IL PUBBLICO DELLA POESIA 2.0 – 3. IL MASOCHISMO DEL LETTORE

Con la rubrica Il pubblico della poesia 2.0 vogliamo cercare di rispondere alla domanda: che cos’è la poesia per chi è esterno alla bolla di chi scrive, legge e studia poesia? Attraverso una serie di interviste che hanno coinvolto ragazzi e ragazze tra i venti e i trent’anni, abbiamo cercato di capire quali siano le idee sulla poesia diffuse tra i ‘non esperti’, ma anche quale sia l’eventuale funzione sociale che la poesia, in quanto mezzo espressivo, svolge al di fuori della ‘società poetica’: come, e se, viene usata la poesia da parte di chi non è ‘poeta’, ovvero di chi scrivendo non aspira a far parte di nessuna comunità, non si colloca in nessun campo letterario. Al di là delle differenze individuali, negli articoli che usciranno nei prossimi mesi cercheremo di mettere in luce le costanti, ricavando dalle singole esperienze un senso comune, un’estetica e un gusto mainstream.

3) Il masochismo del lettore

Dopo aver affrontato il tema della scrittura poetica (qui), cerchiamo ora di ricostruire il comportamento assunto dagli intervistati in veste di lettori di poesia. Anche in questo caso, le singole testimonianze appaiono piuttosto diversificate: non volendo correre il rischio di essere influenzata, A2 scrive poesia ma non ne legge, né le viene in mente il nome di un poeta vivente (su nostra sollecitazione ammette di conoscere alcuni poeti social, di cui si parlerà a breve, ma il fatto che non li nomini spontaneamente di per sé è significativo); al contrario, U1 (che ha studiato Lettere all’università) conosce autori ‘canonici’ viventi come Milo de Angelis e Valerio Magrelli, e anche una giovane poetessa come Maria Borio, ma non ha mai scritto né è interessato a comporre versi propri. La poesia straniera, soprattutto simbolista, è in generale più attraente di quella italiana: R1, ad esempio, legge principalmente Baudelaire, molti hanno una fascinazione per Rimbaud e Verlaine, pur avendo letto «forse uno o due testi, di cui non ricordo il titolo» (nessuno però fa il nome di Mallarmé), mentre molto apprezzato è Bukowski. I poeti italiani sembrano invece relegati allo studio scolastico, ma nessuno degli intervistati (con l’eccezione di U1 e G2) ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di approfondirli, sia perché a molti appaiono come autori di cui «uno conosce già le cose più belle», e quindi in un certo senso esauriti, sia perché hanno meno «fascino» e usano una lingua spesso difficile. In questo senso, l’eccezione principale è Alda Merini, poetessa estranea al canone scolastico, ma letta e apprezzata dagli intervistati. 

Al di là di queste differenze di gusto, si può riscontrare un sostanziale accordo sulle modalità di fruizione dei testi. La poesia infatti viene letta principalmente su internet: o dai social, come risultato di un «incontro casuale» che avviene mentre si sta scrollando Instagram o Facebook, oppure come frutto di una ricerca voluta sul web, spesso con un indicatore tematico (per esempio poesie d’amore, poesie sulla solitudine, ecc.). Pochi sono quelli che leggono da libri stampati, e non solo perché «il libro costa», ma anche perché la maggior parte degli intervistati non attribuisce alcun valore al macrotesto, né legge mai un libro di poesia dall’inizio alla fine, ma si limita a sfogliare le raccolte aprendo pagine casuali. Si delinea così una “estetica del frammento” che, da un lato, si sposa perfettamente con le modalità di fruizione offerte dai social, rendendo il libro uno strumento ridondante; dall’altro, sembra disinteressarsi alla componente portante della poesia lirica, ovvero la personalità che emerge dai testi presi in serie, e si concentra invece sul sentimento colto nella sua assolutezza, collocato al di fuori di qualunque psicologia o carattere. Agli intervistati, infatti, non interessa la fitta rete di pensieri, sensazioni e emozioni distribuiti nel tempo che compone un’individualità, quanto piuttosto l’espressione di un certo stato emotivo preso in senso universale, non appartenente a una personalità specifica. L’ «educazione sentimentale» degli intervistati sembra dunque convergere verso l’idea che «l’amore», «la solitudine», «la tristezza» (tutte parole-chiave utilizzate nelle loro ricerche su Google) siano delle condizioni generiche e discontinue, dotate di un’essenza sovrapersonale descrivibile nel suo isolamento. 

