Questo saggio è uscito sul numero 22 (2019) della rivista «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture» (pp. 287-295).
Un’afasia mascherata
Due sagome maschili al centro di un riquadro: profondità quasi inesistente, particolari scarni e dipendenti dalle sole linee di contorno. Una monocromia in rosa per entrambi, dei quali lievemente più scuro, anticato, appare il soggetto a sinistra, posizionato di profilo e vestito con abiti quasi del tutto riconducibili alla moda maschile tipica del secondo Settecento: parrucca corta, tricorno, jabot, giacca lunga oltre il ginocchio provvista di piccoli paramani, scarpe con tacco. Lo si immaginerebbe a suo agio – con la sua posa impettita, la mano destra appoggiata sul fianco e l’indice della sinistra puntato verso l’alto – all’Accademia dei pugni, tra Alessandro e Pietro Verri, Alfonso Longo e Cesare Beccaria, tra le figure degli intellettuali dipinte da Antonio Perego nell’omonimo quadro del 1766. Alla sua destra, invece, una sagoma frontale, abbozzata e priva di connotati, che con la testa incassata tra le spalle e la mano attaccata alla maniglia di un mezzo pubblico esprime una profonda rassegnazione.
Questa è l’immagine di copertina che introduce visivamente il Dialogo della creanza di Umberto Fiori (2007), libro-eccezione che l’autore dichiara di aver scritto vent’anni prima della pubblicazione (1987), dopo l’esordio poetico con Case (1986), mentre è intento all’elaborazione di Esempi (1992). Il Dialogo è la progressione incompiuta di un ragionamento a tre voci. Unico, Ferrante e Creante, dopo aver incontrato Forestiero, personaggio che riappare solo alla fine del dialogo, dibattono su un’entità a cui in un primo momento danno il nome di “pace”. L’occasione nasce da una risata apparentemente immotivata di Creante seguita al commiato del Forestiero. Agli amici incuriositi, Creante racconta di essere stato colto da «un affetto straordinario, da una fervidissima commozione»[1] mossa dalla conversazione svoltasi poco prima. Una conversazione, sostiene Creante, tanto
acconcia, e mite, e benigna, e da ciascuno rispettosamente condotta con tal quale lievissima gravità e senza prepotenza alcuna. Rotto il silenzio, ecco nascere in noi le frasi che in tali circostanze si dicono, le domande che nulla a nessunə chiedono davvero, le risposte che, palesando, velano e proteggono. Chi le pronunziò Intendo: chi mai, chiamato a riconoscerle, le direbbe proprie? Chi affermerebbe d’averle con vera intenzione e per sua volontà pronunziate? Non voi, ch’io vidi come abbandonati d’un tratto da voi stessi, trasfigurati nella voce e in tutto il sembiante; non io, che troppo ascoltavo; non il forestiero il quale, parlando, mal dissimulava negli sguardi e nel passo l’ansia che lo teneva, di raggiungere il luogo dei suoi affari. Pure, le frasi che avevano a dirsi furon dette. E noi, come quelli che al silenzio le avevan preferite, lasciandole in mezzo a noi riconoscemmo la buona, la buia misura della distanza che l’uno all’altro tiene gli uomini uniti.[2]
Quanto ci viene presentato da Creante pare tutt’altro che conforme a un’idea, seppur generica, di pace, e piuttosto vicina agli stereotipi linguistici che emergono in quella che Jakobson ha chiamato “funzione fatica”, cioè di quella funzione del linguaggio in cui il messaggio si autodetermina testando un contatto privo di referenzialità. Per questo motivo, gli interlocutori, poco persuasi della scelta del termine, si affrontano in una discussione che conduce a una ridefinizione dell’«affetto straordinario»: non la pace, bensì la creanza è la parola esatta a cui Creante avrebbe dovuto fare appello sin dal principio del dialogo.
Ma il pervenire alla parola agognata non induce l’esaurirsi del discorso. Il dialogo, che per sua natura si alimenta della dialettica come scambio e progressione costante, della rielaborazione e ridefinizione infinita, della digressione che impedisce al concetto di solidificarsi, problematizza le questioni più disparate. Dalla creanza come un «insieme d’usi e di costumi che danno forma ad ogni aspetto del vivere sociale»[3], o come un «ritegno, una discrezione, e al tempo stesso un’apertura e una sollecitudine verso persone e cose…»[4], si dipartono questioni collaterali come il saluto, la norma, l’opinione comune, il canto, la parità tra individui e la misura, a partire dalle quali, a loro volta, scaturiscono narrazioni (quella iniziale del sogno di Unico, o quella del soldato sottoposto della guarnigione di Ferrante), rimandi e citazioni prevalentemente filosofiche (si citano Wittgenstein, Kafka, Heidegger, Torquato Accetto, Leopardi, Nietzsche, Giovanni Della Casa e Hölderin).
