La seconda parte della conversazione online sulla poesia fra Gherardo Bortolotti, Simone Burratti, Guido Mazzoni e Marco Simonelli. Le domande sono a cura di Claudia Crocco. Qui la prima parte.
2.
CC: Appartenete a generazioni poetiche diverse, eppure egualmente definite dalla necessità di negare o giustificare l’uso della prima persona. Quello di se e come dire io è un discorso ormai vecchio, che risale agli anni Sessanta; eppure sembra essere ancora ineludibile. Mi interessa sapere come vi siate posti il problema, e come lo abbiate risolto (e questo riguarda anche Bortolotti: l’esperienza personale è del tutto assente dalla struttura narrativa minima di alcuni testi di Tecniche di basso livello?).
Ma c’è anche un altro aspetto di cui vorrei parlare: sia le liriche confessionali di Simonelli e le prime di Burratti, sia i testi in prosa di Mazzoni e Bortolotti nei quali compaiono terze persone (cioè quelli a dominante narrativa) sembrano esprimere il fondamento narcisistico ed egoistico della natura umana. Forse è solo una mia suggestione, ma mi interessa questa dialettica: da un lato la negazione dell’io (o il suo rovescio, cioè la mitizzazione), dall’altro una scrittura che sembra di voler esplorare l’umano. Non direi lo stesso per tutta la poesia contemporanea che leggo, neanche per quella lirica. Talvolta la lirica è pura astrazione dall’umano, in altri casi manierismo o affettazione. Quanto allo sperimentalismo formale, penso che tecniche come il cut-up o il googlism ecc. possano essere strumenti interessanti (ma, appunto, strumenti) all’interno di una ricerca; quando ne diventano anche la motivazione interna, la scrittura mi sembra perdere valore e diventare sterile.
Cosa ne pensate?
SB: è vero che nei miei primi testi c’è “più io”, o meglio una prima persona più identificabile con il sottoscritto, che non nei più recenti: credo però che questo non cambi la sostanza del tutto, dal momento che l’espressivismo non è mai stato la mia piattaforma di lancio né il mio punto di messa a fuoco. In generale, mi è sempre più interessato il concetto di autore che non quello di prima persona. Si dice spesso che l’io in poesia non è una mera questione grammaticale ma poi ci si ferma sempre lì. Mentre invece un discorso come quello dell’indipendenza del testo dal proprio autore, a partire dalle scritture automatiche fino ad arrivare a cut-up, flarf ecc., è spesso lasciato in secondo piano anche laddove potrebbe generare dibattiti ben più prolifici, per esempio per quanto riguarda la responsabilità autoriale e il valore del testo autonomo. I miei unici due esperimenti di semi-googlism (anche se forse sarebbe più corretto parlare di “wikiprose”) erano tentativi in questo senso: tentativi di smantellamento, senza dubbio, ma comunque dall’interno. Quando ho cominciato a scrivere i due testi sapevo già dove dovevo volevo andare a parare, e l’essere costretto a usare esclusivamente una tecnica auto-esclusiva, e frasi in un certo grado generate casualmente, non mi ha impedito di dire quello che volevo. Ma in tutto questo c’era un’intenzione, oltre che polemica, anche personale, che potrebbe tranquillamente ampliarsi alle tecniche di scrittura tradizionale: le poche volte che provo a fare una cosa è per non doverla fare più.
Detto questo, raramente riesco a scrivere qualcosa senza partire da un microcosmo, che è quasi sempre personale. Credo che, in un periodo storico in cui regna il sintagma “lo dice la scienza”, provare a dire qualcosa, anche di piccolissimo, senza appoggiarsi a presupposti di dimostrabilità-a-tutti-i-costi, senza pretendere un’autorevolezza derivante da chissà quale status o tesi ma solo da quel poco che si è capito, sia la scelta più “contro il mondo” possibile, e forse la più politica.
Per quanto riguarda il giudizio sulla poesia più propriamente lirica, mi viene da aggiungere che il panorama delle ultime e ultimissime generazioni, fatte le dovute eccezioni, mi sembra quantomeno imbarazzante. E lo dico trovandomici dentro, anche se solo lateralmente. Non credo si possa nemmeno parlare di manierismo dal momento che il manierismo prevede almeno una consapevolezza formale che è quasi sempre assente; curioso e paradossale che un’alta consapevolezza formale si trovi più spesso in autori di area sperimentale, come nel caso di Gherardo, che ha scritto proprio un intervento contro l’“artigianato” nella scrittura.
