“altri versi”. Incontri di poesia contemporanea | Elisa Biagini

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[Dopo il dialogo tra Gian Mario Villalta e Daniela Gentile (“altri versi”. Incontri di poesia contemporanea | Gian Mario Villalta) e quello tra Francesca Santucci e Massimo Gezzi (“altri versi”. Incontri di poesia contemporanea | Massimo Gezzi) pubblichiamo oggi quello tra Francesca Del Zoppo e Elisa Biagini, terzo e ultimo appuntamento della rassegna “altri versi.]

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Francesca Del Zoppo: Le immagini di metamorfosi sono una costante della tua poesia. In particolare, la corporalità – perno dei tuoi versi –, scomposta nei suoi organi, viene reificata e associata a oggetti di uso quotidiano attraverso un procedimento di taglia e cuci. Proprio il campo semantico del filo, del cucito, è un motivo ricorrente in tutta la tua produzione poetica. Con Da una crepa (2014), il lavoro sartoriale (o chirurgico) diventa anche formale: estrapolati alcuni versi di Paul Celan dal testo originario, si costruisce con questi un discorso nuovo, rifunzionalizzandoli attraverso il montaggio e dando loro nuova voce in quello che viene definito un autentico dialogo. Corpo e dialogo: è possibile costruire un discorso sulla tua poesia partendo da queste due parole chiave?

Elisa Biagini: Certamente: come ho detto anche altrove, il corpo è il nostro tramite con il mondo, quindi ogni nostra esperienza e conseguente conoscenza passano attraverso di esso. E visto che dobbiamo scrivere di quello che conosciamo, non possiamo che partire da lui, lente imprescindibile del nostro vedere. La ricerca dell’altro anche quando questo è assente, la tensione verso la sua parola, sono da sempre al centro del mio lavoro poetico. Io esisto nell’occhio dell’altro, prendo vita, e solo aprendoci all’ascolto è possibile una comunicazione profonda anche in assenza di una risposta. L’esistenza dell’altro serve a formulare le giuste domande su se stessi e il mondo. Cercare costantemente l’altro è un gesto profondamente politico, di consapevolezza del proprio limite. Gli altri sono necessari per la costruzione di un senso di comunità andato perduto.

FDZ: La tua poesia si presenta formalmente come un versificare asciutto, rigoroso, che lavora per sottrazione progressiva: il verso è breve, la frammentazione insistente, la sintassi scarna, l’aggettivazione ridotta e il tempo soprattutto presente. Sembra che ci sia un’esigenza di definizione e chiarezza, alla quale si risponde con una selezione accurata delle parole, oltre che con una struttura organica e coerente delle raccolte. In una recente intervista, hai contrapposto la tua verticalità programmatica a un certo tipo di poesia italiana contemporanea dalla «parola orizzontale che sommerge» (Quando l’occhio si oscura, in Da una crepa): sarebbe interessante approfondire questa posizione ideologica, anche in rapporto al tuo modo di lavorare.