Inizialmente intitolato Conversari intorno alla creanza, il dialogo è plasmato in un «italiano “anticato” e impennacchiato», in stridente contrasto con «la lingua piana e ordinaria» di Fiori. Eppure, ci informa l’autore nella premessa, proprio al gioco letterario fatto di «personaggi coturnati, collocati in una teatrale distanza», si demanda il compito di «tenere a bada, imbalsamandoli un po’, argomenti […] troppo dolorosamente urgenti»[5] al momento della stesura. Dalla sintesi proposta si può evincere come la natura di questi argomenti sia di tipo relazionale: Creante agogna la comunione con l’altrə, ma è costretto, puntualmente, a fare i conti con la manchevolezza del contatto umano. È questa sottrazione che lo spinge, così come spinge i suoi interlocutori, alla problematizzazione dialogica. La sensazione sconosciuta da cui è colto in un primo momento accoglie la piacevolezza dell’unione, mentre le successive elucubrazioni fanno riaffiorare l’esistenza di ostacoli in cui ci si imbatte quando ci si rivolge all’altrə.
Il modo in cui Fiori si relaziona con l’afasia mascherata da complessità formale e da distanza, sarà gestita in maniera diversa lungo tutto l’arco della sua produzione poetica. Le pagine che seguono ne tentano un riattraversamento, con lo scopo di ricostruire il percorso io-collettività che dal comunitario “noi” viene a configurarsi nel generico “uno tra la gente” dopo la fine delle illusioni postsessantottine, per poi convertirsi nello scontro aperto io-voi e, infine, assumere i connotati dell’io-Umberto Fiori nell’ultimo Conoscente.
«che l’uno all’altro tiene gli uomini uniti»[6]
Quando nel 1986 San Marco dei Giustiniani dà alle stampe Case, Fiori non ha un volto sconosciuto al pubblico. Il suo è un ripresentarsi: da cantante-musicista degli Stormy Six – gruppo che dalla fine degli anni Sessanta partecipa all’esigenza comune di un canto politico[7] con brani come Bronte cronaca di un massacro e La manifestazione[8] (L’Unità, 1972) –, a poeta. Il “cambio di ruolo” è innestato sui mutamenti sociali e politici di quegli anni. Con la crisi della Controinformazione[9], l’uomo che ha vissuto «intensamente» la «stagione dell’impegno politico»[10], il militante attivo che ha cantato a nome di un noi, vede crollare i suoi «i progetti giovanili»[11]. Così, a trent’anni, «in una condizione di totale spaesamento […] la vita» gli si apre «davanti come un grande vuoto»[12]. È a questo livello di rottura che dalle ceneri dell’azione esteriorizzata rinasce l’azione interiorizzata della poesia come possibilità di dar voce alla quotidianità dell’individuo comune:
A spingermi allora verso la politica (più tardi l’ho capito) è stato un bisogno di comunità che solo in parte coincideva con il progetto del comunismo, se anche dopo il tramonto delle ideologie, dei “grandi racconti”, ha continuato a premere in me, e si è anzi approfondito. Proprio negli anni in cui le utopie si dissolvevano, mi pareva di vedere più chiaro che mai quello che Rocco Ronchi, in un bel libro su pensiero e poesia, ha chiamato luogo comune, il luogo ovvio e misterioso dove già abitava ogni giorno la comunità che avremmo dovuto fondare. Le poesie di Case (1986) e Chiarimenti (1995) erano il tentativo di dire quella comunità, quel luogo e quel tempo, quell’ogni giorno così lontano dalla rivoluzione, dal suo momento: come li sentivo parlare in me, con una voce che non era più la voce di qualcuno ma la voce di chiunque, così cercavo di farli parlare sulla pagina.[13]
Cos’è il luogo comune? «Il luogo comune» scrive Ronchi «è un luogo abitabile da una comunità, un luogo dove la vita quotidiana può fiorire e sedimentarsi, raccontarsi e riprendersi»[14]. Legittimato in epoca antica dal «canto rituale»[15], questo luogo ha successivamente affidato la propria fondazione alla comunicazione «filosofico-scientifica»[16] in quanto comunicazione etica (opposta all’estetica letteraria) che istituisce il mito nominandolo, per poi distaccarsene. Quanto alla contemporaneità, per essa non è più possibile parlarne riferendosi al modello antico. Il desiderio anacronistico per la comunità perduta prodotto dal Romanticismo – fondatore della dicotomia società/comunità come contrapposizione tra «spazio pubblico in cui si dà “una vita reale e organica”» (fondata sul senso di appartenenza, sulla condivisione pre-razionale, emotiva e sentimentale, della tradizione e dei miti fondatori»)[17] e «formazione razionale e meccanica»[18] («una arbitraria costruzione della ragione che violentemente sradica gli uomini dal loro luogo naturale di appartenenza»)[19] – non può essere soddisfatto perché il mito che la legittimava oggi non è che un feticcio. Allo stesso modo è impensabile ridar vita a tale comunità a partire dalla razionalità critico analitica su cui per secoli la cultura si è basata, poiché anche questa è venuta meno. Così nel presente
