[Pubblichiamo un dialogo tra Gian Mario Villalta e Daniela Gentile, tenutosi nell’ambito della rassegna “altri versi“.]
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Daniela Gentile: Il procedimento mediante il quale conosciamo il mondo e noi stessi è tema centrale tanto in Vedere al buio quanto in Vanità della mente e, infine, in Telepatia: i nostri occhi e la nostra mente tengono insieme immagini con una sforzo conoscitivo di sempre maggiore definizione, ma si scontrano anche con la fallibilità di queste percezioni: c’è una connessione tra questo tema e la necessità formale di ritornare su testi già editi in Vanità della Mente e di approdare infine alla forma dei poemetti sciolti in Telepatia, come forte ammissione del fatto che solo la frammentazione e, insieme, l’ontologica perfettibilità delle singole immagini, possa restituire integrità alla narrazione dell’io?
Gian Mario Villalta: La nostra mente organizza sempre di nuovo non solo (e non separatamente) la nostra conoscenza acquisita del mondo, ma il nostro modo di accoglierlo dentro i processi di percezione/emotività/simbolizzazione che costituiscono l’incessante interazione tra noi e le cose, gli eventi, gli altri.
Forse è più facile fare appello all’esperienza: quando ci rendiamo conto che siamo cambiati, che qualcosa è diverso nel nostro stesso modo di essere, non siamo in grado di ricostruire il percorso che ci ha portati a questo esito. Mi pare di aver capito che questo avviene perché il nostro cervello forma la mente (che ci appare unitaria) attraverso processi che sono distinti e diseguali, e comportano livelli stratificati e diversi di organizzazione dei dati esterni e interni del corpo, dovendo inoltre ri-configurare strutture simboliche – si pensi solo alla lingua – che sono articolate in specifici linguaggi.
Prima che ci venga il mal di testa, insomma, si può riassumere così: ciò che percepiamo come unità della mente che produce un «io» è sempre il frutto di un istantaneo disegno, corrispondente a uno stato puntuale dell’insieme delle nostre facoltà. Nel tempo, questa «puntualità» che a ogni istante si ripropone forma una continuità, che è necessaria all’esperienza ma spesso «falsifica» l’originario (ammesso che esista un originario «puro») evento. Non c’è niente di male, in tutto ciò, anzi è sicuro che produca ampie facilitazioni per l’adattamento e per la soluzione di molti problemi. Resta però da considerare quello che perdiamo, il lutto per noi stessi, gli altri, i nostri desideri e il nostro essere passato. Non solo il lutto che soffriamo consciamente, ma quella perdita che sfugge alla coscienza, quella tensione che fa del tempo della vita una specie di aspirazione costante a ricongiungerci con noi stessi, dove gli altri sono – in una versione possibile del mito platonico dell’androgino – il nostro «uno» e la nostra metà, il nostro vero altro e il nostro fake o sosia o «doppio».
Per questo la forma poetica – per arrivare finalmente alla tua domanda sulla poesia – vive sempre tra conservazione del passato e apertura, tra l’istante che adesso vuole legarsi al «dire» e la coscienza (a sua volta un’urgenza di affermazione) che questo «dire» si situa nel passato.
Se, una volta tematizzato, come lo è nella mia poesia, si prende sul serio questo compito, allora sarà necessario pensare l’integrità dell’io come una scommessa sulla possibilità di far dialogare il tempo della parola con la forma poetica e con il suo progressivo pervenire a una dimensione conclusa di testo.
Mi sono trovato più volte, in passato, a percorrere in questa ricerca sentieri formali che, pure dentro un’area circoscrivibile, hanno avuto bisogno di conformarsi a terreni di diversa natura. Basti come esempio menzionare la coesistenza di lingua e dialetto. Si è trattato dunque, tra molte altre cose, da Vanità della mente a Telepatia, di guardare in faccia e riconoscere chi era il soggetto del precedente itinerario. Una poesia è un frammento, che si vorrebbe specchio e riassunto, pars pro toto, della tensione tra la parola e l’esperienza. In realtà, non potendo essere né specchio né riassunto, rimane qualcosa che potrà solo raggiungere un’autonomia tale da ottenere l’effetto opposto, ovvero che alla vastità infinita delle parole e dell’esperienza venga sottratta quella parte che la poesia rappresenta, e in un certo senso venga a mancare all’esperienza stessa e solo lì, in quella poesia, si ritrovi. Analogamente si potrebbe dire per l’io: nella poesia c’è una parte (vera) di sé che è solo lì e solo lì può trovare.
