Massimalismo, grande opera, autore onnisciente

di Simone Burratti, Marco Villa, Andrea Lombardi

 

*

Parlare di massimalismo in poesia significherebbe innanzitutto spararla grossa. In seconda battuta, implicherebbe una totale ridefinizione del concetto di massimalismo o, peggio, un cavilloso adattamento delle categorie della poesia a quelle del romanzo. Non ho intenzione di fare nessuna delle tre cose. Vorrei invece che la parola massimalismo attraversasse la mente del lettore come un pensiero distratto e subito dimenticato, un piccolo déjà-vu di propositi ambiziosi, una mappa mentale entro cui muoversi seguendo una filigrana sotterranea; allo stesso tempo, vorrei che suggerisse uno spostamento di direzione consistente nei confronti tanto della scrittura poetica tradizionale quanto delle poetiche minimaliste o di avanguardia.

Se è vero, almeno a parere del sottoscritto, che alcuni dei migliori libri italiani degli ultimi anni hanno coordinate e elementi ascrivibili al minimalismo, è altrettanto vero che la costruzione di lavori programmaticamente “laterali” e fuori campo, l’uso di patterns riproducibili ad libitum, l’insistenza militante sul concetto di cambio di paradigma con conseguente “muro di berlino” tra cose vecchie e nuove, finiscono con l’appiattire la poesia di ricerca su un ricettacolo abbastanza ristretto di scrittura à la page, nei casi peggiori a sperimentazioni autoreferenziali e spesso epigoniche. La mancanza di una risposta di poetica forte da parte dell’area tradizionale – dove, anzi, si registra sempre con più frequenza una sorta di minimalismo “di destra”, fatto di scuolette, stili preconfezionati, tematiche feriali – contribuisce a sua volta a rendere la ricerca poetica una strada a senso unico.

Proporre un’idea di massimalismo vorrebbe dire pensare alla poesia come a una testualità viva (no, fortunatamente la poesia non ha vitalità e attualità solo grazie a poetry slamperformance, non ancora), onnivora e rizomatica, a una scrittura che, lungi dal presentarsi come retroguardia, non rinunci però a una postura tragica e forte, a una diversa revisione dei moduli tradizionali, a una sperimentazione affrancata dall’oggettivismo imperante; il tutto all’interno di uno spazio letterario percepito come multiforme, fatto non tanto di opposizioni novecentesche ma soprattutto di integrazioni e interrelazioni, anche nella poetica del singolo autore.

Caratteristiche e prese di posizione di una scrittura di questo tipo sarebbero: 1) disorganicità stilistica, e lavoro più concentrato sul singolo testo (testo-unicum, testo-idea, testo-MacGuffin) piuttosto che su progetti seriali – senza per questo rinunciare a un’opera strutturale; 2) sporadicità o assenza di filtri vari (ironia, sentimentalismo, manierismo oggettivista); 3) svalutazione del meccanismo epifanico; 4) diffrazione sorvegliata del punto di vista, con autore onnisciente o indifferente ( cosa di cui ho già parlato qui); 5) aspirazione alla “grande opera”, intesa come recipiente a prova di proiettile della modernità liquida e dello Zeitgeist, ma anche come opera complessiva che si scrive nel tempo, tassello per tassello.

Tutti i punti sono volutamente problematici e rarefatti – come del resto piace a noi –, ma spero che la direzione complessiva risulti tangibile. Il resto del lavoro, dalla messa in atto alla sua confutazione, è (quasi) tutto in progress:

[S.B.]

*

*

Non c’era per lui una “prima volta” che non chiedesse, per essere compresa, una seconda

(Fortini, in morte di Sereni)

Se non possiamo rinunciare al progressivo farsi di una grande opera (quali che siano i caratteri di un’entità simile oggi), se l’istanza di controllo continuo e strategico ci è irrinunciabile, allora non potremo più fare a meno del tempo.

Tempo – per liberarsi subito da possibili equivoci – preso anzitutto nella sua accezione più comune, nuda e cruda, di durata, vale a dire di movimento certo non lineare ma salutarmente implacabile. Di questa durata abbiamo bisogno per svolgere un’opera che sia 1) critica intelligente rivolta contro la serie coloratissima e ultra-veloce delle accensioni a cui oggi tende a volersi ridurre la vita (in senso enfatico e non), e 2) che sia, risibile quanto si vuole, contrattacco.

Già Fortini metteva in guardia contro il bombardamento delle illuminazioni e degli istanti di pienezza, raccomandando un paziente lavoro razionale su svelamenti troppo comodi per non essere sospetti. Adesso siamo più convinti (e forse meno a malincuore) che nulla di decisivo accade nell’attimo, dove per decisivo si intenda in primo luogo bastevole, fosse anche a se stesso.