Non abbiamo allora più, apparentemente, un luogo dove comunicare. Siamo senza compagni, in attesa. Continuiamo a comunicare nella comunione di una verità depotenziata o, come si suol dire, «debole», di cui abbiamo riconosciuto tutto il carattere convenzionale, arbitrario e violento. Questa verità debole «funziona», ma non è in grado di costituirci come identità né di «spartirci» in senso forte, vale a dire di disegnare una topologia dell’essere sociale, dell’essere-in-comune e delle sue funzioni, che abbia ai nostri stessi occhi il significato di un radicamento in un terreno stabile.[20]
Apparentemente è impossibile riconoscersi vicendevolmente. Si sta assieme in nome di una verità fittizia, costruita sulla convenzionalità che non unisce e sulla conflittualità che non divide. Bisogna che la Letteratura si esponga alla stasi di inappartenenza e sospensione del luogo “convenzionale” per oltrepassarla fino alla radice che possa davvero fondare il luogo comune, abbandonando il mondo dell’estetica in favore dell’etica[21]. Perciò occorre che la poesia faccia riemergere la «pura relazione» con l’altrə data dal «vuoto»[22] oltre le cose, che soltanto lə poetə può mostrare col suo puntare il dito per evidenziare l’«assenza di mito»[23]. Fiori si assume questa responsabilità: di essere la voce che per tutti canti(24) di «cosa ci sostiene: qualcosa di informe, una forza cieca, buia […] una verità smisurata che sta sotto di noi, sotto i nostri passi»[25], quell’oltre vacuo che ci attacca lə unə alə altrə, il fondo degli scavi disseminati tra le strade della città, l’al di là delle case che «addestrano lo sguardo» e lo «iniziano al mistero del luogo»[26] oltre cui la conoscenza non può penetrare. Sorge in tal modo il desiderio di raccontare a nome delə altrə «quella comunità» di un tempo sospeso e «lontano dalla rivoluzione». Da qui la scenografia consueta dei non-luoghi (filobus, treni, metro, spazi affollati), affiancata dalla scivolosità comunicativa sottesa alle convenzioni, siano o meno connotate linguisticamente. Impasses da cui si viene fuori grazie alla poesia come «mezzo per educare l’uomo a un’etica democratica, fondata sul discorso»[27], cioè fondata su una parola “pronunciata veramente” e dunque vera, una parola sottratta alla retorica[28]. Pertanto, lo stile adottato si presta all’estrema semplicità: sintassi «stenografica e asciuttamente presentativa»[29], uso costante di un registro medio e preferenza assoluta per la similitudine in quanto figura retorica dall’estrema limpidità.
Dagli altri a Voi
Si pone a questo punto il problema della postura assunta dall’io lirico nei riguardi della collettività, per la quale si propone di fare da portavoce. Il «pudore dell’io e delle sue vicende, così meschine, se comparate con i “destini generali”»[30] conduce il poeta a esperire la realtà circostante privandosi della propria individualità. Fiori attribuisce questa scelta a una forma di modestia, causata dal confronto tra storia collettiva e problema del singolo. In questa fase, gli argomenti «troppo dolorosamente urgenti» a cui ha accennato l’autore sono affrontati da un io mancato, che si esprime o come “uno” o dando la parola a strani personaggi venuti fuori da un tempo lontano, le coturnate figure del Dialogo. Nel caso specifico del Dialogo, come si è visto, l’antitesi tra i due uomini ha il referente materiale nella contrapposizione tra il testo dell’87 e un brevissimo Battibecco tra un Passeggero e un Altro, che segue il dialogo nell’edizione del 2007. A uno sguardo retrospettivo quella che pareva un’antitesi diviene la conferma di una deliberata scelta verso la spersonalizzazione.
A vagare tra le strade di Milano, tra filobus e metro, non è l’io lirico, ma l’«uno» tra lə tantə che «sente / la gente darsi ragione», e cioè un tassello qualsiasi della collettività indistinta. Io è chi «sente il tormento […] di mancare nella scena» e sa quanto ogni cosa proceda «benissimo senza» la sua presenza. Benché travolto dalla «nostalgia […] di sé e del mondo», ləi sa che ritornerà ancora a guardare ciò che «sta lì di fronte, sotto i paralumi», protendendosi verso le persone, bramandone l’identità: «essere gli altri, questo si vuole. Gli altri»[31]. L’io è il si e il ti disperso nel magma umano delle grandi città. Continua a esserlo anche in una raccolta come Chiarimenti (1995) in cui, nonostante la natura dichiaratamente comunicativa, per la quale ci si aspetterebbero identità definite in contatto (o contrasto), l’occasione del discorso appare sempre calata nella genericità del gerundio. Non uno scontro aperto tra l’io e il tu, ma il «parlando con qualcuno»[32].