DG: La raccolta Telepatia sembra insistere a livello concettuale e semantico sul tema dell’invenzione nel suo senso etimologico. Se noi siamo (come si legge nel poemetto Immagino, guardo, ragiono) «ostaggi / di qualche significato, ancora icone», non resta che invenire, ricercare un passato (come recita lo stesso titolo del primo poemetto, Invenzione di un passato), inventare la nostra identità: sono i punti di discontinuità forti, momenti di distacco e, in generale, momenti di dolore che, più di altri, dicono chi siamo?
GMV: Intanto, mi raccomando, l’espressione «inventare la nostra un’identità» non deve diventare qualcosa di superficiale, del tipo che ognuno si inventa l’identità che vuole o peggio (ricordo un’espressione analoga: «inventarsi il lavoro»). Invenzione, in questo caso, come giustamente sottolinei, da invenire, vuol dire trovare quello che già in sé è al lavoro, l’identità che è sempre in via di costruzione e di distruzione.
La nostra cosiddetta identità è soprattutto – semplificando – il persistere nel tempo dei riferimenti di interazione del nostro agire e pensare, delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Se può essere un dolore, da un lato, la scomparsa di una persona cara, può essere un fattore di discontinuità che produce sofferenza anche la perdita, o la brutale trasformazione, di qualcosa che costituisce un riferimento quotidiano (nel paesaggio, per esempio, oppure in qualche tradizione). Da questo punto di vista anche il «nuovo» ha sempre una componente micro o macro traumatica, per quanto a volte positiva. Il «chi siamo» è sempre al lavoro in quegli interstizi. È lì che si misura, che perde la misura, che sceglie o viene catturato. Per questo c’è «invenzione», trovando «ci si ritrova», si va incontro – dentro – a ciò che viene.
DG: La natura è puro ciamàr, un puro richiamo (da Prima vera II in Vanità della Mente) cui l’io poetico sembra dare ascolto e voce indugiando nelle descrizioni; né mancano gli animali, un bestiario di tenerezza che completa questo quadro poetico: la poesia può, in una certa misura, paragonarsi, se non sostituirsi, a quel solco che tenta di lasciare traccia duratura nel tempo e del tempo della propria terra?
GMV: Se valutiamo il passato con il tempo della storia (figuriamoci quello dell’evoluzione!) viene in evidenza che la specie umana ha trionfato su tutti gli altri animali da pochi decenni. È un fatto però che oggi possiamo non temere più gli animali e allo stesso tempo immaginare a breve di dedicare parte del pianeta agli allevamenti intensivi e creare per il resto uno zoo globale, dove tenere monitorata e regolata la quantità e la diffusione degli altri animali. Questa demente prospettiva è legata anche al fatto che – a parte il fatto di alimentarsene – l’uomo non ha più bisogno degli animali, quando invece ha costruito la sua evoluzione culturale, le sue prime civiltà, sull’addomesticamento e sulla simbiosi con altri animali. E così l’essere umano crede di potersi dimenticare che viene da là, e che in parte è ancora là, nel regno animale. Non parliamo dell’acqua, della terra, degli alberi, di quell’incessante lavoro di reciproco adattamento che ci presenta il pianeta come se fosse davvero un’opera, una «creazione». E questo avviene perché da sempre la vita terrestre tutta è all’opera con il mutare delle condizioni della terra, mutandole, adattandosi e adattando. Troppo velocemente, però, l’uomo ha di recente acquisito una potenza tale da poter produrre mutamenti che vanno oltre la sua capacità di comprenderne le conseguenze e di adattarsi a esse. La natura allora chiama, come ha sempre fatto, chiama come può, in moltissimi modi, senza parole e allo stesso tempo con un radicamento nel linguaggio più profondo della parola storicamente determinata. E la parola della poesia, storicamente determinata, deve ascoltare quella voce, trovare i segni, a sua volta lasciare una traccia perché quei segni vengano riconosciuti.
DG: «Si vorrebbe allora un dire che avesse radici / nella bocca, nel nocciolo del tempo» leggiamo in El scravass, IV, da Voci di Voci: che percorso ha fatto la speranza in una lingua che potesse ridurre i concetti e le cose a un grado minimo di bisogno, con una semantica, quella del dialetto, che notoriamente esclude ciò che non è strettamente necessario e che sa perciò accorciare le distanze tra noi e le cose, tra noi e le cose pensate, tra noi e le persone?
