È stato ripubblicato da poco per le edizioni Diana il poemetto in tre sezioni di Mario Morasso Profezia, all’interno di un volume curato da Pier Luigi Ferro e con un suo ricco saggio a introdurre l’autore e l’opera.
Imprescindibile per comprendere il significato della plaquette e poterla fruire con godimento è disporre di qualche rudimento sul personaggio di Morasso coi suoi multiformi interessi e le sue idee pronte a cambiare. A sostegno di questa necessità, l’introduzione di Ferro consente di ripercorrere gli anni giovanili dello scrittore, quelli subito precedenti l’uscita, prima in rivista e poi in volume, della sua Profezia. Sintomaticamente la prefazione (che assurge in questo libro a disporre dello stesso peso dell’opera che commenta, acquisendo il ruolo di indispensabile bussola per il lettore) ha inizio con un lungo elenco di posizioni politiche e correnti culturali riferite a un soggetto il cui nome appare solo al termine della carrellata Il vortice costituito da una pluralità di elementi, talvolta stridenti se collocati vicini, vuole evidentemente essere il biglietto da visita con cui Mario Morasso viene presentato, l’emblema di un intellettuale che cambia indirizzo ma che, prima di tutto, vorrebbe ad ogni costo far propria una visione della realtà, tra le molte possibili e sperimentabili, che possa dirsi funzionante. Antesignano del futurismo ma incantato da una Venezia passatista, vicino all’irreligione di Guyau e all’«imperialismo spirituale» cattolico, però anche a sostegno del liberalismo moderno e scientifico di cui i riferimenti sono Pareto e Spencer, accostato poi ad un «dispotismo di classe» e all’anarchia individualista, e non per ultimo anche apprezzatore della cultura classica, dell’otium e dell’etica edonistica: che il lettore non rimanga frastornato dalla quantità e dalla qualità delle «simpatie» morassiane è improbabile; che questo possa essere funzionale a una lettura dell’opera più corretta e immersiva è però probabilissimo. Questo soprattutto perché il progressivo passaggio dalla tendenza al solidarismo positivista a quella all’egoismo etico (certamente tra i più incoerenti cambi di rotta possibili) segnala l’approdo dello scrittore all’ideologia che permea Profezia e ne è la base.
Dopo aver collaborato, poco più che ventenne, con la rivista genovese dalla vita breve «Liguria letteraria artistica» (diretta da Alessandro Sacheri), scrivendo pezzi di critica e teoria letteraria, teatro, arte, ma anche pubblicando i primi esperimenti poetici, e dopo aver scritto in giornali specialistici articoli di diritto, criminologia e filosofia scientifica preminentemente di matrice tardo positivistica, furono l’«Idea Liberale» di Guido Martinelli e la «Gazzetta di Venezia» di Ferruccio Macola a ospitare le teorie e l’estro del giovane autore. Durante l’esperienza con la prima testata, iniziata nel 1893, si registra un movimento di Morasso verso forme più estremiste di pensiero. L’indizio più lampante della presa di distanza dall’umanitarismo democratico in favore di un approccio individualistico (prima liberal-democratico, poi addirittura distopico) è l’uso per la prima volta del termine egoarchia. Durante l’esperienza con la seconda testata, iniziata nel 1895 e conclusa nel 1902, invece, i mutamenti di opinione sono diversi e dovuti principalmente al cambiamento del contesto politico del giornale, ora vicino alla destra più reazionaria: la fede (riabilitata dopo l’adesione all’irréligion di Guyau), Lombroso (prima «apostolo della modernità» poi colpevole di adesione al socialismo), addirittura il Vate D’Annunzio (troppo ozioso in Parlamento) sono argomenti oggetto di marcata ritrattazione.
