[di Alessandro Perrone]

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Vi ho ingannati tutti
anch’io – sapevo che non sarebbero mai riusciti: l’animale educato all’incertezza, guarda l’essere che ha di fronte e non gli salta alla gola perché non ha idea, lui, di quanto possano risultare letali degli artigli che non vede, e per il dubbio estremo di essere lui, con la sua fame folle, una preda. Loro mi guardano e nei loro sguardi riconosco quel “ma forse sono erbivoro… sì, lui lo sa, lo sa che devo essere mangiato… io sono erbivoro”.
E trema, tremano tutti ormai.
A questo punto credo che nessuno rovinerà la piacevolezza conviviale della nostra tavolata, nulla di più facile che mascherare di formalità il terrore. La chiamerei la cena delle virtù equivocate, la cena della dolcissima esitazione, una formicolante connivenza della cautela,
e io di questa nuova langue di virtù resto il campione
tra gli altri.
Nessuno che mi abbia mai gettato un solo istante di pura minaccia –
questo è per te, che non sei mai andato oltre
il punto in cui la forza
non può coincidere più con l’indifferenza
o che abbia osato dirsi, bravo
ma il baratro tra essere invincibili

e essere immuni…
e insomma, non posso essere fratello di questi, se la nostra affinità più profonda è la felicità, le volte che ci siamo voluti uccidere, pensando che ce ne fosse toccato il massimo concesso. E per tutto il resto, uno che aspetta di essere atteso; non succediamo…
Vivo inattaccato fra tutti.

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[di Marco Villa]

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