Una guerra che non deve finire. Fenomenologia dell’io nella poesia di Paolo Maccari /2

Harald Wolff, Ohne Titel (2010)

di Marco Villa

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Fuoco amico: il tradimento delle vittime

I

Congedandoci da Ospiti, avevamo lasciato un io poetico irrimediabilmente sconfitto di fronte all’«evidenza del male e del dolore», un io che, rispetto alla posizione di partenza annunciata nel sonetto incipitario, non era riuscito a compiere il minimo progresso – oppure, se spostamento c’era stato, in altro non consisteva che in un approfondimento nella conoscenza del male stesso.
Non stupisce allora di ritrovare una sua controfigura, all’inizio di Fuoco amico (Passigli 2009), in una situazione pressoché identica. Situazione di prigionia, innanzitutto, ma questa volta priva dell’ambiguità propulsiva che la similitudine del cavallo di Troia veicolava in Nel ventre. La prima sezione dell’opera, “L’ultima voce”, consiste invece in una suite di diciotto sonetti dove a parlare è un individuo rinchiuso in una vera e propria cella. È un «giovane, quasi un ragazzo» – come si viene a sapere dal rapporto in prosa redatto dai suoi aguzzini con cui Maccari apre il libro – che ha partecipato a un qualche tipo di attività sovversiva con un gruppo di compagni. Benché tentativi di individuazione storica sorgano spontanei, la voluta indeterminatezza delle coordinate chiarisce che l’attenzione è rivolta all’aspetto più generalmente ontologico/esistenziale, in una dialettica che richiama, come notato da più parti, l’esempio del Sogno del prigioniero montaliano.
Ciò da cui vorrei partire, in ogni caso, è un confronto diretto con Nel ventre, poiché nelle analogie e nelle differenze tra quel sonetto e questa serie è possibile isolare molto se non tutto della poetica del nuovo libro.
Innanzitutto, la prosa che precede la serie di sonetti, e prima ancora il titolo stesso della raccolta, riattivano immediatamente l’area metaforica bellica che costituiva uno dei leitmotiv di Ospiti. E tuttavia, la cella in cui il soggetto è rinchiuso, più che al “ventre” del cavallo di legno, assomiglia parecchio all’ospizio-incubo della sezione conclusiva: anche qui, infatti, domina un senso di battaglia passata, di sguardo che si apre su uno scenario già postumo. Di nuovo un io imprigionato, quindi, senza però prospettive di azione e senza una gloria da declinare al passato. Lo sconforto di Ospiti si è radicalizzato: non solo le conclusioni del libro precedente non vengono minimamente rinnegate, ma questo soggetto che forse verrà ucciso o forse impazzirà, che pensa alla pace solo come un annullamento della memoria (altra analogia con Ospiti) e che sembra non avere nulla da opporre alla propria condizione deleteria, mostra fin da subito un livello di rassegnazione che il libro d’esordio raramente aveva raggiunto. Nessuna speranza di uscire dal “ventre”, qui: il «quando mi arrenderò» dell’ultimo sonetto punta dritto alla capitolazione, nemmeno convocata come ipotesi probabile ma data per certa.
C’è però un’altra differenza fondamentale con Nel ventre. Là, l’io paragonato a un soldato greco smanioso di combattere insieme ai suoi compagni era in realtà completamente solo; qui invece, a partire dal sonetto 5, il ragazzo superstite ingaggia un confronto con gli «amici», i suoi compagni morti che ora visitano la sua mente prossima all’alienazione. Dal memorabile incipit «Amici il tradimento è una gran cosa» inizia a svolgersi un confronto con un “voi” assente, fatto di ritrattazioni, (auto)accuse, rimpianti che l’io può far rimbalzare fra sé e i compagni defunti perché ora, solamente ora che la scelta ideologica è ridotta a slogan ecolalici (cfr. sonetto 13), è possibile una vera comunanza, un vero “noi”:

[…] Mi affratella
a voi ben altro, oggi: non la prontezza
delle nostre azioni, o la spietatezza

nei nostri cuori, ma la vostra morte

(Eravamo pronti?)

