* *Bernardo Pacini, per me una delle migliori voci poetiche italiane della generazione nata negli anni ’80, pubblica per la collana A27 delle edizioni Amos il suo quarto libro, Fly mode. Ma l’autore stesso, in una recente presentazione, ha detto di considerarlo il suo secondo vero libro, dopo il premiato esordio Cos’è il rosso (Ed. della Meridiana 2013). Sono d’accordo: Pacini ha ragione di considerare Perfavore rimanete nell’ombra (Origini 2015) e La drammatica evoluzione (Oèdipus 2015) due side projects, per quanto ben riusciti. Queste due raccolte, dal focus più ristretto rispetto sia alla generosità inclusiva del primo libro, sia alle ambizioni dell’ultimo, gli saranno servite per affinare ancor più quelle doti linguistiche e compositive già evidenti in Cos’è il rosso. La continuità con l’opera prima è segnalata da alcune autocitazioni: «il dentro delle case» (p. 17); le «diavolesse» (p. 73).
* *C’è un senso, però, in cui Fly mode riprende le mosse da un libro pur diversissimo come la Drammatica evoluzione. In quell’opera, notoriamente dedicata al mondo dei Pokémon, Pacini si proponeva di dar voce ai mostriciattoli giapponesi della sua/nostra infanzia. Come scrissi allora, l’operazione non era una goliardata superficiale né una speculazione sulle ironiche nostalgie generazionali, come fu – a livello commerciale, da parte della stessa Nintendo – il quasi coevo Pokémon Go («un dispositivo di identità generazionale, che riattiva l’infanzia»). Pacini dava prova della sua sottigliezza tentando una prosopopea ed etopea dei singoli Pokémon, che si facevano specchi dell’umanità. Chi meglio di lui, dunque, poteva ora calarsi nei panni di un drone?
* *Anche in Fly mode, infatti, dando voce a un congegno robotico l’autore non intende proporre una poetica postumana, ma umanizzare la tecnologia. Per dirla con Andrea Accardi nel suo intervento su Poetarum Silva, un «libro dal protagonista tecnologico e iper-contemporaneo finisc[e] per diventare un significativo omaggio alla cultura letteraria e umanistica». Al tempo stesso, Fly mode non è “il libro del drone” allo stesso modo in cui si può dire che la Drammatica evoluzione era “il libro dei Pokémon”. Il drone, anzitutto, ha funzione strutturale più che tematica in senso stretto. È un espediente che consente al poeta di non cadere nel confessionalismo: l’io lirico non è negato tout court ma è (in parte) delegato a questo occhio meccanico esterno. Non si ottiene, come nell’oggettivismo radicale di alcune scritture di ricerca, una completa spersonalizzazione, ma un’oggettivazione (e un’elevazione) del punto di vista individuale.
* *Inoltre, in alcune sezioni del libro il drone non entra direttamente in campo, e la voce torna a essere quella dell’uomo che lo manovra. C’è dunque uno sdoppiamento di ruoli: «il drone guarda, il pilota riflette e interpreta», come scrive Giacomo Cerrai nella sua recensione su Imperfetta ellisse. Sempre Accardi identifica questa «funzione stilistica del drone, che permette di mediare, di schermare rispetto all’emotività e al patetismo, al coinvolgimento diretto», e la pone sullo sfondo di varie altre operazioni concettualmente simili della poesia italiana recente, che molto si è ingegnata a creare sistemi di autodistanziamento e/o sdoppiamento. Anche Dimitri Milleri ha studiato (in anteprima) il nuovo libro di Pacini accanto ad altre scritture under 40, nell’àmbito di un ampio saggio su Poesia del nostro tempo. Uno degli assi tematici indagati da Milleri è quello delle strategie narratologico-attanziali: Fly mode rientra fra quelle scritture in cui «la coincidenza fra il personaggio che dice io e lo scrivente si incrina». Al critico non sfugge come la «maschera del drone», oltre a filtrare lo sguardo uman(istic)o, lo potenzi, autorizzando (come si vedrà) energiche impennate stilistiche. Per questo concordo con Davide Castiglione quando, in un commento su Facebook, correggeva l’interpretazione di Accardi osservando che l’escamotage del drone è interessante proprio perché, più che eludere l’io, lo espande.