Affermazione che ci aiuta a comprendere e formulare meglio Badiou: la verità – sia essa estetica, etica, sentimentale, politica ecc. – non accade, l’intensità dello svelamento immediato non le è sufficiente. L’evento accade, carico di potenzialità illimitate ma insieme prigioniero dell’illimitata casualità che lo ha fatto nascere. Così l’attimo, lontano dal porsi come tutto irradiante, non è che l’inizio. L’inizio del lavoro su quell’insorgenza casuale, la messa in opera che trasformi un accidente in un fatto necessario, in modo che quell’evento si costituisca – alla fine – come una verità.

A questo punto sarà anche chiaro che la durata da noi accolta non ha niente a che vedere con quella servile dell’epifania, apparecchiata macchinalmente in vista di quell’istante di pienezza (o di piena vuotezza) che ne è fine esclusivo e giustificazione in sé bastevole. Ora questo istante non è più fine e da solo non basta più a niente, rammentando così a chi cerca una salvezza precipitosa la necessità opposta del differimento. Parafrasando Franco Moretti: «nessun istante è di per sé refrattario al senso, ma nessun istante può racchiudere tutto il senso»: senso che va quindi estratto/conferito ogni volta, in vista di una costruzione progressiva (e poco importa se tale progressione sarà piena di discontinuità, salti, negazioni).

Tutto deve essere essenziale, nulla è decisivo. Naturalmente, l’importanza dell’attimo successivo non sarà mai alibi per l’attimo presente (cosa che aprirebbe gli infiniti spiragli della cautela, a sua volta alibi della strategia), ma coscienza che il massimo sforzo nell’adesso dovrà essere replicato nell’attimo dopo, e in quello dopo ancora.

Non possiamo impegnarci per niente che non debba essere ridetto, e sempre con memoria, almeno una volta di più.

[M.V.]

*

*

Una verticalità che volontariamente trascura e ignora, fugge dal tempo e dal mondo risolvendo nell’attimo e nel pensiero il senso; un’orizzontalità che afferma di comprendere, di afferrare il tutto, ma nella dilatazione azzera ogni prospettiva umana e vitale: forme ideologiche – la prima in quanto aprioristicamente anti-ideologica, la seconda tale da arrivare al manierismo – di una stessa resa, prodotti di un’identica postura connivente, presuntuosa nell’accettazione della sconfitta. Modalità standardizzate entro cui troppa poesia contemporanea – qui non conta se in versi o in prosa – a noi sembra stia riducendosi. Pur non mancando eccezioni, scritture vere nell’una e nell’altra direzione, noi sentiamo di dover rivendicare una misura diversa del gesto poetico, una direzione che è oltre la tassonomia e la schematizzazione e che affonda le radici nell’esigenza di una nuova postura. Diciamolo chiaramente, pur con la doverosa cautela che ogni procedimento euristico implica: una postura narratoriale. Di fronte alla necessità di superare quello che a tutti gli effetti ci appare un delirio di impotenza sfoggiato con orgoglio, rivendichiamo la vitalità del gesto poetico, il tempo come durata e il mondo come soggetto oggettivante. Rivendichiamo la compresenza, necessaria visti tali presupposti, di orizzontalità e verticalità: una trasversalità anti-epifanica, che eviti la passività dell’accettazione ma anche l’ingombrate filtro dell’io posturale, una volontà di dire non ciò che è ma ciò che si sa. Per far questo crediamo sia possibile assumere un’impostazione posturale che tenda alla narrazione, all’onniscienza e allo stesso tempo all’autofiction. Categorie del romanzo, certo, e apparentemente incompatibili, ma che in poesia possono convivere proprio nella compresenza di orizzontalità e verticalità.

Onniscienza e autofiction compongono una sorta di asse cartesiano. L’autofiction è l’asse delle ascisse, serve a dare la dimensione orizzontale: pone l’esperienza dell’autore-personaggio all’interno del contesto umano in cui egli si trova ad esistere e ad esistere come ogni altro essere umano. L’autofiction dà la dimensione dell’identico ed è questa a consentire il sorgere dell’altra, quella verticale. Questa è data dall’onniscienza, l’asse delle ordinate: la dimensione dell’identico consente all’autore-personaggio, grazie a un procedimento di astrazione, di assumere uno sguardo esterno, che in un certo senso parte dal basso – dalla dimensione orizzontale – e raggiunge l’alto e da quell’alto si ridirige verso il basso, magari anche per uno scarto temporale rispetto all’esperienza vissuta (vera o finta o verosimile che sia, questo spetta all’autofiction). Ed è qui che risiede la natura verticale del testo, nell’onniscienza stessa, nel fatto che l’autore sappia in quanto personaggio, ed è da questo sapere che scaturisce l’alto, il tragico, il verticale, mentre l’orizzontalità sta nell’identico, nel farsi (nel comprendersi come) personaggio la cui esistenza ha lo stesso valore delle altre. Da tutto ciò scaturisce un io diversamente posizionato, totalmente esterno (regista dell’azione, supervisore formale) e insieme totalmente interno (personaggio, modello esemplificato, ma anche soggetto interscambiabile tra l’io e il tu, poco connotato e quindi sovrapponibile): una postura dell’io che non prevede né l’io in quanto io né il me in quanto me, bensì l’io in quanto me.

[A.L.]

Submit a comment

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...