Da questa comunione realizzata su un piano illusorio discende l’ambiguità manipolatoria con cui il soggetto convoca i propri morti e ne gestisce la presenza: «vi celebro e vi disfaccio», la «mia mano che vi addita e vi abbandona», fino al solo esito possibile di un arreso annullamento nella dimenticanza, la quale, considerata la confusione tra io e voi, è dimenticanza tanto del sé quanto dell’altro-da-sé (cfr. sonetto 18).
Si tratta indubbiamente della novità più importante di Fuoco amico rispetto alla raccolta d’esordio: se il tema principale è lo stesso – il male di vivere –, il soggetto preso come termine di verifica del male ha qui dei deuteragonisti, gli «amici» che il titolo dell’opera colloca subito nella dimensione del conflitto e del tradimento. Anche in Ospiti, è vero, campeggiavano gli anziani della seconda sezione, ma si è visto come essi funzionassero soprattutto da specchi per l’io poetico, exempla dislocati della sua sofferenza. Gli “altri” di Fuoco amico sono invece irriducibili al soggetto, e proprio la loro alterità apre un nuovo, drammatico campo di confronto intorno al male. Se i primi circondavano il soggetto dopo una guerra mai combattuta, i secondi sono coinvolti insieme a lui nel pieno della battaglia.

II

Uno sprofondamento nello sconforto, tale da paralizzare ogni volontà del soggetto, e la sua verifica nella dimensione relazionale del rapporto con gli altri amici/nemici. Queste le due linee principali lungo cui si snoda la raccolta e che la suite incipitaria segna e contiene.

La prima si stabilisce già nella sezione “Interni”, il cui titolo è sintomatico di un’introversione senza sbocchi e di una battaglia che macera nello spazio intimo del soggetto1. La cifra dominante di questo gruppo di poesie sta nell’atonia, in un’inerzia rattrappita2. Così il mattino è il tempo di una giovinezza apatica che nemmeno riconosce se stessa, presa com’è in una pallida ripetizione che disinnesca qualsiasi implicita spinta alla rinascita (Dal mattino); e del resto la rinascita viene specificata nella lirica omonima come riduzione di vitalità da conseguire («non devo fare quel che posso, // è troppo. Si soffre.») o, nella sezione successiva, come crudele depotenziamento tattico (Falene). La somatizzazione di una sofferenza morale (Premure) ricorda certe figurazioni di Ospiti; inoltre anche qui è possibile trovare allegorie del male di vivere (Di primavera, la citata Falene), così come pause idilliche talmente stereotipate e senza effettive conseguenze da rendere l’impressione di falsetto una piena certezza (Tempo di rose)3. L’impossibilità concreta di una riconciliazione e la paralisi dell’io poetico sono esplicitamente tematizzate in Un ritorno. Chi parla si rivolge ai propri cari (presenze pacificatrici e aproblematiche come mai altrove nella raccolta, il che basta a generare più di un sospetto) immaginando un ritorno e un riconoscimento doppiamente svalutati dall’astrattezza regressiva del loro verificarsi («ci vedremo al di là degli anni… / aspettatemi fuori dal mio male […] mia madre riconoscerà suo figlio […] Tornerò d’autunno. / Sarò bello e m’amerete») e dal paradosso di una partenza che, l’io lo sa bene, non si verificherà mai.
Tutte queste direttrici trovano un manifesto esemplare nella lirica Stagnando, vera e propria dichiarazione di impotenza e accidia, che solo il testo conclusivo della sezione, Esercizi di liberazione, pare contraddire in maniera netta. Questa poesia esplicita una volontà di assalto al male che non può non ricordare certi agonismi disperati di Ospiti, e tuttavia l’affermazione non è priva di ambiguità, al punto che Marchesini la interpreta nel quadro dell’«ironia atroce di chi, nel fondo dell’angoscia, stacca da sé e si pone davanti un rimedio fasullo»4. Non so se il rovesciamento ironico esaurisca per intero la portata semantica del testo, certo è che la cantabilità della prima parte si addice poco allo scatto per un’impresa totalizzante («Darsi tutto all’esercizio»…) e anche le ultime strofe non si lasciano ricondurre ad un volontarismo integrale. È importante notare, piuttosto, che in Fuoco amico viene generalmente meno l’energia espressionistica della raccolta precedente, a partire da quella nervosa sintassi lunga a cui la tonicità aggressiva del libro doveva tantissimo. Non sarà allora un caso che le sole due poesie della plaquette Mondanità a non venire ammesse in Fuoco amico (Una piena e Non la felicità) siano esemplari rispettivamente del rabbioso espressionismo e delle pause benefiche veicolate dal tu femminile che più facilmente si potevano trovare in Ospiti. L’allentamento di tensione è ben percepibile anche nella poesia in esame, determinandone l’incapacità di sostenere quei propositi di reazione che pure dichiara apertamente: il negativo non è riscattato, e l’esercizio dell’impresa proietta l’io nella guerra di tutti contro tutti della sezione successiva.

