Francesca Santucci | Le formiche le formiche

[Questo racconto è uscito sul n. 8 della rivista Cadillac, giugno 2015]

*

Chiedevo sempre a mia madre gonne strette e braccia grandi di comprare i biscotti al burro a forma di animali. Dopo pranzo si sistemava sulla poltrona davanti alla televisione senza audio, respiri profondi, la testa piegata sul petto gonne strette braccia grandi e io spargevo sul tavolo i miei biscotti a forma di leone elefante gatto giraffa.
La prima volta che addentai il collo della giraffa il biscotto si spezzò in due, la testa della giraffa cadde sul tavolo e dalla tovaglia continuava a sorridermi, una cosa che mi pareva come di avergli fatto male, e non li volevo mangiare più i biscotti al burro a forma di animali. Chiedevo però a mia madre di comprarli, sempre, e lei si sedeva sulla poltrona in sala e io prendevo ogni giorno un pugno di animali e li spargevo sul letto in camera mia. Ogni tanto, nel viaggio tra la cucina e la camera da letto qualche animale si frantumava tra le dita, e allora c’era per esempio l’elefante senza proboscide, e quindi infilavo i biscotti rotti nella cesta di vimini dei giocattoli, li nascondevo, costruivo una corsia per gli animali mutilati: lo zoo degli esemplari difettosi. Il biscotto a forma di gatto non si rompeva mai, invece, e tutti i biscotti a forma di gatto li chiamavo Cecco perché da quando ho imparato a parlare tutti i gatti sulla Terra si chiamano Cecco, per me. Poi arrivarono le formiche: prima in camera mia, attorno alla cesta di vimini, poi per il corridoio e poi sul divano dove riposava lei tutta gonne strette e braccia grandi e lei aveva urlato le formiche le formiche, e non mi comprò più i biscotti al burro a forma di animali, però a nove anni mi regalarono un gatto e io lo chiamai Cecco.

Orazio li compra spesso e mi chiede sempre di comprarli, i biscotti al burro a forma di animali, e li mangia davanti a me che inorridisco ancora al sorriso della giraffa quando le si spezza il collo e la testa finisce con un tonfo nella tazza di latte, invece Orazio no, così sono sicura che mio marito non ci porti in casa le formiche.
Questo pomeriggio Orazio mi dice io vado dai Bussi, dobbiamo sostituire il forno, ci vai tu a prendere Michele? Ci vado io a prendere Michele, sì, allora Orazio si tira dietro la porta per la maniglia, si affaccia sull’uscio e fa grazie. Orazio si mette sempre il profumo sulle mani e poi si tocca le spalle il petto il collo, le maniglie delle porte, a casa nostra, hanno tutte il profumo di mio marito.
Vado a prendere Michele a tennis, quando gli faccio cenno a bordo campo mi risponde due minuti. Non è bravo, Orazio lo dice sempre. Ma gioca da poco, faccio io; invece ha proprio ragione Orazio: non è portato.
Dobbiamo fare la spesa, circumnavighiamo l’alimentare ma non troviamo parcheggio. Facciamo il giro dell’isolato due tre quattro volte, via B. F.[1] si è riempita di buche, a ogni giro prendiamo sempre le stesse, Michele che mi chiede di raccontargli una storia per ingannare l’attesa, mi chiede perché stiamo girando in tondo e io gli dico che dobbiamo parcheggiare, Michele, lo vedi pure tu che non c’è posto. E Michele mi chiede perché non andiamo a parcheggiare da un’altra parte, magari più lontano, dietro Piazza D. P.[2] e poi ce la facciamo a piedi, e io gli inizio a raccontare la storia di Ursula e i licheni, ma Michele dice questa la conosco; gli dico che anche la strada che stiamo facendo la conosce, ma mica per questo non la percorre più, però alla fine gli racconto un’altra storia, la invento al momento, mi esce male, confondo i nomi dei protagonisti. Michele infila le dita nella trama della racchetta e sospira.

