Una recensione a “Una lunghissima rincorsa”

Tapies - MacBa

 

di Marco Villa

Quando ci si approccia a Una lunghissima rincorsa (Bel-Ami Edizioni, 2014), opera d’esordio di Jacopo Ramonda, è difficile eludere la questione del genere a cui riferirla. Del resto, la macro-struttura e le informazioni paratestuali (“Prose brevi” è il sottotitolo del libro, “cut-up” sono intitolati i testi) sembrano esse stesse un’esortazione a confrontarsi con il problema.

Qui tuttavia lo si lascerà da parte: perché il tema è ampiamente affrontato da Andrea Inglese nella prefazione, innanzitutto; e perché il dibattito sul confine prosa/poesia, ben sistematizzato nel numero 13 de “L’Ulisse”, mi pare precocemente invecchiato, nonostante (o forse proprio come dimostrano) le discussioni stanche che il non andare “a capo” genera ancora, per esempio – a partire dalle stesse prose di Ramonda – qui. Ma soprattutto, eviterò la questione perché essa rischierebbe di offuscare altri caratteri del libro, altrettanto se non più rilevanti, lasciando l’impressione che un ennesimo contributo al metapoetico sia tutto ciò che Una lunghissima rincorsa voglia o sia in grado di offrire.

Perciò, senza ignorare la rilevanza che un’operazione come questa può avere nel quadro di ricerca della prosa in prosa (all’interno del quale, per inciso, Broggi e Bortolotti – forse più il secondo del primo – mi sembrano i modelli maggiormente presenti all’autore), ciò che mi interessa è segnalare alcuni elementi decisivi dell’opera che scartano o comunque prescindono da qualsiasi appartenenza di genere.

Il primo di questi elementi consiste, credo, nel grado di narratività delle prose in esame. Spunti narrativi si trovano, è vero, anche negli autori sopracitati; e tuttavia i testi di Ramonda si distinguono sia per una maggiore attenzione ai dettagli, tanto oggettuali quanto psichici, sia e soprattutto per un’organicità interna che la veste frammentaria del “cut-up” rischia di mettere in ombra. Al termine di ognuno di questi “scatti rubati” (come l’autore definisce le sue prose brevi), si avverte infatti un senso di compiutezza e di esaurimento che giustifica il solitario stagliarsi di quel minimo scampolo di vita. Compiutezza e organicità sono esaltate al massimo grado ne “L’elaborazione del lutto”, seconda sezione del libro e unica in cui Ramonda abbandona la monade del “cut-up” e struttura un racconto, essenziale eppure completo, della fine di una relazione.

Questa tensione narrativa, percepibile nella maggior parte dei testi del libro, rivela se non altro una gestione attiva del caos feriale in cui viviamo: lungi dall’ignorare o peggio rimuovere la disgregazione palese del contingente, Ramonda la accoglie per costruire piccole celle di resistenza formale, punti di organizzazione di un’esperienza altrimenti persa in uno sfacelo troppo noto.

Un altro elemento rilevante, riscontrabile più a livello stilistico, consiste nel particolare utilizzo della similitudine e della metafora. La scrittura di Ramonda costeggia il grado zero, ma non vi si adagia mai. Una sintassi lineare e senza spezzature, un lessico piano e inclusivo per quanto non privo di eleganze e, più di tutto, il programmatico rifiuto di ogni “intenzione ritmica” tradizionalmente intesa, potrebbero indurre a etichettare l’opera in termini di piattezza e pallido minimalismo.

Numerosi sono però gli scarti da questo orizzonte, il più evidente dei quali risiede, mi sembra, proprio nel ricorso diffuso a metafore e similitudini in grado di accendere i diversi riquadri di una luce più consapevole, e più profonda. Tenendosi lontani dal gratuito, questi traslati sono spesso portatori di una funzione conoscitiva che illumina i ritagli del quotidiano e non rinuncia a una loro   interpretazione.

