Umberto Fiori, Etica e poesia (prima parte)

enzo cucchi - bersaglio

Pubblichiamo la prima parte di un saggio di Umberto Fiori da La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano 2007, pp. 28-38. Ringraziamo l’autore per la concessione.

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Quello che mi spinge a ragionare intorno al nesso tra etica e poesia, come sto per fare, non è un interesse accademico. Del resto, non potrei vantare competenze specialistiche sull’argomento.
Io parlo piuttosto come chi – per la sua parte e fin dove gli era concesso – ha fatto esperienza del richiamo che i due termini del titolo si rimandano. Parlo, insomma, come un esperto. Forse una tale affermazione potrà suonare arrogante. Questo sarà un bene, se porterà davanti agli occhi e negli orecchi di tutti noi un’altra, più profonda e più oscura arroganza: quella che è già nella presenza di ciascuno, nella nostra presenza l’uno all’altro.
Vorrei che per ogni singola parola, e preliminarmente, mi si obiettasse: ma questo lo dici tu. Potrei solo rispondere di sì, e proseguiremmo. Il discorso sarebbe situato, avrebbe luogo, e quello di cui si deve parlare qui, lo avremmo già in vista.

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Farò come se un tale dialogo fosse già alle nostre spalle. Farò conto che siamo al mondo. Non esporrò una teoria; per quello che dirò, non invocherò fondamenti: proverò a pronunciare, a lasciare da parte e a riprendere due o tre termini, per sapere che cosa dicono. A questa prova metterò il senso delle parole, e di alcune in particolare. La spinta che mi muove a farlo nasce da una pratica della parola, e a quella pratica vuole tornare. D’altra parte nessuno, che io sappia, ne è mai uscito; e per quanto uno metta le mani avanti, come io ho fatto fin qui, è già sempre nel pieno dell’argomento, è già lì che parla.

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Parlare è difficile.
I discorsi scorrono, vanno sicuri, sul filo di un tono; arrivano senza sforzo, le parole, come dette da un altro qualche altra volta. Tu parli a qualcuno, e lui ti guarda con l’aria di chi al cinema si è voltato e ha in faccia la sala piena. Aspetta il suo turno. Quando hai finito si riscuote, prende fiato e ricomincia da dove era rimasto.
A volte, mentre la gente sta parlando, uno ha quasi paura di guardarla: paura di non vedere niente davvero. Allora guarda via, con gli stessi occhi che fanno due cani quando ai giardini restano attaccati l’uno all’altro, e prima cercano disperatamente di andarsene, poi ballano un po’ in giro insieme, ma non hanno modo di staccarsi, né di guardarsi in faccia, e finalmente si rassegnano e aspettano, fissi lontano, uno di qua, uno di là, incantati. Così ci si incontra, si resta a parlare insieme, con la testa voltata dall’altra parte. Tanto si vedono benissimo, anche senza guardarle, le persone: non ci sono, lì dove sono. Non lo stanno dicendo, quello che dicono.

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Dov’è, insomma, la gente? Da dove parla?
Quando due che discutono sono arrivati al cuore della questione, e uno alza gli occhi al cielo, scuote le braccia, l’altro si guarda intorno a mani giunte, come cercando aiuto, e uno dopo l’altro si gridano i fatti, le prove, cambiano tono, si chiamano per nome, – ma non c’è niente, nessuno che possa più dare ragione a nessuno – proprio allora, distanti come sono, rivedono il miracolo: la stanza è la stessa stanza, è uno solo il tavolo dove battono il pugno.
Per un attimo si sono visti lì, a pensare.

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Pensare fa paura. Fa paura sollevarsi dal mondo, lasciare il mondo – questo, che ci tiene – per averlo davanti. Quello che vediamo tocchiamo sentiamo è chiaro, ha un’aria familiare. Anche noi siamo familiari; qui abitiamo. Questa è la nostra abitudine. Non possiamo abbracciarla, però, non possiamo capire fino in fondo. Siamo lontani dalle cose vere che abbiamo intorno. Siamo in errore.
Eppure, a volte, uno lo vede bene il suo errore, lì, com’è fatto; lo sente come parla e come si muove, dentro, e la voce esatta che ha.

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Trovarla, questa voce, lasciarla parlare, è difficile.
La gente ha le sue opinioni. Di solito lascia correre, un po’ per quieto vivere, per non farsi dei nemici, un po’ perché come uno la pensa sono cose private, personali. E poi, non vuole fare la figura di tenere veramente a qualcosa. Ma basta un momento di luna storta e allora non molla, non vuole darla vinta a nessuno, vuole farsi valere. Così, comincia una discussione.

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Capita a volte, in mezzo al chiasso di queste discussioni, che uno, mentre interviene, si senta uscire di bocca un suono che è proprio il suo. In fondo alle idee, si accorge di avere una voce, di avere – come tutti – proprio questa voce, che sta pronunciando le frasi che lui pronuncia. E’ come se un cavallo si sentisse nitrire, o una capra belare. Ora il verso che fa, il suo discorso, gli dà un brivido di pudore. Si sente nudo come in un sogno, e confuso; ha quasi paura. Anche gli altri, intorno a lui, non sono tranquilli: capiscono che ormai si è sul punto di cantare; si stanno per dire le cose con gli occhi e con la bocca, da pari a pari.