* *Come molti degli esperimenti migliori degli ultimi anni, Fly mode non è dunque un libro che parla di una data tecnologia, ma che mostra come la tecnologia divenuta seconda natura modella la nostra prospettiva. Show, don’t tell. La metafora tecnologica domina perciò tutto il libro: se lo sguardo è quello di un drone o di una telecamera a circuito chiuso (CCTV), le domande esistenziali diventano FAQ, e la memoria è quella di un device elettronico; e infatti un’intera sezione è battezzata DCIM,[1] come la cartella in cui ogni fotocamera digitale salva le immagini acquisite. Diversi testi tematizzano proprio la questione mnestica. La poesia intitolata Walkera (da una ditta produttrice di droni) ripropone il topos della passante, recitato però da due di questi congegni («Ogni giorno che passa sono obbligato a vederti | mentre vai nella direzione opposta / sulla mia stessa linea | lanciata da chi, guidata da cosa, venuta da dove»); l’io confessa alla bella sconosciuta che «Sei sempre dentro di me, letteralmente: | salvata in DCIM, in ordine per data». Ma nella sezione DCIM è “salvata” una memoria ben più traumatica: è contenuta qui, infatti, una straziante dedica al fratello Ignazio, morto nel ventre materno. Nella conclusiva Memoria interna (diario del dronista) la voce non è più, appunto, quella del device, ma del suo pilota: che però, se recupera piena umanità, sente ora tutta la mancanza di quell’estensione d’umanità regalata dai dispositivi. Questa sezione contiene infatti le pagine forse più toccanti e significative, dedicate all’accudimento di un nonno. Nel recuperare questo vissuto, l’autobiografico protagonista ammette con dolore la sua inferiorità rispetto alla macchina: «Avrei voluto già averti, drone, per vedere ciò che non mi era dato – correggere gli errori, zoomare sulla carne increspata del nonno, sfumarla con un filtro che fosse adatto, salvarlo dalla morte su un capiente disco rigido». In questo passaggio sta la chiave della poetica di Fly mode.
* *Ai limiti dolorosi dello sguardo umano risponde la portata stupefacente di quello del drone. Questo «tafano in lega di carbonio» o «bombo radiocomandato» può ficcare il suo occhio, a livello macro- e microscopico, dove non arriverebbe mai quello del pilota. Nella sua esaltazione può sognare di spingersi in luoghi esotici e proibiti, dall’Alhambra alle stanze vaticane al parco naturale del Grand Teton (dove il volo dei droni, in realtà, è vietato), invidiando il “collega” subacqueo capace di attraversare i letali laghi salati sul fondo del Golfo del Messico. Ma può anche insinuarsi a osservare le vite delle persone (l’Ascensorista, il Velocista, il Sagrestano) da una prospettiva inedita. In questo modo, il drone diventa a suo modo un narratore. Alla base del libro c’è una «idea […] eminentemente narrativa», come riconosce Cerrai; anche Accardi vede bene che questa, come molta poesia di oggi, è epica dissimulata. L’operazione di Pacini, aggiungerei, è vieppiù notevole perché realizza una modalità epico-narrativa con i mezzi della lirica: alle radici del suo stile sta infatti la grande esperienza dell’ermetismo fiorentino, a cui l’autore è legato per doppio vincolo geografico e di studi.
* *Sia osservato qui, per inciso, che la polarità fra le vedute del vasto mondo e lo zoom su angoli di provincia (una Firenze geolocalizzata, con coordinate di sapore dantesco, «tra Zambra e il Neto», due fermate del treno a lenta percorrenza), ossia fra echi della storia (la distruzione di Aleppo) e storie quantomai private (come i lutti familiari), era già tutta di Pacini. Il primo libro alternava passeggiate toscane a escursioni iberiche, e Perfavore stendeva lo sguardo sulle ariose vedute di un Decamerone americano. In Fly mode questa prospettiva doppia, glocal, trova una più pregnante giustificazione strutturale, e si riflette, come ha notato Milleri, anche sullo stile.
* *Già: come parla un drone? A colpire è anzitutto il lessico dispiegato, che è ricchissimo, ma soprattutto diseguale: marcati ipertecnicismi (non solo meccanici o elettronici, dipendenti cioè dal tema del libro, ma anche anatomici, geologici, etc.) o ripescaggi letterari eruditi si mescolano al registro colloquiale e «infantile» (giusta la nota in quarta di copertina).