Ecco un esempio, dal Cut-up n. 55:

La casa dei miei non è più cambiata, è rimasta la stessa di allora. Gli anni dei miei arresti domiciliari a cielo aperto, quando uscivo da solo o restavo chiuso in camera mia, come le foglie messe a seccare nelle pagine delle enciclopedie.(p. 73)

Oppure, da Convivenza (cut-up n. 143):

Da tempo tendevano a portare avanti le mansioni domestiche in completa autonomia, spesso sfruttandole come pretesto per troncare una conversazione: stati cuscinetto utili a contenere l’attrito, prevenendo così le tensioni. Qualcosa di simile alle iniezioni di cortisone con cui, in ospedale, avevano messo a tacere il suo dolore alla schiena, causato dall’assottigliamento dei dischi intervertebrali, deteriorati dall’usura. (p. 16)

O ancora, si veda la concentrata analogia di Millimetri (cut-up n. 129), dove, se l’universo di Ramonda non fosse così drammaticamente umano, verrebbe da richiamare Ponge, per le modalità  di indagine di questo sguardo.

L’impulso ordinatore del racconto e le accensioni stilistiche di cui sopra sono organici all’ultimo punto che volevo mettere in evidenza.

Una dominante disforica (quantitativa e probabilmente qualitativa) grava su queste prose. Gli anonimi personaggi che le popolano sono quasi sempre prede di uno scacco, arenati su punti morti dell’esistenza e incapaci non di tentare ma anche solo di desiderare una reazione. Così la “stasi” (p. 63), il riposo “da che cosa, non si sa” (p. 76), un’insensibilità confortevole diventano gli obiettivi più ambiziosi di questi sconfitti, e l’apatia risulta alla fine una condizione raccomandabile (cfr. Black out (cut-up n. 149) e Rampicante (cut-up n. 111)). I rapporti umani sono analizzati durante o dopo il loro disfacimento, tanto nella vita di coppia (L’elaborazione del lutto valga per tutte) quanto in quella familiare (cfr. Equilibristi (cut-up n. 138) o Cloe (cut-up n. 43)), mentre la conoscenza dell’altro pare finalizzata unicamente alla sua offesa: “M. e V. stanno litigando ferocemente, ancora una volta, sfruttando la conoscenza maniacale delle debolezze reciproche per ferirsi più profondamente” (p. 62). Infine, uno dei fili conduttori dell’opera può essere rintracciato in un’incomunicabilità generalizzata, che diviene tema esplicito in testi come Carichi sporgenti (cut-up n. 24) o Pendolari (cut-up n. 127), forse la prosa del libro che rivela più affinità con certi apologhi urbani di Umberto Fiori.

Eppure, una corrente alternativa, una sottilissima apertura sul dopo percorrono Una lunghissima rincorsa. Andrea Inglese parla di una mappatura della nostra prigionia che si accompagna ad una valutazione delle “nostre capacità di sfuggire ad essa” (p. 8): questa istanza propositiva, quasi del tutto assente a livello tematico, si regge proprio sui dispositivi formali che ho cercato di isolare ed è forse una delle ragioni per cui le avventure dimesse e trascurabili del libro non inibiscono l’empatia di chi legge. Tutto ciò situa Ramonda un passo oltre il mimetismo pigro della marginalità e dell’insignificanza, oltre insomma l’apparente minimalismo (ideologico e letterario) che una lettura superficiale potrebbe attribuire a questo tipo di ricerca.

La stessa energia che scaturisce dal titolo allora, benché subito smorzata dalla citazione in epigrafe (“una lunghissima rincorsa […] finalmente poi per poter morire”, dagli Afterhours), resta presente al lettore, come un proposito di riscatto dal torpore, uno sforzo etico, “l’ossatura trasparente di un progetto più ambizioso” (p. 15).

Qui un estratto del libro.

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