Tale postura si avvia a trasformarsi con la raccolta Tutti[33], e viene enfatizzata nei poemetti La bella vista e Voi mediante un io contrastivo e marcato. Fiori ci spiega cosa è cambiato. Le premesse di uno scarto nato dalla visione dell’altrə come «presenza oscena»[34] sono precisate dall’autore nella presentazione a Tutti:
Con Tutti (1998) mi sono deciso a dar conto di questa presenza, a risponderne, a mettere allo scoperto vincoli e repulsioni che corrono tra un singolo (quel singolo, io) e la comunità, tra la vicenda di uno e quella vicenda di tutti che la nostra storia – diciamo pure la nostra civiltà – non smette di voler essere. Per farlo, ho dovuto forzare un divieto che […] sta alla fonte della mia scrittura, e raccontare di me. Ad attirarmi in quel terreno minato è stata l’illusione antichissima che davvero […] siamo “tutti di tutti”, e che proprio gli anni più oscuramente miei appartengono all’altro che li legge.[35]
L’identità lirica è in quest’opera al principio dell’autodeterminazione, poiché sono compresenti il ci della condivisione comunitaria (come nel componimento Fermata «È lì che un giorno della nostra vita / le autocorriere ci portano»[36], o in Fuori «in quel verso mostruoso / che ci teneva insieme, né mio né vostro»[37]) e il voi oppositivo che apparirà nell’omonima raccolta del 2009 (sempre in Fuori, «con uno strappo: così stavo io / davanti a voi. Fino alla carne viva»[38]). Tra le pagine si scorgono i sentimenti d’odio e disgusto per lə altrə, che l’io prova alla stregua di «un bambino per i grandi / quando li guarda masticare e bere / o sente certe parole come le dicono»[39], o ancora l’istinto di distacco fisico del singolo «storto, contratto» a causa dello «sforzo, in tanti anni, / di non urtare le persone […] dentro l’autobus pieno» per «evitare» con i «vicini / persino il minimo contatto»[40].
Nel poemetto successivo, La bella vista (2009)[41], ha luogo la vera e propria rottura. La raccolta infatti non punta più alla «semplice esortazione a trascendere il narcisismo del singolo nella dimensione pacificata della socialità», ma vuol dimostrare quanto non sia possibile «alcuna communitas senza “ficcare” gli occhi nel lato oscuro del visibile, affrontando l’impermanenza, la negazione “senza riparo”» [42]. Così ponendosi, e frapponendosi, quest’opera schiude le porte a Voi (2009), poemetto in cui questa conflittualità arriva al suo apogeo. L’io qui esibito traccia un perimetro di ridefinizione volgendosi, a metà tra venerazione e odio totale, alla seconda persona plurale da cui è ossessionato. A osservarlo nel suo complesso, è possibile isolare almeno quattro declinazioni del rapporto io-voi: contenimento («In fondo al mio respiro, dentro, giù, giù, / nel punto più buio, dove / sono più solo, sono più io, / vi trovo»[43]), elogio, spesso ironico, («Voi: figlio prediletto / di Dio. // Io: vostra lontananza, / vostro difetto»[44]; o ancora «Perché voi siete grandi// Voi sapete»[45]), autocompiacimento («Voi legate / colpite / senza ascoltare, / senza vedermi»[46]; «Il poveretto, il disgraziato, il giusto / – lo vedete o no? – sono io. Sono io, io, / il moribondo»[47]) e, infine, opposizione totale («Vi coprirei di insulti, / se non fosse che poi mi / toccherebbe spiegarveli»[48]; «Vi ho salutato. // Ve ne siete accorti, / pezzi di merda?// […] Siete / malati, siete morti? No? // e allora alzatevi […] Spacchiamoci la faccia»[49]). Per quanto divergenti, tutti i casi elencati palesano la dipendenza ossessiva dell’io lirico dalə altrə. Esso sa ancora di essere l’«Io. Uno» che è «troppo poco», «niente» o «il suo rimorso». Al contempo, come emergerà meglio nel Conoscente, in virtù del proprio carattere poetico, deve esporsi, nonostante l’indefinitezza, ai «milioni»[50] conglomerati nel voi.
Il Conoscente
Veniamo così all’ultimo Fiori, autore e personaggio del Conoscente, racconto in versi pubblicato recentemente (Marcos y Marcos, 2019), ma preannunciato già nell’edizione di Poesie 1986-2014 (Mondadori, 2014) in versione ridotta. Siamo ad una svolta formale. Superata la frammentarietà lirica delle prime raccolte, testate le possibilità coesive del poemetto in La bella vista e Voi, il poeta perviene ora alla narrazione in versi dell’io-Umberto Fiori, di cui sin dalle prime pagine si individua anche qualche coincidenza biografica. L’autore, che già in passato ha sottolineato la continuità sottesa alla sua scrittura[51], stabilisce una connessione con i poemetti precedenti per ricostruire le tappe principali del suo percorso poetico. I versi posti in apertura della silloge rivestono una posizione chiave per inquadrare la postura assunta dall’io:
È vero ci sono giorni
che le vostre parole più care e
buone mi suonano come insulti,
giorni che dal mattino alla sera il sole
splende contro di me
come contro un ritaglio di lamiera:
non mi si parla senza avere
dritto in faccia
il suo abbaglio tremendo. Ci sono volte che mi trovate là,
fermo, freddo
come l’avanzo nel piatto.