GMV: Il dialetto mostra una possibilità – illude anche, da questo punto di vista – di risalire a un fondo più denso di quel dire che è sempre appeso all’istante. Il contrario dello scrivere, da un certo punto di vista; da un altro punto di vista anche l’analogo opposto: lo scrivere crea uno strato di parole resistente, quanto è inafferrabile il fondo del dialetto. Parlo di un dialetto senza storia, mai scritto prima, ovvero del suo sogno e della relativa filologia. Mi sono addentrato nelle ipotesi più estreme della mia coscienza e incoscienza del dialetto, giocando a rimpiattino con il suo passato e con il mio presente, con il suo presente e con il mio passato. Poi si è affacciato lo spettro dell’estetizzazione (la moda, il recupero, il folklore, la sagra, il vintage) e dell’uso politico identitario – così ho pensato che era il momento di lasciar perdere (almeno per un decennio, poi si vedrà).
DG: Costante tanto quanto topica è la riflessione sul tempo, la sua durata e la sua analisi qualitativa più che quantitativa e quest’ultima, laddove presente, è isolata e ricomposta per singoli tratti. L’io che si pone in questo tempo, in questi tempi, risulta nei componimenti perennemente consapevole di questa segmentazione, si interroga su quali momenti esattamente compongano, nella loro pluralità, una unità. L’atto poetico risana queste fratture inevitabili se si fa simbolo di quello che perdura senza discontinuità?
GMV: L’atto poetico, per quel che ne so come effetto su di me (della poesia degli altri), traccia nella mia mente e nel mio corpo, anche nel suo aspetto psicomotorio, una relazione che, attraverso la parola, crea l’analogo/vero di una possibile unità della pluralità, di una possibile animalità salva nell’umanità, di una possibile contemplazione dell’agire mentre è esso stesso in atto. È un analogo che «avviene» veramente – per la capacità della parola di causare in me senso, immagine, movimento – ponendo in evidenza il disegno di una verità altrimenti non esprimibile.
Per quanto riguarda quello che faccio io… ci provo. Provo a far sì che si veda – che resti aperta – quella che tu chiami la segmentazione e allo stesso tempo si mostri una possibile unità (e soprattutto l’unità vera che sempre sfugge e sempre si disfa ogni volta che si compone). Non mi illuderei perciò di trovare simboli che perdurino nella discontinuità, se non posti in gioco, interrogati, fatti agire al suo interno e – a volte – soltanto «lasciati stare».
DG: Nella poesia si fa strada l’urgenza di dover dire qualcosa, di veicolare un messaggio di responsabilità (si veda nel poemetto Tra mi e ti, II da Telepatia il «tocca a te parlare, adesso,»), ma allo stesso tempo non si rischia di cadere nell’assertività perentoria: quanto peso ha la presenza di segmenti dialogici per realizzare esattamente questa condizione dell’io poetico di non assolutezza e di continuo confronto, che sia domestico o con i poeti?
GMV: Anche qui indovini un dato importante: l’assertività si combatte con elementi elusivi nel lessico o nella sintassi, oppure con la contrapposizione dialogica, che in Telepatia si declina in molti modi, anche con cifre stilistiche diverse che compongono lo stesso poemetto. Anzi ho cercato in Telepatia di far convivere voci (toni, metrica, stile) diverse in uno stesso componimento, laddove in precedenza la diversità veniva dislocata in sezioni.
E poi non c’è nessun divieto al confronto, per me: parlare di altri poeti o con altri poeti, direttamente o, come accade con Andrea Zanzotto, in una visione, è quello che i poeti hanno sempre fatto, più o meno esplicitamente. Così come avviene con gli altri tutti, anche se non sono poeti: è sempre attraverso gli altri che ci conosciamo. Ricordiamoci che nessuno si vede davvero allo specchio: ci mettiamo sempre in posa. La volta che invece ci accade di girare l’angolo senza sapere che dall’altra parte c’è una vetrina-specchio a un metro di distanza, dove rischiamo di andare a sbattere su noi stessi, facciamo un passo a lato, scartando, pensando in un primo momento: «Ma guarda quella faccia da imbecille…!».
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Bibliografia
Gian Mario Villalta, Vose de Vose/ Voce di Voci, Campanotto Editore 1995.
Gian Mario Villalta, Vedere al buio, Sossella Editore 2007.
Gian Mario Villalta, Vanità della mente, Mondadori 2011.
Gian Mario Villalta, Telepatia, LietoColle, 2016.
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Immagine: Jürgen Partenheimer, Senza titolo (1992)
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