III

Negli esterni di “Le prede migliori” il fuoco amico del titolo assume più nettamente un volto. Sono i “cari” dell’io lirico, che nel campo dell’angoscia scoprono il loro tradimento attraverso la ricerca di codarde e illusorie fughe dal male oppure colpendo direttamente i propri compagni di sventura. È evidente l’affinità di questo Maccari con l’ultimo Leopardi, sia per l’ideologia che per la postura di chi parla: così testi come La cosa buffa, Preparativi cristiani e New Age smascherano la viltà di chi furbescamente rifiuta la tragedia; e così tra l’io e gli altri può esserci soltanto una piena incomprensione non priva di disprezzo (Fuori città, Fratello e sorella) oppure guerra aperta, come nell’esemplare Dialoghetto crudele, in cui il «voglio soltanto licenza di tradire» dichiarato dalla voce femminile può essere visto come l’azione-simbolo del libro, quella che ne mette in moto i nuclei tematici.
L’armonia con gli altri-da-sé può essere relegata in un’utopia risibile, oppure ricavata da un passato manipolato nel ricordo5. Passato irreale e futuro irrealizzabile: “ai nostri giorni”, invece, gli altri sono presenti in modo drammatico, sono «sconosciuti amici avversari tutti» in un «tempo della pace senza pace» dove impera la legge del più forte e chi non è immediatamente reattivo alla caccia fa già parte delle «prede migliori»:

Sono le prede migliori
degli sguinzagliati:
anime imbambolate
e pronte, languidamente grate
della cattura

(Le prede migliori)6

Finora l’io poetico è apparso tanto inerte nella propria angoscia quanto particolarmente remissivo di fronte allo scatenarsi del «frastuono bellicoso delle armi». Eppure, la furia di questo soggetto così poco acquiescente di natura non si sopisce e anzi trova un indirizzo ben preciso. Se in Ospiti il dolore senza «casa» e senza «centro» sfociava in una violenza generalizzata ma vaga, ora che un nemico in carne e ossa è stato individuato tra le proprie fila l’aggressività ha un obiettivo: la furia si fa coerentemente invettiva. Modalità espressiva che poteva vantare un germe anche nella prima raccolta (Talponi-santoni), in Fuoco amico l’invettiva sarcastica o brutalmente diretta acquista un peso enorme, a partire dagli esempi già citati La cosa buffa o New age per poi esplodere nella sezione “Le navi, il mare”.
Si tratta della sezione maggiormente connotata in senso etico. L’io si rivolge direttamente agli altri-amici per un’accusa senza risparmio o per un energico invito all’azione (con i due momenti che spesso si sovrappongono)7. Che ferisca l’io o che si rintani in illusioni falsamente consolatorie, o ancora che confonda le distinzioni rinfacciandogli «di non credersi migliore», il tu del libro è prima di tutto un traditore. Se titoli come A un presuntuoso o Catulliana dicono già tutto della disposizione di chi parla, in Missiva e Lettera a un amico sui tempi presenti il tu è colpito nella sua ignavia e spronato a raggiungere l’io nel tutti contro tutti della caccia:

Che pena vederti affogare
dentro l’oro raggranellato
purissimo di un’aristocrazia
venata di rinunce soddisfatte
orgogliosa delle piccole sconfitte
cui il decoro persuasa la costringe.