Ma ad ospitare Profezia tra il 1899 ed il 1900, a puntate, fu la rivista «Iride», e l’eponima casa editrice pubblicò il poema morassiano in volume nel 1902. Il titolo restituisce con limpidezza la sostanza e la missione di questo testo, ed è compito del poeta in quanto figura privilegiata quello di avvertire il vaticinio e rivelarlo a un’umanità sorda; d’altronde, poco dopo l’uscita di Profezia, Morasso scriveva: «Il Poeta lungi dal mondo contempla il mondo nel suo sogno, il suo verso è come una rivelazione è come una profezia o è la più amplia di tutte le conquiste; ogni parola acquista una significazione ed una efficacia enorme, è il frutto di una elaborazione e di una distillazione difficilissima e prolungata». La profezia di cui Morasso si fa interprete e cantore, quella che «è nel Poema, è in tutto il Poema, è da tutto il Poema che essa emana» come affermato dall’autore stesso nell’Argomento che fa da introduzione all’opera, altro non è che la resa in poesia di una concezione filosofica, la già citata egoarchia: la dimensione individuale deve prevalere su quella sociale, l’uomo, nella sua vita collettiva, si esercita e si condanna alla rinuncia e in tale rinuncia soffre, mentre quello stesso uomo, ed è il poeta qui a rivelarglielo e a proporglielo, potrà giungere alla felicità solo ambendo al massimo godimento dell’io. La felicità si verificherà in particolar modo con la compartecipazione del «dominio» e del «piacere», per cui è chiaro che nella lotta individuale esisteranno signori e sottomessi, e questi ultimi avranno come unico scopo l’accrescimento del benessere del più forte. L’uomo sarà dunque «crudele per non essere afflitto, ma sarà buono perché sarà felice».
Il poemetto, contenente complessivamente una ventina di componimenti, è suddiviso in tre sezioni: Il chiostro dei venti che si attesta come una preventiva presa di coscienza dell’immensa sofferenza dell’essere umano nella società che crea e in cui è inserito (Le donne dell’inverno, vv. 13-18: «Mentre calmi / stanno gli astri a guardare immobilmente / dove salgono servi i nostri salmi, / i nostri amori e l’anima dolente / senza pace e speranza. Oh noi vivremo / in tempi molto amari!»); Il messia della morte che contiene invece l’annuncio del «fatale errore» che l’individuo compie, ossia quello di perseguire la gioia nel sacrificio e nel castigo (L’espiazione dell’inutile colpa, vv. 1-5: «Espiata ho la colpa? Io lo domando / con le lagrime agli occhi, inginocchiato / sulle spine, ove io stesso misi al bando // dagli uomini il mio corpo lacerato / per gli strazi»); Il Messia della vita che è infine la parte conclusiva dell’opera e del percorso dell’uomo, in cui finalmente egli spalanca le porte al proprio gaudio rompendo le catene delle costrizioni sociali che non lo rendevano libero, e può realizzare il desiderio dei desideri: «consacrarsi all’opera magnifica della felicità propria» (Il Messia della vita, vv. 1-8: «Ho infranto le catene! Io guardo al cielo. / La grande Piazza mi sta intorno muta, / scompare la Basilica in un velo / oscuro. Attendo qui la sconosciuta // dalla sottile man misteriosa / come il destino, dalle carni molli, / dalla sanguigna bocca furiosa. / E sarà sola. Io le avrò detto: Volli!»). Questo testo vale la pena di essere letto per almeno due ragioni. La prima è la scrittura di Morasso, abile nel creare immagini nitide e riflessioni sconfinate da una manciata di parole, e che un po’ tiene la tradizione e un po’ la lascia stare. La seconda è che questo testo possiede una qualità precipua dei bei testi letterari, ossia quella di dare l’occasione di riflettere su qualcosa che è intrinsecamente parte dell’essere umano, qualcosa che riguarda, oggi come ieri e domani, inevitabilmente tutti. Per dar prova, molto parzialmente, di quanto ora detto, ecco l’ultima strofa della poesia Le strade della terra: «Monotona nel bianco polverio / si distende la strada, e la riviera / asciutta s’apre come in un desio / d’acque. Guidano, io penso, alla Chimera / le strade della terra od all’oblio?».
Fotografia di Lorenzo Picarazzi
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