È appena uscita per i classici Bur-Rizzoli una nuova traduzione di Romeo e Giulietta, a cura di Carmen Gallo. Pubblichiamo un testo inedito di presentazione al volume.
Giulietta è l’unica tra i personaggi del dramma a esprimersi solo in versi. Quando Romeo le rivolge la parola per la prima volta, lo fa con una quartina a rima alternata. Lei risponde facendo lo stesso (che ti credi), e insieme compongono un sonetto shakespeariano, tà-tà. I santi non si muovono, ma si possono baciare, dice lei. E lui la bacia. È l’inizio di un dialogo che potrebbe non interrompersi mai (ma poi arrivano l’alba e l’allodola).
L’epitalamio nel terzo atto invece se lo canta tutto da sola, in attesa che Romeo arrivi per consumare il matrimonio. ‘Vieni, notte, vieni, Romeo, vieni, tu giorno nella notte, / che sulle ali del buio apparirai più bianco / della neve fresca sul dorso di un corvo’. E quando morirò, dice lei (ma perché pensarci adesso), che il suo corpo sia tagliato a pezzi fino a farne piccole stelle che illumineranno il cielo intero. Die in inglese è morire, ma anche venire (con un orgasmo). L’amore, o della disseminazione celeste.
Mentre in città infuriano risse così violente che sembra una guerra civile, Romeo si sottrae al conflitto, viene meno alle aspettative, si rinchiude in una ‘notte artificiale’. Anche Giulietta si smarca dal modello della donna ritrosa che le impone la tradizione. Addio convenevoli, dice, mi ami? Prima che dall’amore, i due sono uniti da questo stare in disparte, diversi dagli altri, irriconoscibili, irriconducibili alla norma sociale.
Tra un’oscenità e l’altra (nessun dramma di Shakespeare ne contiene tante), Mercuzio prende in giro gli epigoni di Petrarca che scrivono brutti versi, e tra questi Romeo, che all’inizio per la bella Rosalina (che non parla mai, non compare mai, è una figura anzi un nome) sfodera i più goffi ossimori e una retorica d’amore trita e ritrita quanto l’espressione ‘trita e ritrita’ in sé.
Per tutto il tempo Romeo è accusato di non essere abbastanza virile. L’amore o la posa dell’amore lo rendono debole, i compagni lo prendono in giro perché o piange o si nasconde. Mercuzio lo evoca come se fosse già morto. Mòstrati, Romeo, palésati, in nome della tua bella Rosalina, per i suoi occhi, per le sue labbra, per le sue cosce, e le altre cose lì intorno… non vieni? Dove sei? (Romeo si è già perso nel giardino di Giulietta).
Mercuzio concepisce l’amore solo come violenza, sopraffazione, degradazione. Quando canta le incursioni notturne della piccola Mab, regina delle fate e delle prostitute, descrive donne con le bocche ricoperte di piaghe perché a furia di mangiare troppidolcetti si sono prese qualche malattia venerea. Alle più pudiche, dice Mercuzio, Mab insegna invece come si regge bene un uomo che ti sta pesando addosso.
Ma l’onore non perdona, la società impone l’azione, reclama violenza. Romeo dovrà diventare un assassino per difendere il suo nome (cosa c’è in un nome, non è una mano o un piede, aveva detto Giulietta). Quando si getta a terra disperato per la condanna all’esilio, Frate Lorenzo lo descrive come un mostro, un uomo con l’animo di una donna, una bestia irragionevole. Sii uomo, Romeo; comportati da uomo, Romeo, insiste la Balia.
Nel teatro elisabettiano anche Giulietta era interpretata da un uomo, anzi da un ragazzino. Tre secoli dopo, una delle rappresentazioni più riuscite del dramma è quella di Charlotte Cushman nella parte di Romeo, mentre la sorella interpreta Giulietta. Nessuna provocazione in questa scelta di due donne (forse). Charlotte voleva, dichiarò, proteggere la sorella, di recente invischiata in uno scandalo, da illazioni su affair con i colleghi maschi.
“Se sei mia, ti darò al mio amico”, dice il padre a Giulietta, dopo averla insultata nei modi peggiori perché non vuole sposare Paride. E mentre lei prova ad argomentare le buone ragioni per rimandare il matrimonio – c’è la morte di Tebaldo suo cugino, un lutto in famiglia fermerebbe chiunque –, il padre taglia corto e la zittisce. Non sta bene per una ragazzina fare ragionamenti così complicati (ma nemmeno ammazzarsi con un pugnale).
N.d.T.
Come si traduce un dramma in versi che prende in giro la cattiva poesia, petrarchista e non, e i suoi stereotipi, di genere e non? Ha senso usare uno stile che oggi consideriamo o percepiamo come attardato, artificioso, aulico? (Sembra una domanda, ma non lo è).*
*[sì, il riferimento è alla mia traduzione di W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, Bur-Rizzoli, 2023. E sì, tutto il pezzo è ispirato a The Albertine Workout di Anne Carson].
L’immagine è di Orecchie d’asino