di Maurice Blanchot
*
[Quella che segue è la prima parte di una riflessione accolta in un dittico di paragrafi concettualmente coeso, tratta da M. Blanchot, La conversazione infinita. Scritti sull’insensato gioco di scrivere, Einaudi, Torino 2015, pp.315-316.]
*
Diciamo qualcosa di più tranquillo e riprendiamo il procedimento nel momento più classico. Il linguaggio rappresenta. Non esiste ma funziona. Più che per dire, funziona per ordinare. Scompare, in questo linguaggio che essenzialmente scrive e che scrive per non esistere, la parola come oralità mormorante, “io” personale, ispirazione e vita. Naturalmente gli oratori (quelli dal pulpito) e i conversatori (quelli dei salotti) mantengono la tradizione vocale, ma la riferiscono appunto a Colui da cui essa deriva, l’Altissimo. Se Dio riserva a se stesso la voce e parla solo al culmine della parola, e come lui, il Sovrano è il solo a parlare con diritto, l’arte della conversazione esiste solo per moltiplicare gli echi della sua parola donde nascono intrighi e ripetizioni senza fine. Dunque la parola vocale è l’unica in rapporto con il logos sovrano. La scrittura, ossia la letteratura, sfugge all’oscuro dettato, evita il detestabile Io, respinge il cambiamento temporale: indubbiamente rappresenta, ma che? Rappresentando con l’ordine, tende a rappresentare solo quest’ordinamento stesso e la perfezione del suo ordinamento. L’età classica sarebbe in questo senso il primo periodo dello “strutturalismo”: tutto è palesemente forma, e la retorica si costituisce definitivamente preparando le chiavi ai decodificatori dell’avvenire. Inoltre l’impersonalità – un’impersonalità nobile, destinata ad eliminare ogni bassa particolarità, ogni promiscuità di bassa lega, l’inidentificabile – si afferma come marca della scrittura e della razionalità. Resta però il fatto che l’ordine stabile o impersonale, prodotto da un linguaggio che non esiste, fallisce il compito operativo ad esso riservato. Mettere in ordine e classificare è diverso dal mettere in rapporto mediante operazioni di misura che abbiano la funzione di identificare equiparando e rendendo possibili, con questo equiparare, delle trasformazioni successive. (Aggiungiamo subito che è proprio questo il motivo per cui lo “strutturalismo” mancò degli strumenti essenziali e finanche della possibilità delle sue operazioni). Descartes inventa la geometria analitica, rinuncia cioè a costruire la figura, a renderla visibile come soluzione del problema, e ne cerca l’equazione, ossia lo scritto, anche quando il tracciato della figura non è realizzabile. In tal modo egli propone direttamente alla scrittura un cambiamento decisivo, “riducendo” ciò che vi resta di naturale e sottraendola al suo ideale di visibilità. Ma ben lungi dal riconoscersi in questa proposizione la cui aridità la spaventa (proposizione che inoltre inchioderebbe la scrittura alla sola misura dello Stesso trascurando l’Altro, ossia ogni forma di trascendenza, ivi comprese tutte le trascendenze matematiche che Descartes rifiuta effettivamente di prendere in considerazione), la scrittura, cedendo alla pressione di altre esigenze, si comprometterà e verrà a patti con la parola che parla, dando voce all’origine. Eppure in questo modo essa fa precipitare anche il proprio destino. Michel Foucault ci ricorda che nel Settecento e con l’approssimarsi del romanticismo, il linguaggio trascura la lettera per ricercarsi nella sonorità (Grimm, Bopp). Si può forse dire che, per orrore dell’ordine che ha servito, la letteratura rompe con se stessa, scrive qualcosa che fa appello a ciò che non si scriverà mai in quanto è estraneo ad ogni possibilità di essere rappresentato: la parola eolia, priva di parola, che già si sentiva a Dodona, non già pronunciata oscuramente dalla Sibilla, ma sempre annunciata nel ramificato mormorio dell’albero, e che Socrate rifiutava come rifiutava la scrittura.
*
Immagine: Anselm Kiefer, Margarethe
One comment