Sapessi quanto è duro non averti al fianco
tu fresco ironico beffardo
e io affannato, in mezzo al branco […]

(Lettera a un amico…)

Il momento esortativo trova il massimo compimento in Orazione, più che incitamento una vera preghiera che tenta di inglobare l’alterità in un “noi” capace finalmente di muoversi dall’accidia inginocchiata in «un azzardo che nessuno nega che sia un azzardo» ma che è anche «un punto», pur vago obiettivo all’interno di un’opaca stagnazione. Non che ci si possa fare troppe illusioni sulla positività di un tale invito; come per Esercizi di liberazione le ambiguità permangono, così da rendere possibili letture anche antitetiche. Se Gouchan interpreta il testo come «la marche espérée vers un répit de la douleur»8 contrapposta alla stagnazione, per Marchesini esso è il perfetto esempio del «recto e del verso della falsa coscienza – la retorica che sprona a un’attività senza motivi e la sirena dell’indolenza che impania»9. Penso che entrambi punti di vista siano ammissibili e anzi richiesti: la loro voluta compresenza basta a sfibrare qualsiasi proposito energico, e Orazione non segna alcun punto di svolta. Il «Marciamo verso.» ripetuto nell’ultima strofa è sia la reticenza rigorosa di chi sa di non poter indicare un luogo definito di salvezza quando questo manca (pena la retorica), sia il vuoto che, relegando il senso della salvezza a quel marciare che non dovrebbe costituirne che il mezzo, la priva fatalmente di incisività. Ma l’elemento che più di tutti desta sospetti mi sembra proprio la prima persona plurale. Se lo slittamento dall’io al noi è teoricamente possibile nel sistema poetico di Maccari data la sostanziale comunanza umana nel male di vivere (cfr. quanto detto a proposito di Ospiti), è d’altra parte vero che in Fuoco amico gli «sconosciuti amici avversari tutti» non possono essere assimilati al soggetto se non al prezzo di una riconciliazione in malafede (cfr. la più esplicita Un ritorno) e non a caso nel finale della lirica la prima plurale cede il posto alla supplica al voi, segno di una frattura già intervenuta. Del resto anche Gouchan ammette che la tregua io-voi «ne peut bien sûr aboutir qu’au recommencement de l’agression, dans une condition absurde de Sisyphe moderne»10.
Se fallisce ogni cooperazione fra l’io e il tu, e se anzi le vittime del male di vivere tradiscono stoltamente come il soldato della Ginestra leopardiana che «gl’inimici obbliando / acerbe gare imprende con gli amici», alla fine a trionfare non può che essere di nuovo il nulla, che nella poesia conclusiva della sezione (Richiamo)11 inghiotte io e tu. Già il ragazzo di “L’ultima voce” trovava nella morte l’unico affratellamento coi propri compagni; ora solo il niente può funzionare da grande equalizzatore, che azzerando sé e altro-da-sé ne ricompone finalmente la scissione rendendoli omologhi («coinquilini») e allo stesso tempo «sconosciuti» nella vittoria di un male senza più sfumature.