* *Fra i castoni lessicali più preziosi e/o ispidi: pomone, krampus, glomere, cavedio, crisoberillo, cefalotorace, zigare, misofonica, tigliosa, costolute, quiditate, meristematica. Pacini sembra particolarmente amare i plurali generalizzanti di nomi propri («stupende Palmanova di crostacei») e i femminili inconsueti (diavolesse, ragne). Esuberante la creazione di verbi denominali (abissato, caseggiare, assiemato, pinneggiando, ombrare, si slama), spesso derivati da nomi a loro volta preziosi (s’inlatebra, aruspica, si specola, lanceola, strigare), o magari resi difficiliores dalla scelta di una variante senza preposizione rispetto al più usuale composto (dolora, barbicando).
* *Le non poche allusioni alla cultura “alta” (non solo quelle dichiarate, dal prediletto Buzzati a Eliot e Valéry) sono spesso “abbassate” con burbera ironia, ridotte a dimensione domestica: il «drone alto levato» si sostituisce al montaliano falco, e a p. 73 si parla dello «yogurt alla vaniglia [che] buonamente potesse esistere» anziché il mondo come in Zanzotto. Non sarà un caso che l’inserto abbia invece toni seri e letterali quando soccorre nell’espressione dell’indicibile: così le citazioni dell’Erlkönig di Goethe/Strauss (in lingua originale) e dai Salmi nelle poesie dedicate al fratello morto prima di nascere.
* *Similmente intricata e irregolare è la costruzione sintattica, che alterna periodi lunghi intere strofe o addirittura componimenti senza pause interpuntive ad altri dall’andamento spezzato e inconcinno. Così anche la metrica, in cui versi di misura molto variabile ottenuti per assemblaggi di cola binari o ternari (per l’analisi di dettaglio si rimanda ancora al contributo di Milleri) si affiancano a sezioni in prosa, fino al caso-limite de Il filo di kevlar con le sue strofe non giustificate a destra, al confine tra verso lunghissimo e prosa. Le figure di suono non mancano, ma le paronomasie e le rime (anche interne), pure molto “esibite” quando presenti, appaiono sporadicamente, e non si può dire che abbiano valore strutturante o che imprimano una regolarità ritmica ai testi.
* *Da tutto ciò risulta una scrittura sicuramente impegnativa. La sua difficoltà, in effetti, è criticata da Cerrai, che vede la «leggerezza» del drone tradita dalla «pesantezza» del dettato: per la complessità lessicale e sintattica, le citazioni, il «sovraccarico informativo e culturale». Obietterei che la complessità sintattica non è un male, e ha anzi una funzione conoscitiva a cui la poesia non dovrebbe rinunciare, come rivendicava Marco Malvestio in un manifesto in difesa dell’iperbato. Anche il lessico di Pacini non è esibizionistico né caotico: è sapido e concreto, preciso anche quando ricercato. Infine, l’information overload è semplicemente la nostra condizione esistenziale odierna – la scrittura sicuramente non può limitarsi a riprodurla passivamente, ma non deve neanche evitarla. Un libro come Fly mode riesce, mi pare, a navigarla e negoziarla onestamente con risultati apprezzabili, proponendo a chi legge una complessità “buona”, che ripaga la decifrazione.
* *Sarebbe quanto mai fuorviante, per dare un saggio di una scrittura che – come si è detto – ha la sua forza nella stratificazione, nella complessità, nella variazione dei registri, mettere in fila un elenco di “bei versi”. Così come sarebbe riduttivo elogiare un libro strutturalmente e tematicamente così ambizioso per singole riuscite memorabili sul piano puramente formale. Lo stile di Pacini invita però al confronto filologico minuto, e anche alla delibazione lessicologica. Proprio nel momento in cui punta più in alto, il poeta ha pienamente recuperato la sua capacità – molto in vista nell’esordio, tenuta più a freno nei libri intermedi – di muoversi con destrezza fra i registri e i vocabolari.
* *Si è già detto che tale libertà di manovra trova motivazione strutturale nel volo del drone: come spiega Pacini, la lingua si eleva quando questo si alza in volo, giustificando certe scelte lessicali molto sostenute; ma trattandosi di un’elevazione meccanica, soggetta a inceppi e malfunzionamenti, ecco spiegate le cadute di tono. Si può aggiungere, senza uscir di metafora, che il pilota del drone dimostra comunque ottime doti acrobatiche («La mia fortuna è che so sterzare d’istinto», profetico incipit di Cos’è il rosso). Per citare ancora l’ottimo studio di Milleri,
con l’elevazione fisica e metafisica del punto di vista operata dal drone, si registra un’impennata dei ritorni fonici, delle giunture sintattiche inusuali, insieme alla presenza di lessico ricchissimo di sconfinamenti ricercati (in senso dialettale, tecnico-scientifico, aulico e anche mediante la rifunzionalizzazione o il ricorso a neologismi o forme insolite).