Non vi ascolto, non alzo nemmeno gli occhi.
È che ho la testa piena
di una scena che ho visto
tanti anni fa.
Il «sole» che gli «splende contro / […] come contro un ritaglio di lamiera» è lo stesso che nella Bella vista «le lamiere nuove nuove / di un motorino»[52]. Così, il rivolgimento diretto a unə destinatariə plurale richiama chiaramente le posizioni assunte nel precedente Voi, spendendosi nel tentativo di esplicitare il motivo dell’astio provato per lə suə deuteragonista. Per giustificare la propria irritazione, Umberto Fiori ripercorre gli episodi di un passato frammentario strutturato su due livelli. Il primo, più recente, è il tempo del soggiorno presso la Convenzione, sorta di comunità distopica governata dalla figura ambigua del Conoscente. Il secondo è il tempo in cui il rapporto tra questa figura e Fiori va delineandosi, fino a rifluire, con la Quinta parte del racconto, nella Convenzione.
La proiezione dell’io-poeta Fiori si svela nel corso di lunghi e accesi dialoghi, in cui il poeta assume costantemente il ruolo di chi, pressato dalle accuse dell’interlocutorə, si sforza di spiegarsi, di difendere il proprio punto di vista. La constatazione del fatto che, come ha evidenziato Damiano Frasca, un connubio tra «aumento del tasso di narratività» e «presenza di personaggi con diritto di parola» comporta, nella poesia del secondo Novecento, l’«apertura del testo a movenze dialogiche»[53], viene corroborata nel Conoscente tanto da dare al dialogo una funzione strutturante per la diegesi. In altre parole, la narrazione viene costantemente sospinta dallo scambio di battute tra i personaggi del racconto. «“Umberto Fiori”», urla il Conoscente al loro primo incontro, in un «filobus» affollato di gente[54]. Da lì altre accuse e confessioni. L’altrə sa tutto: gli elenca vicende del passato, lo incalza costringendolo a parlare. È in questo modo che si viene delineando il profilo poetico di Fiori, di cui si elencano temi («l’‘alienazione metropolitana, / i problemi di comunicazione’»[55]) e di cui si accenna alle pubblicazioni precedenti e se ne giudica la qualità («ho l’impressione [dice il Conoscente] / che tutto si riduca a quattro o cinque / luoghi comuni»[56]). L’io ripercorre così l’andamento ondulatorio della sua storia poetica, mentre lə altrə, le «ombre»[57] della sua mente, diventano incarnazioni iconiche delle sue angosce più emblematiche: il desiderio di comunione con l’altrə, la conflittualità relazionale, il sogno della massa, la spersonalizzazione. In effetti, il legame instaurato tra ə due pare a tratti del tutto simile a quello tra paziente e analista. Il Conoscente tira fuori fatti del passato, sentimenti e conflittualità, portandoli bruscamente alla luce.
Contro lo slancio d’intima condivisione a cui da sempre è proteso («Essere un coro, sì. / Non questa voce sola. / Essere torma, stuolo, compagnia»[58]) si stagliano i rovesci spersonalizzanti dell’heideggeriano Si-Conoscente. Nel conflitto tra spinta vitalistica e morte, e quindi tra avvicinamento e rifiuto della collettività (per cui si adopera come modello il Disagio della Civiltà di Freud[59]) il Conoscente si propone come mezzo d’annichilimento. Egli è l’impersonalità che invita all’impersonalità e alla leggerezza («Fatti leggero»[60]; «Un po’ di spirito, / di leggerezza, di ironia…»[61]), l’indifferenza assoluta («Lascia la presa sul poco che ti trattiene. / Liberati del torto, della ragione. / […] Sii finalmente / indifferente a te stesso / come lo sei agli altri, / come gli altri ti sono indifferenti»[62], è il filosofo-re del nichilismo, il governante della Convenzione, di cui è padrone incontrollato. Lo è dal principio: il suo obiettivo primario è iniziare il poeta all’anomia («Ma in che epoca vivi? / Credi ancora di essere, / di chiamarti, di dire?»[63]) portandolo continuamente a contatto con gli aspetti più infimi delle cose. E come Il Si di Essere e tempo «si rende accetto all’Esserci nella sua quotidianità perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili», mantenendo così «il suo dominio ostinato»[64], il Conoscente regna sulla sua pseudo-comunità, la sua Gegend, come «Cappio dell’Impersonale»[65] e impegna lə suə fedelə “sudditə” nelle attività ludiche più varie, usate come tasselli atti a riempire il vuoto che li circonda.