EB: Sicuramente penso ogni raccolta sempre in un modo molto strutturato. E per fortuna, quando lavoro con l’editore, queste mie strutture vengono sempre rispettate: il testo che deve aprire, il testo che deve chiudere, perché sono costruite a tavolino. Di solito, quando decido di lavorare su una raccolta, ho un progetto chiaro in mente – certo, esistono anche poesie d’occasione, poesie che mi vengono richieste, e sono anche molto divertenti, sono sempre delle sfide – però il libro, la raccolta nasce da un progetto e per questo metto prima insieme molto materiale. È come se preparassi un esame: fotocopie, libri, studio, prendo appunti e poi, piano piano, inizio la costruzione. Di solito non forzo troppo le cose, sennò diventa un po’ innaturale e non prende corpo. Per me è molto importante anche un altro aspetto, che è la mia formazione da storica dell’arte, quindi la presenza delle immagini è un aspetto importante del mio linguaggio, non è un qualcosa di costruito, ricercato. Ho studiato e studio ancora arte contemporanea, quindi per me l’arte è una presenza quotidiana. Intorno a quello che è il progetto della raccolta nascono una serie di dialoghi con immagini di mostre o visite a gallerie. Sicuramente, quello che stavi dicendo sulla pratica di sfrondare il testo – avete sentito i testi de L’ospite (2004) e avete sentito i testi di Da una crepa – è palese, è un’esigenza sempre maggiore. Quando l’occhio si oscura dice proprio questo: di chiacchiere ne sentiamo tante, e allora cerchiamo di scrivere poco, di usare poche parole ben scelte, molto pensate. Viviamo un momento storico, politico, culturale, piuttosto agghiacciante: molte urla, molte chiacchiere in qualsiasi contesto. Nel mio lavoro, trovo importante invece cercare di asciugarle, queste parole. Questo si lega anche molto al tema della responsabilità, cioè chi sceglie di scrivere ha un dovere morale – è chiaro che lo faccio perché mi piace, sennò sarei deficiente e anche un po’ masochista! No, bisogna che chi decide di fare questo lavoro – e io lo faccio ormai da anni – si assuma questa responsabilità della parola e del suo peso storico e culturale. Questo è un problema intellettuale ed è un grosso nodo in Italia, in questo momento culturale faticoso. Quindi, attendere, osservare la parola, ripensarla, rivederla e, solo poi, in un secondo momento, mandarla nel mondo.

FDZ: Nella tua poesia ci si scontra spesso con l’impossibilità: le funzioni della vita sono interrotte o inceppate. Tra queste, anche la comunicazione verbale subisce un cortocircuito o, quando è possibile, ferisce; il corpo, allora, sopperisce alle carenze della voce, assumendo una funzione comunicativa che tenta di fronteggiare l’«embargo» (Tra noi la voce non, da L’ospite) fra gli individui. Nell’ultima raccolta non accade, ma nei versi precedenti la relazione con gli altri corpi passa spesso attraverso una forma di cannibalismo: la corporalità sezionata diventa cibo, ci si esplora mangiandosi. Mi sembra che il costante sforzo del tuo lavoro sia orientato a scandagliare lo spazio che separa l’io dal mondo, occupato da oggetti e altre singolarità, in un incessante tentativo – problematico, fallibile – di superare la soglia che separa e unisce gli elementi del sistema. La parola “soglia” ricorre, mentre la stessa immagine della crepa, ambivalente, se considerata nel suo lato “positivo”, può rappresentare l’apertura di una via di comunicazione?

EB: Il nome di questo libro viene da una sezione alla fine, molto breve, che ho scritto durante una residenza d’artista nel sud delle Marche, nella casa di Osvaldo Licini, il pittore, dove sono stata pochi giorni dopo che c’era stato l’ultimo terremoto a L’Aquila. Anche lì, essendo abbastanza vicino, c’erano molte crepe ed erano crepe reali naturalmente, ma anche metaforiche. E pensiamo anche alla canzone di Leonard Cohen, Anthem. La crepa è fondamentale, è qualcosa che si sta rompendo, però pensate al pulcino: se il pulcino non rompe l’uovo, non passa la luce, non passa la vita. Mi piacciono molto queste situazioni qui! L’ospite è colui che ospita e colui che è ospitato: una sorta di soglia, molto celaniana. Sì, il discorso del mangiarsi per capirsi è fondamentale. È proprio la modalità del bambino piccolo che per capire il mondo assaggia le cose, le mette in bocca. Poi diventiamo adulti, che noia, tutte queste distanze dal corpo… Quante menate! È una grandissima perdita questa, e infatti anche Paul Celan e Emily Dickinson si toccano, perché l’unico modo per capirsi veramente è toccarsi, il capire passa attraverso il corpo, è il nostro filtro con il mondo. Sicuramente la soglia è importante: guardate anche i testi sulla pagina. Per me è fondamentale questo spazio bianco, perché è dove avviene l’incontro fra me e il lettore. La poesia è un trovarsi in mezzo a una stanza, dove io faccio un passo e il lettore fa un passo, quindi non un testo che è facile, perché come tutte le cose belle te le vuoi un po’ guadagnare, ma neanche un testo astruso, incomprensibile, sennò avremmo il poeta sulla sua torre d’avorio. Mi piace anche l’idea della pagina che è uno spazio reale, dove fare un appunto, e che crea silenzio. Un necessario luogo di silenzio. Io trovo di fondamentale importanza il silenzio, il rumore lo sopporto sempre meno, è un’invasione costante, è una delle forme di violenza più perverse. Siamo bombardati: ovunque uno vada, musica e urla, e quindi il silenzio è un grande momento di ascolto di se stessi, e anche per poter ascoltare l’altro io ho bisogno di silenzio. E io devo ascoltare l’altro, perché non sono una monade. Certo è difficile, con tutte le difficoltà della comunicazione. Appunto l’immagine dell’embargo, il blackout, però è quello che dobbiamo fare, non possiamo che tenderci verso l’altro, pur nella difficoltà, è un qualcosa di costante per tutta la vita.