Una questione che, per la sua rilevanza, va trattata a parte è quello della poesia social. Se infatti i giudizi di valore degli intervistati non sono coinvolti nel momento in cui si parla di poesia ‘ufficiale’, i poeti la cui attività si svolge principalmente su Instagram sono oggetto di un dibattito complesso. I nomi citati sono quelli di Gio Evan, Guido Catalano, Giorgia Soleri, Franco Arminio (che però ha uno statuto leggermente diverso, quasi ‘ufficiale’), Rupi Kaur, Il Poeta della serra, I Poeti der Trullo. Da un lato, questi poeti sono apprezzati per la loro semplicità e per la capacità di esprimere con forza un messaggio accessibile a tutti: «se tu vai a prende e te tocca l’idea de ‘io e te tre metri sopra il cielo’ è potentissima, m’hai espresso in maniera molto semplice, molto diretta, molto facile ma mooolto profonda un concetto che è enorme, appagante» (A1). Allo stesso tempo però gli intervistati ritengono che la poesia stampata, benché scarsamente frequentata, valga più di quella social, poiché è maggiormente in grado di resistere al tempo; pensano anche che arrivare facilmente a tutti sia un modo di mettersi in mostra, di «vendersi», perdendo così la credibilità di scrittore. Questo secondo aspetto è particolarmente interessante perché mette in luce un elemento della logica in base al quale gli intervistati formulano i loro giudizi: la personalità poetica, che come mostrato non viene presa in considerazione in quanto effetto testuale, è importante in quanto precondizione del funzionamento del testo. Per poter parlare con credibilità di un certo argomento, infatti, è indispensabile possedere un’immagine pubblica coerente con il messaggio che si vuole dare; ancora con le parole di A1: «è come se te vai a sentì il giudizio del mostro di Firenze, ‘se nel mondo ci fosse un po’ de bene’, ok, è un bel concetto, ma me lo stai a dì senza che quel concetto l’hai sposato davvero». Nel caso specifico della poesia, tuttavia, questo meccanismo conduce automaticamente a una impasse: se infatti, come avevamo sottolineato nella seconda uscita di questa rubrica, la vera poesia è privata, un poeta di successo è una contraddizione in termini. Gli intervistati leggono solamente poeti con un seguito, sia perché apprezzano la virtù comunicativa dell’arrivare a tutti, sia perché non gli interessa cercare autori al di fuori del mainstream; e tuttavia nessun autore che abbia seguito, e dunque che scriva sapendo che sarà letto da altri, può scrivere una poesia autentica, perché l’espressione personale dei propri sentimenti sarà sempre macchiata dalla ricerca del consenso e della comprensione altrui. In quest’ottica, la poesia appare come un’impossibilità, poiché il pubblico e il privato sono considerati complementari e respingenti, come luce e ombra, e dove c’è uno non può sussistere l’altro. Allo stesso tempo, la notorietà è contemporaneamente un segnale di grazia e di peccato, essere riusciti nei propri intenti rende inadeguati a ricoprire nuovamente il ruolo di poeta.

Il sistema di valutazione del lettore di poesia è dunque affetto da una sorta di malfunzionamento “di serie”, che riposa su una contraddizione più profonda all’interno quale la democratizzazione dell’accesso ai prodotti di consumo (inclusi quelli culturali) si scontra con una logica d’avanguardia e elitaria, che informa tanto i giudizi artistici quanto certe strategie di marketing, in base alla quale il valore di un prodotto è inversamente proporzionale alla sua diffusione. In questo quadro, il consumatore culturale debole si trova in una situazione paradossale: i suoi interessi e i suoi strumenti fanno sì che fruisca esclusivamente di prodotti mainstream, ma il suo senso del gusto lo porta a disprezzare il mainstream artistico in maniera aprioristica e “pre-testuale”, senza poter mai trarre piena soddisfazione da ciò che esiste nell’orizzonte di possibilità del suo consumo. Anche se in maniera subliminale, la sua esperienza di consumatore di poesia è strutturalmente frustrante. Dal punto di vista degli intervistati, sembra quasi che i canali ad alta diffusione come i social rischiano di trasformare tutto ciò che toccano (anche le opere ‘oggettivamente’ prestigiose) in intrattenimento, semplicemente in virtù del loro potere distributivo. 

Una parziale eccezione a questa dinamica è rappresentata dai poeti social ‘underground’, come il collettivo dei Poeti der Trullo o il Poeta della serra. Stando ad alcuni degli intervistati (G1, G2, A1), questi autori riescono ad avere una discreta risonanza senza perdere credibilità e autenticità, aiutati certamente dal fatto di usare pseudonimi e di non esporsi in prima persona («non ci mettono la faccia direttamente»). La loro caratteristica principale, tuttavia, è quella di riallacciarsi a un immaginario vagamente da street art e borgataro (molti dei loro testi, ad esempio, sono scritti su bidoni della spazzatura, sotto cavalcavia o in angoli anonimi delle periferie), facendo leva sulla fantasia romantica secondo la quale il ‘popolo’ sarebbe spontaneamente poetico. Ecco allora che il marginale ha un privilegio espressivo che è negato ad altri, a patto però di moltiplicare i segni della sua marginalità (in questo caso soprattutto la collocazione dei testi in un contesto urbano degradato), rimanendo estraneo ai circuiti ‘ufficiali’ o di maggior successo («ancora non se so venduti») e rinunciando a mettere completamente a frutto il capitale simbolico proveniente dall’attività di poeta.

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L’immagine di copertina è di Francesca Coldebella Bergamin

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