Mio padre giocava a tennis, e lui era bravo, però. Michele non ha conosciuto suo nonno, ma mia madre gli racconta sempre delle storie su di lui e Michele proprio si annoia. Invece Orazio, il padre di Michele, ha conosciuto e poi odiato mio padre, il nonno di Michele. Quando Orazio entrò in famiglia e prese a pranzare a casa nostra tutte le domeniche, mio padre gli cedeva il suo posto a tavola costretto da mia madre gonne strette e braccia grandi, così Orazio sedeva al posto di papà io sedevo al posto che era di mamma papà sedeva al posto che era mio e mamma per sé aggiungeva una sedia, allora mio padre anche conobbe e poi odiò Orazio, tanto più perché tra un paio d’anni avrebbe sposato la sua bambina. Io e Orazio ci sposammo, infatti, ma mio padre e mia madre non presero parte al ricevimento, perché mio padre quella mattina aveva fatto una doccia molto lunga, e io mi sposai senza bouquet (piangevo piangevo e Orazio mi diceva che ci importa del bouquet).
C’era una perdita nelle tubature del bagno da una settimana; né mio padre né mia madre se ne erano accorti. Mio padre aveva fatto una doccia molto lunga, quella mattina, e alla fine mamma auscultò con orrore il ventre murario e le mattonelle blu e azzurre, scosse la testa riconoscendo il tumore idrico sottopelle e ora che facciamo, ma tu guarda e ora che facciamo, chi la sente Antonia. Antonia è la signora del piano terra che non ho mai visto e di cui ho conosciuto solo il reggiseno e le lenzuola a fiori stese lungo il filo tra una persiana e l’altra, un gatto tutto arancione e folto sempre a scorrazzare per il cortile, mamma dice quel coso di pelo invecchia ma non muore mai, io non conosco il suo nome ma l’ho sempre chiamato Cecco perché da quando ho imparato a parlare tutti i gatti sulla Terra si chiamano Cecco, per me. Mia madre temeva l’ira leggendaria di Antonia, tanto che per due ore dimenticò il matrimonio di sua figlia, si infilò il pigiama e si finse a letto malata, per paura che Antonia salisse a chiedere spiegazioni. Non sono più entrata nella camera dei miei genitori dopo aver compiuto tredici anni, per imbarazzo paura alcune cose più di altre, e quando immagino mia madre distesa nel letto il giorno del mio matrimonio la sua stanza è sfocata e intricata di piedi barche a vela ragni neri e strumenti musicali a corda, mamma ha il lenzuolo fino al naso e sogna metastasi d’acqua pulsare sotto i quadri. Il telefono squillava e se papà provava a sollevare la cornetta mamma dalla camera urlava per carità no!, sicuro questa è Antonia. Non era Antonia, ero io che cercavo mia madre per ricordarle di passare dal fioraio a prendere il bouquet, e invece niente (piangevo piangevo e Orazio mi diceva che ci importa del bouquet).

Una Micra sta uscendo da un parcheggio di 15 piedi, incassato tra una Scenic e una Punto; metto la freccia e io e Michele aspettiamo le manovre nel silenzio che procede la conclusione dell’impresa.
Una settimana fa una rondine ha fatto il nido in una rientranza nel muro della nostra cucina. Michele faceva i compiti e io spremevo un’arancia e abbiamo sentito quel fischio stridulo. L’abbiamo spiata dalla graticola di plastica, in alto, a destra della finestra, Michele mi ha guardato e mi ha detto la chiamiamo Agata. Ho chiamato Orazio come per venire a festeggiare un piccolo miracolo, alla maniera in cui si chiama qualcuno perché guardi assieme a te un piccolo miracolo, uno scoiattolo in un parco, un miracolo piccolo. Orazio è passato in cucina ha guardato Agata ha detto è bella e se ne è andato, ma con una distrazione che.
Provo a fare marcia indietro per infilarmi nel parcheggio e penso ad Agata che chiude le ali nere per entrare nella nicchia del muro. Sbaglio manovra, la macchina non entra. Michele è annoiato e non ci fa caso, ruoto il volante e mi immetto di nuovo in strada, facciamo un altro giro però di corsa perché venti minuti e chiude l’alimentare, Michele, ora scendiamo, tu guarda se trovi un posto. Si è fatto buio, penso all’auto di Orazio che ha un fanale rotto, gli ho chiesto tante volte di ripararla e tante volte mi ha detto oggi pomeriggio lo faccio.
Ecco un parcheggio!, strilla Michele. Siamo sotto casa dei nonni, quando io seguo il suo dito scuro e poi si sente quel rumore, come un secchio che si infila in un pozzo e si abbatte sul fondo e allora dico ho bucato e forse vorrei bestemmiare, ma davanti a Michele no. Scendo e invece non ho bucato, e adesso che faccio, c’è questo coso di pelo che invecchia e non muore mai che stavolta mi sembra morto davvero, arancione e rosso e nero, illuminato appena da un lampione, luccica: è Cecco, è il gatto di Antonia. Alzo lo sguardo e cerco la biancheria familiare stesa lungo il filo, le persiane tutte chiuse. Mi muovo piano, torno verso la macchina lentamente, come in un acquario. Michele non chiede nulla e io dico solo c’era un dosso. Metto in moto: l’alimentare chiude tra dieci minuti. Parcheggio sul retro, Michele scende dalla macchina e dice finalmente.
Ho investito Cecco. Non riesco a capacitarmi del fatto che anche i gatti, come il resto degli animali di burro e pasta frolla, si frantumino. Cecco sbriciolato sull’asfalto, tra poco arriveranno le formiche, arriverà lei gonne strette e braccia grandi, lei urlerà, urlerà le formiche le formiche e smetterà di comprare i biscotti al burro a forma di animali, insomma all’improvviso si scopre questa perdita nei tubi del bagno, si posa l’orecchio sul muro e il muro inizia a pulsare, Antonia si arrabbierà mia madre si metterà sotto le lenzuola io mi sposerò senza bouquet e piango piango ma che ci importa del bouquet.
È buio, penso al fanale della macchina di Orazio, chissà se lo ha riparato, dice sempre oggi pomeriggio lo faccio, ma poi non è mai.