FDZ: La sintassi dei tuoi versi spesso veicola giustapposizioni di cose e azioni; il discorso della coscienza, che procede invece in modo consequenziale, sembra avere meno spazio rispetto a questa struttura analogica, più vicina all’inconscio. Si può riscontrare un corrispettivo tematico di questo procedimento linguistico nelle frequenti immagini di catabasi (il gesto di guardarsi dentro – «rovescio gli occhi in dentro: / faccio luce», da seduta accartocciata come foglio, nella raccolta Nel bosco, 2007 –, la comparsa frequente dei buchi neri, l’immersione nella coscienza, nel sonno, nel corpo) che compaiono nei tuoi versi?

EB: Stavo pensando all’ultimissima poesia di Nel bosco. L’affondamento è di nuovo un tentativo di contatto: inutile ragionare sulle cose in modo cerebrale, io devo toccare, affondare, entrare, quindi il bosco è chiaramente una metafora di qualcos’altro. Non a caso, l’ultimissimo testo recita: «che cosa cerco andando / in tondo e ancora / in tondo? la terra è fino / al cuore, i nervi / attorcigliati / alle forchette dei / capelli». Questa persona si fonde completamente, però in modo gioioso, perché profondamente conoscitivo: non è una fuga, è sempre un modo di cercare, andare oltre.

FDZ: Emerge, nella tua poesia, l’indagine attenta nei confronti di un io frammentato, sfuggente, impossibile da circoscrivere in un intero: oltre al sezionamento del corpo, ricorrono il doppio della voce poetante e l’allocuzione a un’altra sé. In questo senso, il frequente bilinguismo delle tue raccolte – italiano e inglese – può rappresentare un’altra possibile direzione per sondare la propria identità?

EB: Non è mai stata una scelta, non è mai stato un qualcosa deciso a tavolino. È successo semplicemente perché, dopo essermi laureata a Firenze e aver visto che non c’era assolutamente nessunissima possibilità di rimanere all’università, ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio per un dottorato e partire per gli Stati Uniti e, naturalmente, questo ha fatto sì – io amavo già molto l’inglese, anche la letteratura – che mi trovassi praticamente immersa in questa realtà. Mentre facevo il dottorato in italianistica andavo di nascosto a seguire le lezioni di scrittura creativa nel dipartimento di inglese, dove ho conosciuto la mia maestra, Alicia Ostriker, la persona che mi ha insegnato “a insegnare” scrittura poetica, cosa che faccio ormai da anni sia in inglese che in italiano. Mi si è aperto un mondo, perché all’inizio stavo nascosta e lei mi diceva di venire avanti, di partecipare! Cominciai a tradurre poesie dall’italiano per poterle condividere con gli altri compagni di corso. E poi a sognare in inglese, in modo naturale. Come altrettanto naturale è stato poi tornare alla lingua italiana quando sono rientrata dopo aver studiato e poi insegnato lì per cinque anni. L’inglese è la lingua nella quale insegno, sia storia dell’arte che scrittura e letteratura, però naturalmente non è più la lingua della quotidianità, quindi adesso solo qualche volta scrivo in inglese, quando sono negli Stati Uniti, sennò è raro. Sicuramente scrivere in un’altra lingua è affascinante, ti permette dei giochi linguistici, delle sperimentazioni: io ho scritto una sestina in inglese, cosa che in italiano non avrei mai osato fare, non mi interessa minimamente! Farlo lì era chiaramente un gioco, una sfida, però un gioco molto istruttivo, perché “ti osservi” scrivere e osservi come gli stessi temi, immersi in una lingua diversa, si manifestino diversamente.