GM Sarebbe interessante chiedersi perché oggi si discuta così tanto della prima persona e del suo corrispettivo linguistico, l’assertività. Io credo che dipenda dalla sovrapposizione di due fattori: il primo agisce almeno due secoli, il secondo da pochi decenni. L’elemento di lunga durata è inscritto nella logica della poesia moderna. Gran parte dei testi che compongono il genere sono costruiti in modo strutturalmente egocentrico: una prima persona esprime contenuti personali in uno stile che vorrebbe essere personale, cioè lontano dal grado zero della comunicazione condivisa. Anche le opere che rifiutano la dizione lirica si reggono comunque su una forma pesante di straniamento, molto diversa dalla maniera ordinaria, socialmente oggettiva, di dire le cose. L’elemento di breve durata è invece il riflesso letterario di ciò che è successo in Occidente negli ultimi decenni, quando le masse hanno conquistato il diritto democratico di esprimere se stesse, di prendere la parola, di asserire, di dire io. L’individualità si è inflazionata: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti», si legge nell’incipit di Troppi paradisi, «come i ragazzi di borgata che indossano a migliaia le T-shirts con su scritto ‘original’» o come le merci prodotte in troppi esemplari. Nello stesso periodo di tempo l’ethos contemporaneo si è fatto ferocemente egocentrico: la vita personale (o la sfera allargata della vita personale: gli affetti, la famiglia) è, per molti, la sola cosa che conti davvero; ogni altra appartenenza è venuta meno. Pur essendo un prodotto di serie, il nostro io rappresenta, per tutti o per quasi tutti, un valore assoluto e privo di trascendenze.
Oggi la poesia deve confrontarsi con questa dialettica dell’individualismo. Può farlo in due modi: o costruendo modelli di soggettività acclimatati alla nostra epoca, capaci di esprimere il mondo mentale, il narcisismo, la solitudine degli individui contemporanei, o oltrepassando la prima persona. A me interessano entrambe le possibilità – mentre non mi interessa perpetuare i modi tradizionali di dire io. Alcune delle poesie che ho scritto si servono della prima persona, altre cercano di trascenderla. Una parte della poesia sperimentale contemporanea lavora su scritture ipoassertive, implicitamente virgolettate, sottoesposte; io lavoro su una scrittura iperassertiva e sovraesposta, uso materiali saggistici, rifiuto quella convenzione che obbliga il poeta a servirsi di un io letterario infantile, regressivo o incolto, un io meno intelligente dell’autore reale.
MS Esiste la tendenza ad identificare la voce che in un testo poetico dice “io” con quella dell’autore ma in realtà non si tratta mai (nemmeno nei casi più naïf) di una coincidenza perfetta, piuttosto di una costruzione, di una selezione oppure addirittura di un bluff. La prima persona singolare cessa di intimorire quando si inizia a concepirla come un’entità dinamica: non mi scandalizza un io quanto la sua inattività e l’assenza di relazione con altre entità, pronominali e non.
Più che definire una scuola o tendenza poetica, il termine “confessionale” potrebbe indicare più generalmente una serie di relazioni fra autore, testo e fruitore: tramite l’esposizione di un io-personaggio l’autore induce il fruitore ad abbassare le difese, lo depista, gli fa credere d’essere un mero spettatore, salvo poi instillargli il dubbio che l’io che si confessa non sia soltanto quello autoriale ma anche il proprio. L’io allora diventa un cavallo di Troia condotto di soppiatto all’interno del fruitore con l’intento di creare una sorta di con-fusione fra le parti. Purtroppo, quando diciamo “confessionale” in italiano, non possiamo fare a meno di pensare al rito religioso della confessione e secondo me la maggior parte dei pregiudizi verso questa modalità relazionale letteraria deriva proprio da quell’accostamento: sarà dunque necessario sottolineare che la voce che si confessa non cerca affatto un’assoluzione né si sente oberata dal peso di chissà quali “peccati”. Se la poesia è considerata un accadimento vocale, ricercherà semmai un ascolto e conseguente rapporto. Parliamo dei problemi dell’io ma anche il tu è un pronome che presenta una bella dose di inconvenienti e pregiudizi!