Orazio entra piano in casa, si affaccia in cucina e dice ho già mangiato, col forno ci è voluto un po’, ho mangiato una cosa dai Bussi, vado a fare la doccia.
Rovescio una zuppa pronta in una pentola e metto a scaldare. Penso a quando tutti andremo a dormire, mi rannicchierò contro la schiena di Orazio e gli bacerò l’attaccatura dei capelli poi l’orecchio poi la tempia.
Michele è a tavola che mangia e il telefono inizia a squillare, sento Orazio cantare sotto la doccia, io rispondo:
Pronto.
Buonasera, sono la signora Bussi. Volevo chiederle se suo marito può passare domani, anziché lunedì. Lo sa, il forno da cambiare, è che venerdì abbiamo ospiti a cena, è urgente.

*

Nel bagno il getto d’acqua si ferma all’improvviso, immagino Orazio uscire dalla cabina avvolto dal vapore, poso una mano sulla maniglia della porta e sto per entrare, per esempio gli chiederei dove sei stato, a me importava del bouquet, dove sei stato, gli chiederei vieni a vedere la rondine nel muro, Michele ci può sentire direbbe lui, gli chiederei dove sei stato, a me importava del bouquet, per esempio gli potrei dire questo. Invece stringo la mano attorno alla maniglia, poi la lascio. Orazio si mette il profumo sulle mani e poi si tocca le spalle il petto il collo, le maniglie delle porte hanno tutte il profumo di mio marito e anche questa del bagno, e io rimango con la mano aperta e non so bene più come muoverla.
Michele guarda i cartoni in sala, è sul divano, è sconfitto. È un bambino malaticcio, Orazio dice che è il tennis, che non è bravo, invece Michele non è portato per nessuna cosa, ecco. È gracile, lo sento inerme di fronte al mondo intero, ogni cosa lo può annientare e da ogni cosa va difeso: dal tennis, dalle rondini che si insediano nei muri, dai parcheggi, dai gatti investiti, dalle telefonate nell’ora di cena.
La cucina è sporca, addento una mela. C’è un silenzio confuso, mi alzo sulle punte e mi allungo verso la nicchia, spio tra le tre piccole feritoie della graticola: Agata non c’è, se ne è andata e ha lasciato un disordine di foglie, mi pare.
Orazio è uscito dal bagno, i passi verso la cucina. Mi siedo al tavolo e lui si siede al tavolo mi guarda lo guardo e diventiamo due animali di burro e pastafrolla, lui la zebra io la giraffa. Gli chiedo se ha riparato il fanale, se lo farà domani, o domenica. Una lunga fila nera di formiche ha già circondato le nostre sedie.

*

Note

[1] Via di S. intitolata a B. F., poeta nel dialetto di S.

[2] Piazza principale di S.

*

Immagine: Iantha Naicker, Drawings

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