IV

Da Ospiti a Fuoco amico, l’indebolimento del principio di resistenza allo sconforto si accompagna ad un acutizzarsi dello sguardo su di esso, ora non più astratto o generalmente biologico ma calato nella rete dei rapporti “mondani”. La nuova messa a fuoco permette di identificare nell’alleato che ferisce a tradimento una delle fonti principali del male: la presa di coscienza esplode così in invettive tanto più commoventi quanto più consapevoli del proprio anacronismo e della propria futilità, per poi puntare, in tutta coerenza, sull’amarezza rassegnata del finale nichilistico.
Quello di Fuoco amico è un io che si confronta con l’alterità tenendo sempre sullo sfondo, per così dire in absentia, il desiderio di un ricongiungimento. Ma nella guerra contro il male di vivere anche il fronte umano si è spaccato e l’io che non può più dire “noi” nella sofferenza, può al massimo dire “noi” nell’utopia, mentre dall’altra parte è il tu/voi che cerca di coinvolgere il soggetto in quell’«opacizzazione della colpa» che fa della viltà uno stato comune12. La connivenza stagnante e non l’alleanza reattiva, quindi, oppure il soccombere sotto il fuoco amico; di fonte a una conclusione del genere, il rigore di Maccari non poteva lasciare aperta nessuna via per la speranza:

[…] non sono ammessi plagi

di altrui spensieratezze. Sono resse
di nemici le celle del domani.
Linee esigue sul palmo delle mani.

(Al desiderio)

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1 Cfr. la programmatica Emicrania, presa da Lenzini come esempio di una guerra interiore: «è l’io il teatro della guerra, è lo spazio mentale ad essere lacerato» (http://win.ospiteingrato.org/Recensioni/Maccari.html).

2 Ancora una volta Marchesini centra con “ristagno” la parola-chiave, se non di tutto, almeno di una parte consistente del libro, con annessi i corollari etico-esistenziali di «fiacchezza, accidia, opacizzazione della colpa» (Matteo Marchesini, Poesia senza gergo, cit., p. 110).

3 Scaffai mette giustamente in relazione l’irrealizzabilità dell’idillio con la «rappresentazione volutamente stilizzata» che lo caratterizza, cfr. Niccolò Scaffai, Paolo Maccari – “Fuoco amico”, in “Allegoria”, anno XXII, terza serie, n. 62, luglio/dicembre 2010, p. 169.

4 Matteo Marchesini, Poesia senza gergo, cit., p. 111.

5 Cfr. rispettivamente Un ritorno e Esercizi di liberazione, in cui il soggetto si rivolgeva a un tu quanto meno indifferente nei suoi confronti e aveva bisogno, per la sua impresa, di essere «drogato di pensieri amici» molto simili alle reminiscenze deliranti del ragazzo prigioniero dei primi sonetti.

6 Un confronto fra questi versi e l’ultima terzina di Gocce di sudore (in Ospiti: «in cui è facile a semplici passi / affondare diventare abbuffata / dell’orda felice, i nostri terrori»), col passaggio dagli astratti terrori alla dimensione più concreta degli sguinzagliati umani, è un buon modo per misurare l’evoluzione della poetica maccariana tra i due libri.

7Scaffai: «il punto di vista etico muove da qui, dall’indignazione per l’acquiescenza e la falsità. Il sale polemico diventa così risorsa per un investimento sui caratteri umani, ritratti e contrario attraverso il sarcasmo e l’invettiva», in Paolo Maccari – “Fuoco amico”, cit.

8 Yannick Gouchan, Paolo Maccari: une figuration poétique du combat intérieur, in “Italies, Revue d’études italiennes”, Université de Provence, n.13, Poètes italiens d’aujourd’hui, 2009.

9 Matteo Marchesini, Poesia senza gergo, cit., pp. 111-112.

10 Yannick Gouchan, Paolo Maccari: une figuration poétique du combat intérieur, in cit.

11 Poesia che di fatto chiude la parabola dell’io in Fuoco amico: resta infatti solo la sezione “Tradimenti” (titolo comunque emblematico), che raccoglie traduzioni/rifacimenti da Rmbaud, Claudel e Pound.

12 Così Maccari: «il tradimento è anche il mio. In generale, volevo parlare del tradimento di se stessi, dell’incapacità di funzionare e di aderire ad un’immagine dell’io che vorresti; per cui ti tradisci.». Cfr. http://quattrocentoquattro.com/2012/08/31/unindagine-sul-presente-20-poesia/#more-7537

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