Non soltanto di impersonalità si tratta. Tra le pagine del Conoscente emergono i sintomi di un problema cui la filosofia, specialmente a partire dal Novecento, ha dato particolare attenzione: il nichilismo, protagonista minaccioso della società contemporanea, riveste ogni cosa scetticamente, riducendone la portata al nulla[66]. Scrive Ernst Jünger in un appunto del 1942:
Se chiudo gli occhi, scorgo a volte un paesaggio tetro ai margini dell’infinito, con pietre, scogliere e montagne. Sullo sfondo, ai bordi di un mare nero, riconosco me stesso, una figura minuscola, quasi tratteggiata a gesso. Quello è il mio avamposto, prossimo al Nulla – laggiù, nell’abisso, io conduco da solo la mia lotta.[67]
Il paesaggio della Convezione, una «scogliera»[68] che affaccia su un mare nero in cui allegoricamente il Conoscente si tuffa per poi riemergere «gocciolante come Nettuno»[69], è il luogo dal quale Fiori guarda lə altrə sottostare al regno del nulla. Ma il suo desiderio di «sfuggire alle attività»[70] lo spinge ad allontanarsi in canoa e a raggiungere una baia, rifugiandosi in un’oasi[71]. Tra la vegetazione silenziosa si rivela «Una lastra di marmo» e «Più avanti, mezzo sepolta nel suolo, un’altra»[72]. Su esse si scorgono «poche forme / pallide»[73], volti di uomini e di donne, di fronte alle quali Fiori piange «di memoria»[74]. Le forme di uomini e donne sfuggono oramai alla consunzione, sfuggono al dolore, ma svincolano anche dall’indistinzione: il loro non più evolversi li tiene lontani dal processo di svilimento a cui soccombono.
La tomba sopravvive a chi è sepolto, il «signum» si contrappone alla «transitorietà dei denotata»[75], incarnata nel racconto dal Risultato, una cassa in cui il Conoscente conserva le unghie e i capelli delə convenutə, quello «di cui, nel Parmenide / di Platone, il filosofo di Elea, / con un sorriso ironico, chiede al giovane Socrate se esista, / nel Cielo Iperuranio, l’Idea»[76], ricevendo esito negativo. La scissione tra idea e mondo sensibile si risolve, per il regno del filosofo Conoscente, in favore del secondo nella sua versione più bassa e infima. Perciò il poeta, colui che affida alla parola la responsabilità etica, non si piega al nichilismo ed esplode in un canto liberatorio: l’io poetico ha il dovere di dire io e non può abbandonarsi totalmente all’indistinzione. Egli deve pronunciarsi contro e per il voi. Soltanto al termine del lungo percorso può così alzare «gli occhi. / In mezzo al mare» e vedere «avvicinarsi la» sua «nave»[77], simbolicamente mezzo su cui intraprendere un nuovo solitario percorso poetico.
Conclusioni
«Ho scritto un unico libro articolato in quattro capitoli. In questo momento sto lavorando al quinto, che si chiama Voi»[78]. L’intervista con Soriani tradisce la progettualità di un lungo itinerario. Pertanto, pare lecito chiedersi quale possa essere, se effettivamente esiste, il ruolo attribuito al quinto e al sesto capitolo – rispettivamente Voi e Conoscente – nell’economia complessiva di questo grande libro e della questione io-colettività che si è scelto di affrontare.
Si è osservato come in Voi si assista a una delimitazione più marcata dell’io, continuativamente orientato verso il voi. Nel sistema delle quattro declinazioni elencate (contenimento, elogio, autocompiacimento e opposizione) il secondo termine della relazione diventa una tappa funzionale all’autodefinizione. Avviene così che la posposizione divenga una forma d’autoderminazione: Voi siete il «figlio prediletto / di Dio», siete «grandi», «malati», «morti», voi «legate / colpite», Io, invece, sono il «poveretto, il disgraziato, il giusto […] Sono io, io, / il moribondo». Quanto all’identità, col poemetto in questione si è ancora nell’ottica dell’io-uomo nel suo complesso. Come è stato evidenziato, da Tutti in poi il filtro autobiografico consente una focalizzazione maggiore sul soggetto nella sua individualità, che viene dilatata al massimo grado con Voi.
L’io-Umberto Fiori del Conoscente è il poeta consapevole che ha ripercorso le proprie vicende fino ad accettare in toto l’indentità nella sua natura esclusivamente poetica. Mentre l’umanità vessa nella dispersione del mondo come parte di un noi («noi, poveracci, che esistiamo, / che stiamo fuori, qua / che siamo al mondo, all’aria, al panorama, /ai discorsi, ai minuti»)[79], il poeta riconosce perché osserva come fosse esterno ai fatti, e con le parole indica le cose, le mostra rendendole visibili.