* *Le immagini migliori partorite da questo stile hanno una ruvida sfrontatezza e una concentrata icasticità, ottenute spesso con mezzi minimali: con un’aggettivazione marcata semanticamente («sole farinoso», «la marcia gutturale dei bagnanti») o formalmente («silenzio catastrofale»); o anche solo chiudendo il sintagma in un endecasillabo reso palpabile da calcolati richiami fonetici («un bozzolo di calze masticate», «rivela la maniera della morsa»).
* *Soprattutto (ma non solo) quando a parlare è il dronista, abbondano le immagini che concretizzano l’astratto o animano l’inanimato; non per gioco concettuale, ma per ricerca della massima espressività e si direbbe per esigenza di abbrancare fisicamente il proprio oggetto. A differenza di quanto avviene, ad esempio, in Francesco Maria Tipaldi, non c’è una fusione continua e a doppio senso dei piani, con risultante liquefazione della realtà: qui è quasi sempre l’astratto che si fa concreto, l’inorganico organico, l’inanimato animato. L’effetto non è surrealista, ma iperrealista.
* *È tipico che a un ente immateriale o comunque intangibile sia attribuita una corporeità, umana o animale: «l’ira manganese del cielo, il suo cranio sudato»; «lo sterno | fesso del mondo»; «aspetto nella gorgia della mente»; «lisciando il pelo al tempo»; «una lisca di suono». Anche un oggetto materiale, ma inerte, riceve tratti d’animale: «i bargigli del lampadario, penduli e asciutti come opossum»; si è visto che il drone stesso è due volte paragonato a un insetto, bombo e tafano (riportando d’altronde alla luce la metafora entomologica lessicalizzata nell’inglese drone, lett. “fuco”). Similitudini corporee e animalesche servono anche ai sentimenti e alla loro espressione, eventualmente sottolineate da effetti fonosimbolici: «i gridi […] friggono come fuchi [!] chiusi nella gola», «il lutto […] come le ossa di un camaleonte luccica | al buio della camera ardente».
* *Quando è già della fisicità umana che si parla, la metafora si fa vegetale. Non trovo che ciò smentisca la direzione prevalente del procedimento metaforico, perché nella pianta il ciclo vitale – anche nella fase calante, che tende alla mineralizzazione – si manifesta al grado più puro, soprattutto rispetto a quella creatura d’astrazioni fumose che è l’essere umano. Nell’ultima sezione, il progressivo decadimento fisico e mentale del nonno è descritto secondo un coerente campo metaforico vegetale, come attestano sia i titoli dei singoli capitoli (germinazione, rizotassi, idrocoltura, potatura), sia le immagini che li popolano: «il torso rastremato del marito», «secco e sfinito come una ramaglia dentro una voliera», «una catasta d’ossa con gli occhi e la bocca», «barbicando gli arti attorno al bulbo».
* *Questo stile, già per sua natura ai limiti dell’espressionismo, sa farsi propriamente espressionistico nei passaggi più tragici. Così, nella sequenza Gabbia azzurrina dedicata al fratello, le espressioni allucinate e dilanianti, ottenute coi procedimenti già visti («le ossa degli occhi tritate», «un fischio che sbosca il sentiero | il latrato dei cani si annida nel cavo uditivo», «la salma inodore del cielo») non hanno più nulla di ludico. Comunque, come puntualmente annota Milleri, la «deformazione espressionistica raramente arriva al punto di sfociare nell’astrattismo, e ci permette quasi sempre di indovinare il materiale di partenza». La lingua di Pacini strapazza e amplifica il reale, ne satura i colori, zooma sulla sua grana più porosa, ma si sente sempre che è col reale che si misura, e non con una costruzione autonoma, sia pure perfetta, tutta interna al sistema linguistico o concettuale allestito dall’autore. In questo poeta, la grande perizia artigianale e l’evidente passione per le potenzialità del linguaggio sono ora più che mai al servizio di una visione etica profonda.
Bernardo Pacini, Fly mode, Amos Edizioni, 2020, 104 pp., € 12.
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Note
[1] Stavo scrivendo “DPCM”: Alberto Savinio avrebbe certo ricavato un arguto paragrafo da questo lapsus calami.
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Per scaricare l’inedito in PDF: Roberto Batisti, Il drone sui luoghi della poesia: Fly mode di Bernardo Pacini
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Immagine: Bartolomeo Rossi, Islanda_B_21
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