Viviana Faschi, Lo Spleen di Milano

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I testi che seguono sono tratti da Lo Spleen di Milano (NEM, 2014).

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Milano-Itaca: un labirinto
ritorno all’ordine

“Il tuo labirinto non sarà mai il più grande del mondo, il più grande è il deserto”
Jorge Luis Borges a Franco Maria Ricci

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L’ho visto snodarsi dal cielo e pareva dotato di coerenza, con grazia ordinata s’infittiva, si complicava. Più e più volte ci sono entrata dalla terra e ho visto il caos: ho visto dapprima una fenditura, apparentemente non così piaga aperta da scorgerne un Fondo, una netta divisione cicatrice che non sapevo come significare; poi uno squarciarsi improvviso (Χαινω) del vuoto; un abisso (Χασμα); un pietrificante restare-a-bocca-aperta (Χασκω).
Però Lui, il labirinto, dal canto della sua etimologia non così semplice, era tutt’altro: molto di meglio e molto di peggio.
E io camminavo sempre più velocemente, in automatico, sempre più il fiato corto, sempre più girare in tondo “stiamo facendo il giro dell’oca”, sempre sempre più. Ma non trovavo.
Erano corridoi d’albergo antico ad Assisi, era un centro commerciale la domenica da bambina, era una rete metropolitana straniera.
Non ho mai avuto paura di perderMi.
Ho sempre avuto paura di trovare, di trovare qualcuno che non eri tu, al tuo posto.

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Se immagino i Giardini della Guastalla
la notte
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Se immagino i Giardini della Guastalla, oltre le finestre immense della biblioteca, mentre cala il crepuscolo, e io ho ancora ore da spendere in questa angoscia della vita, vedo una natura segreta e primordiale che brulica, quasi a dispetto del mio dolore; vedo che rada si fa la gente con i cani a passeggio, le badanti che raccontano un po’ di memoria agli obliati anziani, il popolo dell’atletica da giardino e del fitness, gli studenti a caccia di sole. Vedo l’imbrunire del solitario, dello psicofarmaco, del televisore acceso sul rumore bianco.
Se immagino la vita segreta del giardino, non immagino un giardino segreto, ma l’indaffararsi di merli in attesa della cruda sera (e della crudele notte), le luci dell’Ospedale Maggiore dove un malato si affacci e senta il fresco del buio gremito d’auto e di cinguettio e, infine, il silenzio: il silenzio da tirare per i capelli tra un clacson e il gas di una moto, tra un vociare e una risata, tra la luna e il crepitare odoroso della notte.

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Milano-Itaca: New York
ordinaria follia
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Cammino per Fifth avenue e il vento sfila tra i palazzi, cammino e il vento sfuma i palazzi, li taglia, il vento li precipita. Precipitano oggetti sui binari della metro, precipitano cartacce, calcinacci dai soffitti vecchi, precipitano corpi. Precipita la mia mente a quel buio così luminoso, a quel freddo così caldo, a quella nebbia così vicina da nascondere le cose lontane.
La nebbia a New York dimezza Rockerfeller, rende Flat Iron ottocentesco.
Il vento a New York muta in stelle tutte le luci, via lattea trafficata.
Saranno tutti questi, modi, invenzioni, per posticipare la solitudine o l’ansia, simulare nella metropoli un parco divertimenti, un giardino di delizie, di sconti e occasioni; eppure ogni grattacielo getta un’ombra ugualmente imponente, crea angoli ancor più repentini e come se non bastasse l’incontro con lo sgomento di quella tanto temuta ordinaria follia può pioverci addosso anche in pieno centro, in pieno sole, nel pieno comfort vellutato e intimo fabbricato apposta per forcludere l’inenarrabile ambiguità del quotidiano.

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Immagine: Claudio Citterio, Cronografite (12 H), 2013, disegno preparatorio.

 

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