Si può, a questo punto, rispondere alle incertezze sulla funzione delle due tappe ultime. Esse inducono Fiori a comprendere il bisogno di un distaccamento che faciliti il differenziarsi di un punto di vista poetico. Ma questo io lirico con Voi è ancora un io-uomo: è soltanto col Conoscente che, assumendosi la responsabilità etica, egli mostrerà delle verità alə altrə come eccezione che canti, giungendo alla piena consapevolezza dopo aver attraversato, e dopo essersi lasciato attraversare, dall’impersonalità, come uomo e come poeta.
Note.
[1] U. Fiori, Dialogo della creanza, Como, Lietocolle, 2007, p. 16
[2] U. Fiori, Dialogo della creanza, op. cit. p. 17.
[3] Ivi, p. 31.
[4] Ivi, p. 32.
[5] Ivi, p. 7.
[6] U. Fiori, Dialogo della creanza, op. cit. p. 17.
[7] Canto politico che, dopo una fase felice collocabile tra gli anni Dieci e Venti del Novecento e un lungo periodo di silenzio, ritorna al termine degli anni Sessanta con ritmi più serrati e più vicini alle esigenze coeve di ricoprire «una tastiera più estesa di reazioni psicologiche più complesse» rispetto al passato. Cfr. Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro. Luci e ombre della Controinformazione tra il ’68 e gli anni di piombo, Milano, BUR, 2008, p. 430.
[8] Fiori vi subentrerà nel giugno del ’73. Per ulteriori informazioni si rimanda a F. Fabbri, Album Bianco, Milano, Saggiatore, p. 105.
[9] Ivi, p. 426.
[10] L’autore è stato parte della Commissione musicale del Movimento Studentesco di Milano, fondatore del gruppo “La canzone comunista” e partecipante attivo della Squadra di propaganda artistica, gruppo impegnato nelle scuole e nelle fabbriche a mettere in scena canzoni di lotta. La citazione è tratta da U. Fiori, Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999, p. 116. Si veda inoltre F. Fabbri, Ivi, p. 106.
[11] D. Soriani, Intervista a Umberto Fiori, in «Atelier», 49, XII, 2008, p. 54.
[12] Ibidem.
[13] U. Fiori, Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999, p. 116.
[14] R. Ronchi, Luogo comune. Verso un’etica della scrittura, Milano, EGEA, 1996, p. 3.
[15] Ivi, p. 3.
[16] Ivi, p. 6
[17] Ivi, p. 14.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, pp. 16-17.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, p. 24.
[23] Ivi, p. 18.
[24] Così sostiene Fiori in un saggio intitolato La poesia è un fischio: «Chi è, allora, che cos’è, un poeta? Poeta è chi prova a parlare, prova cos’è parlare, chi fa fino in fondo esperienza e fornisce esempi di quel parlare che riguarda ciascuno e tutti e che qui ho chiamato canto». In U. Fiori, La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano 2007, p. 37.
[25] D. Soriani, Intervista a Umberto Fiori, in «Atelier», 49, XII, 2008, p. 54.
[26] R. Ronchi, Il verso giusto. Etica e pedagogia nella poesia di Umberto Fiori, in «Atelier», 3, XII, 2008, p. 16
[27] M. Tasca, Il volto e la voce. Contatti tra la saggistica di Umberto Fiori e la filosofia di Emmanuel Lévinas, «L’Ulisse», 21, 2018, p. 280.
[28] In Fiori e in Lévinas «l’assenza di retorica e la condizione di miseria sono due caratteristiche fondamentali di chi si esprime senza riserve», così come l’incontro con l’altro, col suo volto nudo, che avviene proprio grazie alla parola avulsa da retorica. Per ulteriori informazioni sulle coincidenze tra la filosofia di Lévinas e l’ideologia poetica di Fiori si rimanda a M. Tasca, op. cit. p. 279.
[29] Afribo parla a proposito di «solito circuito metropolitano» e di «solita giostra di Leitmotiv», per indicare la reiterazione costante di certi luoghi e tematiche in tutta la produzione di Fiori. Vedi A. Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007, p. 143.
[30] U. Fiori, Tutti di tutti, op. cit. p. 116.
[31] U. Fiori, Case, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, p. 19.
[32] U. Fiori, Chiarimenti, Ivi, p. 95.
[33] Si veda, a tal proposito L. Zuliani, ‘Mento’ di Umberto Fiori, in A. Afribo, S. Bozzola, A. Soldani (a cura di), Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo, Padova, Cleup, 2016.
[34] U. Fiori, Tutti di tutti, op. cit. p. 116.
[35] Ibidem.
[36] U. Fiori, Tutti, Ivi, p. 125
[37] U. Fiori, Tutti, op. cit. p. 135
[38] Ivi, p. 135.
[39] Ivi, p. 136.
[40] Ivi, p. 138.