FDZ: Hai collaborato spesso con artisti di varie discipline (musica, danza, teatro) e hai realizzato varie installazioni artistiche, ma mi sembra che il tuo essere poeta resti centrale nella maggioranza delle incursioni in altri linguaggi artistici. Come si comporta la poesia – la tua poesia – quando va a creare un discorso unitario con altre forme di espressione? In particolare, mi sembra interessante la commistione fra la poesia, un linguaggio dal pubblico ristretto, e la musica pop.

EB: Questa è una cosa a cui tengo molto, perché poi il lavoro del poeta è un lavoro molto solitario e quindi è importante confrontarsi con gli altri, educativo, anche in relazione al tuo io! Anche l’esperienza della traduzione, in questo senso, è molto utile, perché un autore che sta traducendo deve essere sempre molto vigile, molto rispettoso. Ripeto, la formazione di storica dell’arte è stata importante. Fin da quando ero adolescente mi baloccavo con l’idea di fare l’artista visiva, poi ho capito che non c’era “trippa per gatti” e ho lasciato perdere, e ho visto che la scrittura mi coinvolgeva e mi appassionava molto di più. L’inizio della collaborazione con Virgilio Sieni è avvenuto molti anni fa quando lui ha coreografato una mia lettura poetica… Per fortuna non ci sono tracce! Da lì, poi, è nata un’amicizia: ho scritto un poemetto per un suo spettacolo e continuiamo a collaborare. È affascinante, perché ti immergi nel mondo di corpi in azione, non solo immaginati o raccontati, sei sempre in una situazione di dialogo, e per me queste cose sono fantastiche e stimolanti. Stessa cosa con Filippo Gatti. Avevo scritto così, per divertimento, una serie di testi per canzoni d’amore, piuttosto diverse dalle cose che avete sentito, ma proprio per sfida, e un amico ci ha fatti incontrare. Filippo Gatti è un cantautore, ma in questa occasione ha pensato solo alla musica. Il disco che abbiamo fatto ovviamente non è stato distribuito, è morto lì, però esiste, penso che si possa trovare qualcosa online. Anche quello è stata un’esperienza importante: dalla propria cameretta uno entra nello studio di registrazione e deve tener conto di mille cose, persone. Cambiare il testo, perché si deve adattare a certi ritmi. Quando è possibile poi collaboro con artisti visivi, anche con il mio compagno, che per esempio ha fatto le foto che sono sulle copertine dei libri usciti negli Stati Uniti. Uno dei progetti di installazione a cui tengo di più l’ho realizzato in occasione di un festival, che adesso si chiama La democrazia del corpo e si occupa di vari linguaggi artistici. Mi fu chiesto un progetto per l’Oltrarno, il mio quartiere. A una decina di persone chiesi “avete voglia di raccontarvi attraverso un oggetto della vostra casa?” – solo una di loro mi conosceva. Mi hanno invitata a casa loro, mi hanno dato fiducia e si sono raccontati (chi ha scelto una poltrona, chi ha scelto una vecchia foto) mentre io prendevo appunti. E poi gli ho chiesto una vecchia federa, usata, bianca possibilmente, e dopo un paio di settimane, dopo aver scritto i testi, gli ho riportato la federa con una poesia basata sul loro racconto di sé. Durante i giorni del festival, la federa rimaneva appesa fuori dalla finestra, e l’idea era quella di portare i testi fuori dalla pagina. La cosa più carina era ascoltare persone che non conoscevi dire, quasi sorpresi di se stessi, “ah, guarda, una poesia… E mi piace!”. Se a una persona dici “adesso ascolta una poesia”, la reazione è sempre “no, la poesia non la capisco, adesso non posso, no guarda ho fatto tardi devo andare!” Se invece li freghi, gli fai leggere una poesia e dopo gli dici che è una poesia, diranno “però, mi è piaciuta”, incredibile!

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Immagine: Claude Cahun, Untitled (1939)

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