Come autore ho cercato, di volta in volta, di utilizzare un io-personaggio che fosse sempre più distante da un io-me. In tempi più recenti ho tentato di allargare il numero della prima persona e ho sperimentato il noi. Si tratta per adesso di un noi-duale, se vogliamo ancora più “confessionale” dell’io. Non mi illudo che sia una soluzione, anzi: la pluralità è sempre problematica anche se necessaria.
GH: all’inizio dell’esperienza GAMMM traducevamo la questione che sollevi attraverso l’opposizione installazione/performance e ci sembrava che le poetiche e le scritture “garantite” dal corpo/vita dell’autore (da noi riportate alla metafora della performance) non riuscissero a cogliere pienamente alcune dimensioni della nostra esperienza e della nostra nuova antropologia, tra cui la relazione, sottolineata anche da Guido, con la merce e i suoi ordini e accumulazioni almeno intenzionalmente infiniti. Il mio rifiuto (in sede di dibattito, ovvio, perché i testi non li puoi rifiutare su basi unilaterali come queste) non era verso la matrice soggettiva della scrittura, tanto più dovendo poi brigare con una mia peculiare vocazione all’infraordinario e all’esperienza del mondo, ma verso la petizione di principio per cui l’io, il soggetto, la relazione con il dato esistenziale fossero un qualche tipo di fondamento sufficiente per aprire e definire il campo della letteratura, quasi che testimoniare il mondo e le proprie relazioni con esso esaurissero la vicenda della scrittura letteraria (e dell’esperienza dell’essere al mondo, per altro). In qualche modo, era una specifica volontà di dire, di rivelare, di raccontare, che mettevamo in questione, laddove ci sembrava più ricca in termini di soluzioni retoriche, oltre che come esperienza estetica, una scrittura che bypassasse quello che si vuole dire e si concentrasse su quello che negli effetti si dice, meglio se al di là delle intenzioni.
Allo stato dell’arte, però, mi sembra che la vera opposizione sia tra umano/disumano. So che qualcuno potrebbe preferire post-umano ma è la disumanità, ciò che non è umano, che non può essere ridotto all’umano e che è fuori dalla misura dell’umano, che mi sembra il tratto di cui in modo più lancinante il XX secolo ci ha fatto fare esperienza (da Auschwitz al mercato globale, dalle atomiche a internet, dalle esplorazioni spaziali all’industrializzazione massiva e ai suoi effetti di scala) e che, in questo secolo, cercheremo (dovremo cercare) di portare a qualche tipo di compimento e di rielaborazione positivi. Da questo punto di vista, qualunque tipo di scrittura che non sia strutturalmente in grado di mettere in scacco la capacità umana di generare senso, organicità, narrazione (e che quindi non smonti sistematicamente dispositivi come la trama, il punto di vista, l’autore, eventualmente anche la forma romanzo, la forma poesia, la forma libro) mi sembra, più che non sufficiente, già compiuta, a prescindere dalle strumentazioni retoriche o da costrizioni e trucchi del mestiere vari usati per generarla.
Questo non vuol dire che di colpo ci tocca rinunciare al tema “uomo” o che la letteratura si deve ridurre alla pratica meccanica di tecniche de-soggettivanti come il cut-up, il googlism o altro (i cui risultati, comunque, continuo a considerare, da un punto di vista anche solo di mero godimento, molto più interessanti che non l’estenuante ripetizione coatta della formula: sono in vita, ve ne parlo). Semmai vuol dire che dovremo essere in grado di far fare all’uomo l’esperienza di ciò che non è, di ciò che lo sovrasta o eventualmente lo schiaccia e lo mortifica. In questo senso, mi riesce difficile anche leggere opposizioni come lirico/sperimentale, tenendo conto, per esempio, che un autore essenzialmente e profondamente lirico come Andrea Raos ha scritto alcune delle cose più “disumane” degli ultimi anni, facendo proprio, in modo programmatico, un percorso di lirica non basata sul punto di vista umano (una contraddizione in termini, in base alla definizione tradizionale di poesia lirica) e che, per dire, c’è tutto un genere di letteratura “di consumo”, cioè la fantascienza, che è impegnata in questa esplorazione del disumano, pur con le narrazioni e le retoriche più prevedibili e consolidate.
Immagine: Bruce Nauman – Sex and Death
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