[41] Alberto Cellotto vede la distensione del titolo «come una rottura rispetto alle titolazioni secche delle altre raccolte poetiche». In A. Cellotto, Recensione a ‘La bella vista’, in «Atelier», 13, (2003), p. 113.
[42] L. Cardilli, Figura e occhio in La bella vista di Umberto Fiori, in «Nuova corrente», 160, (2002), p. 75.
[43] U. Fiori, Voi, Ivi, p. 218
[44] Ivi, p. 223
[45] Ibidem.
[46] Ivi, p. 226.
[47] Ivi, p. 230.
[48] Ivi, p. 246.
[49] Ivi, p. 248.
[50] U. Fiori, op. cit. p. 217.
[51] «Ogni libro è nato in un certo senso come “integrazione” del precedente, come un suo sviluppo o come un approfondimento di alcuni temi. In Chiarimenti viene in primo piano quello della discussione, di una “lotta” per la verità, che in Esempi era solo accennato. In Tutti interviene l’elemento del tempo (la prima sezione si chiama Anni) che negli altri libri era assente, la città – che nelle prime due raccolte era attraversata da un soggetto per lo più impersonale, generico – viene rivisitata in termini più personali, autobiografici. La bella vista abbandona l’anonima scena urbana dei libri precedenti per affrontare un paesaggio naturale ben identificato, carico di ricordi», in D. Soriani, Intervista a Umberto Fiori, in op. cit. pp. 50-51.
[52] U. Fiori, La bella vista, op. cit. p. 170.
[53] D. Frasca, Posture dell’io. Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, Pisa, Felici, 2014, p. 26.
[54] U. Fiori, Il Conoscente, Milano, Marcos y Marcos, 2019, p. 25
[55] Ivi, p. 99.
[56] Ivi, p. 101.
[57] «Ma è con le ombre / che devi fare i conti, caro Fiori”. // ”Con le ombre? Ma se è proprio con loro / che parlo ogni momento. Anche ora. […] Gli sto di fronte. / Lascio che da quel buio senza una forma / emerga una figura / precisa», Ivi, p. 206.
[58] Ivi, pp. 76-77.
[59] È l’autore stesso a guidare lə lettorə al termine del racconto, spiegando come nelle pagine indicate si stia citando tale saggio. Non si tratta dell’unico caso; spesso nella Nota al lettore si rimanda al sostrato filosofico sotteso ai dialoghi.
[60] Ivi, p. 34.
[61] Ivi, p. 97.
[62] Ivi, p. 63.
[63] Ivi, p. 85.
[64] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. a cura di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 164.
[65] Ivi, p. 214.
[66] «Il nichilismo […] è oggi espressione di un profondo malessere della nostra cultura: che si accavalla, sul piano storico-sociale, ai processi di secolarizzazione e di razionalizzazione, quindi di disincanto e di frantumazione della nostra immagine del mondo, e che ha provocato sul piano filosofico, in merito alle visioni del mondo e ai valori ultimi, la corrosione delle fedi e il diffondersi del relativismo e dello scetticismo», in F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari,Laterza, 2009, p. 137.
[67] Ivi, p. 78.
[68] Più volte nel corso dell’opera si ribadisce la natura rocciosa del luogo in cui si svolge la Convenzione. Il termine più frequente è proprio quello di scogliera.
[69] «Con un gesto / di sovrano fastidio, il conoscente / ha spiccato una corsa, si è tuffato / dal pontile, è scomparso nell’acqua nera. […] Dopo un po’, tra i roccioni / incrostati di sale della scogliera, / strofinante e gocciolante come Nettuno / in persona, lo stutor è riemerso, U. Fiori, op. cit. p. 223.
[70] Ivi, p. 231
[71] Si noti come il collegamento anche in questo atteggiamento all’idea di Jünger per cui l’unico modo per sfuggire al nichilismo consisterebbe nel rifugiarsi nelle oasi interiori (l’amicizia, l’eros e la morte), che con Fiori però prendono ancora una volta forma esteriore e narrativizzata.
[72] Ivi, p. 234.
[73] Ivi, p. 235
[74] Ivi, p. 240
[75] Ivi, p. 74
[76] Ancora nella Nota al lettore Fiori traduce un passo del Parmenide di Platone, in cui a Socrate, che distingue tra «le Forme in sé» e «le cose che ne partecipano» Parmenide chiede se dei peli e delle unghie, cioè di cose infime, esistano le idee, ricevendo risposta negativa. Cfr. Plato, Parmenide, a cura di F. Ferrari, Milano, Bur, 2017, p. 88.
[77] Ivi, p. 302.
[78] D. Soriani, op. cit. p. 52.
[79] U. Fiori, op. cit. p. 298.
Per scaricare gli inediti in PDF: Valentina Panarella, Lo spazio del luogo comune
Immagine: Beatrice Zerbato, L’uomo e i suoi simboli. Documentazione fotografica del lavoro di Enrico David, Padiglione Italia, Biennale Arte 2019, Venezia.