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Suona subito una promessa, nelle frasi, quando uno canta. Bisogna dar retta, tendere bene le orecchie, aspettare, star pronti a meravigliarsi. E’ bello avere un canto da ascoltare. E’ molto raro, però. E poi, di ascoltare non tutti sono capaci; perché non basta stare zitti per un po’, aspettando il proprio turno, magari pensando ogni tanto a qualche obiezione: è indispensabile tacere, tacere profondamente. Il canto è l’opposto della conversazione: pretende tutto il silenzio. Deve prendere forma, deve nascere e crescere senza interruzioni, e compiersi. Insieme alla promessa, c’è come una prepotenza, nel canto. Chi canta è anche, anzi in primo luogo, uno che mette a tacere gli altri, e si raccoglie nella voce. Si raccoglie, e si chiude. Il suo fascino è quello di chi non può parlare con noi: i bambini piccoli, gli animali.
Chi canta non ci sente più. E’ sordo, e sa tutto. Si può cercare di interrompere il flusso del suo discorso, certo; ma è impossibile, altrimenti, interloquire con lui. Il canto non ha veri interlocutori. Forse proprio in questo consiste la differenza tra cantare e parlare.
D’altra parte, come si può replicare a qualcuno che canta? Che cosa gli si può obiettare? Un canto non è un’opinione. Non si tratta davvero più della tua ragione o del mio torto. Si tratta di sapere. Noi speriamo di sapere, un giorno: questa è la promessa. Ma per sapere, bisogna intanto saper sentire. Bisogna lasciar cantare. Quello che c’è da sapere, è nella voce di uno che canta.
Altri discorsi potranno risultare più stringenti; potranno esserci argomenti più rigorosi per convincere che una certa affermazione corrisponde a un effettivo stato di cose, ma non è questo che fa uno che canta. Chi canta si lascia sorprendere in piena verità, e lì ci sorprende.

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Così, il suono di uno solo può essere a volte più tremendo di quello di un coro sterminato. Non tutti sono in grado di accogliere un tale discorso, di sostenere il suo ascolto. Perché quando si canta non si sta più semplicemente discutendo se questa o quella cosa sia o non sia vera: si dicono delle parole vere.
Con questo non voglio affermare che nel canto le parole rispecchino più fedelmente un certo stato di cose, né che esprimano più profondamente i sentimenti sinceri di chi le pronuncia, ma solo – appunto – che sono parole vere, che vengono davvero pronunciate e che perciò vanno ascoltate davvero.
Ma in base a quali criteri potremo distinguere, tra le altre, queste parole? Come faremo, insomma, a capire che qualcuno sta cantando?

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Riconoscere un canto non è facile.
Quando un comune discorrere, un raccontare, un discutere, un ragionare diventa canto, non tutti se ne accorgono. Pochissimi poi, tra quelli che lo riconoscono, trovano il coraggio che occorre per dare spazio a un tale discorso, per metterlo al riparo, per farlo crescere. Per molti, infatti, il canto che sentono sarà non un dono ma una sfida, un grido di guerra; alcuni lo prenderanno come un insulto al buon gusto e alla ragionevolezza, e l’imbarazzo li assorderà; altri cercheranno di ridurre la sorpresa riportando tutto a qualche schema, altri ancora avranno timore di non essere all’altezza, di non saper rispondere, di sfigurare. Molto di rado un canto ha la fortuna di essere ascoltato per quello che è. Cantare comporta sempre un rischio. Sembra, anzi, che un canto si generi proprio quando il rischio viene in chiaro, quando comincia a voler dire.

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Questo rischio si presenta innanzitutto come fraintendimento. Il canto può essere frainteso. Al fraintendimento, ogni altro discorso cerca di rimediare con chiarimenti, definizioni, spiegazioni che a loro volta, se necessario, possono essere scomposte e ridefinite analiticamente, o chiarite attraverso ulteriori spiegazioni. Ma la catena delle definizioni e delle spiegazioni deve pur finire. Lì cominciano le parole, comincia il rischio. Cantare significa arrivare alle parole, provare a parlare, provare cos’è parlare.
I discorsi che incontriamo nel mondo si tengono per lo più al riparo da un tale rischio, e sempre – asserendo, informando, calcolando, opinando – rimandano o alludono a un chiarimento sempre possibile in altri termini, su altre basi, in un altro momento. Canto è invece il discorso che si espone e si affida intero a chi ascolta, e così intero va incontro al fraintendimento. E’ un rischio che non va inteso in senso negativo, come sintomo di un difetto o di un limite proprio di un certo modo di esprimersi, di comunicare, ma positivamente, come manifestazione esemplare della nostra condizione, nostra dico di noi, che ci troviamo a parlare. Chi canta mostra con l’esempio come si parla. Mostra quali parole premono, mostra –né più né meno- quel che va detto. 

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Questo comporta – com’è evidente – un rischio ulteriore, per certi aspetti ancora più temibile, e per molti insostenibile: quello dell’arbitrio. Il canto è infatti sempre sull’orlo di un gioco, del gioco che un solo giocatore conduce senza regole; sull’orlo del delirio, insomma, dell’idiozia. Chi canta si regge in bilico su quell’orlo, lo percorre e ne disegna i contorni. Passato il segno – nel delirio, nell’idiozia – non ci sarebbe più canto; il senso si perderebbe in un vocìo sgangherato, in una blaterazione senza ascolto. E dov’è, il segno? Dove chi canta lo ha tracciato. Ma come, e con quale diritto lo ha tracciato? Senza nessun diritto, cantando. Solo cantando ciascuno lo può tracciare, a proprio rischio. Cantare non significa dunque – come si sarebbe portati a credere – seguire il trasporto di un momento, liberarsi di ogni responsabilità. Al contrario: è un canto proprio quel parlare che si rende pienamente responsabile delle parole che pronuncia, quella voce che è pronta a rispondere di sé e del silenzio che impone, la voce che è questa risposta.

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