da ocidental praia: Quaderni di poesia portoghese – intervista di Michela Cevasco a elisa rossi traduttrice di Sophia de Mello Breyner Andresen

…da ocidental praia lusitana,
Por mares nunca dantes navegados

Luís Vaz de Camões, Os Lusíadas, vv. 2-3

Formavera inaugura una nuova rubrica dedicata alla poesia portoghese. 

Una poesia, o meglio un microcosmo poetico, che in parte coincide con i confini geografici portoghesi e in parte li travalica, “spiaggia occidentale” per eccellenza delle nostre topografie mentali, come già nei primi versi dei Lusiadi. Se è vero che oggi il Portogallo è meta sempre più ambita di peregrinazioni professionali e turistiche, è altrettanto vero che il suo patrimonio poetico, viceversa, fatica a transitare verso i nostri lidi letterari. Soprattutto, si sente la mancanza di uno spazio editoriale riservato al gioco dei versi, dove le voci possano interagire nel loro rapporto di convergenza e divergenza.
È per questo motivo che, dialogando il più possibile con le importanti iniziative già esistenti, San Marco dei Giustiniani ha ideato una collana dedicata alla poesia portoghese. La peculiarità della scelta editoriale è quella di orientarsi ad una pubblicazione integrale,  con testo a fronte, delle raccolte: si intende in questo modo evitare la dispersività della raccolta antologica, per mantenere l’interezza della struttura poematica, radicata nel suo contesto originario.
Sulle orme di questo progetto, i singoli volumi verranno qui presentati e valorizzati nella loro intenzione storica e formale, attraverso interviste, saggi, recensioni, testi editi e inediti. Sarà allo stesso tempo costante la riflessione sul lavoro di traduzione, in quanto «prezioso esercizio cognitivo ed etico» (Sontag, 2004)[1] e stimolante pratica collaborativa, in grado di ampliare l’interesse e il dibattito intorno ai libri; in quest’ottica, verranno coinvolti e invitati a commentare i testi anche giovani studiosi/e dei corsi di Lingua e Traduzione portoghese.

Per la prima uscita, dedicata alla raccolta Geografia (1976) della poetessa Sophia de Mello Breyner Andresen, Michela Cevasco, studentessa presso l’Università di Genova, ha intervistato la traduttrice Elisa Rossi

Sophia de Mello Breyner Andresen, o semplicemente “Sophia”, come la stessa scrittrice preferiva che ci si riferisse a lei, nasce a Porto il 6 novembre del 1919. Negli anni Quaranta si trasferisce a Lisbona, dove comincia a frequentare i movimenti cattolici giovanili oppositori del regime dittatoriale salazarista. L’impegno politico, che porta avanti insieme al marito, Francisco Sousa Tavares, la coinvolge attivamente fino agli anni Settanta. Nel 1944 pubblica Poesia, prima tappa di una copiosa e versatile produzione in cui si alternano opere poetiche, racconti in prosa, letteratura infantile, antologie, saggi e testi drammaturgici, e che si protrae fino agli anni Novanta. Nel 1964 riceve il Grande Prémio de Poesia in merito alla sua raccolta poetica Livro Sexto; nel 1999, viene insignita col premio Camões, il più grande riconoscimento per la poesia di lingua portoghese. Muore a Lisbona il 2 luglio del 2004.

Perché hai deciso di tradurre Sophia? Trovi che sia necessaria una sintonia tra la sensibilità del poeta e quella del traduttore?

Prima di avvicinarmi all’opera sono stati innanzitutto il volto reale di Sophia, il suo nome e la sua storia, così intrinsecamente legata a quella portoghese del secondo Novecento, a imprimersi – non ricordo esattamente quando – nella mia memoria. La sua figura ha mantenuto per diverso tempo contorni indefiniti e quasi mitici, dove biografia e testimonianza letteraria si confondevano, curiosamente in linea con una delle sue più incisive dichiarazioni di poetica: «il verso è denso, teso come un arco, esattamente detto, perché i giorni sono stati densi, tesi come un arco, esattamente vissuti» (“Arte Poetica II”, Geografia).
Tempo dopo mi sono imbattuta in una frase che Sophia rivolge all’amico Jorge de Sena, in una lettera del 22 dicembre 1960: «Sto traducendo con passione il Purgatorio della Divina Commedia. A volte penso che sia il mio “capolavoro”».[2] La «passione» con cui veniva descritto questo lavoro di traduzione – di cui, per altro, non avevo mai sentito parlare – mi ha incuriosita a tal punto da spingermi a dedicare al Purgatorioandreseniano la tesi magistrale. La decisione di tradurre una raccolta poetica di Sophia è nata durante questo percorso, grazie alla sensibilità del mio correlatore, che ha saputo cogliere il valore letterario dell’autrice, e all’attento interesse dell’editore per un testo, come Geografia, già di per sé predisposto alla “migrazione”.
Questa premessa mi porta a rispondere alla seconda domanda; credo che la sintonia sia essenziale, ma che passi quasi sempre attraverso un processo: probabilmente ogni accordo è diverso. Nel mio caso, il fatto di aver conosciuto in primo luogo le traduzioni di Sophia mi ha permesso di muovermi in una dimensione differente da quella propriamente tematica delle sue poesie, con cui è più immediato, almeno in un primo momento, entrare in contatto. L’abilità nella ricreazione di una trama fonico-timbrica, attraverso cui cerca di riproporre il ritmo della terzina dantesca (senza però forzarne la rima), la scelta della parola giusta, l’intervento in filigrana, delicato, fatto di piccole cose: questa è la sensibilità con cui mi trovo in sintonia, nel senso che è un fare poeticoche idealmente perseguo quando traduco, ed è in fondo ciò che più ammiro nei suoi versi.

Vivi a Lisbona, nel quartiere dove abitò Sophia: quanto influiscono una conoscenza e un sentimento di alcuni dei suoi luoghi nella traduzione di una raccolta che si intitola Geografia?

Credo molto, anche se non ne ho una percezione cosciente. Geografia è una mappa che si delinea attraverso le diverse sezioni di cui è composta (I. Ingrina; II. Procelária; III. A Noite e a Casa; IV. Dual; V. Mediterrâneo; VI. Brasil ou do outro lado do mar; VII. No Poema; VIII. Artes Poéticas) e i luoghi, colti nella loro matrice archetipica e al tempo stesso nella loro concretezza, costituiscono la materia prima della rielaborazione poetica. Sono sempre presenti una componente particolare e universale: per questo, anche nei casi in cui ricorrono toponimi concreti, è difficile che la mia immagine personale del luogo si sovrapponga a quella descritta. 
Credo però che il fatto di vivere a Graça, il quartiere dove lei ha trascorso gran parte della sua esistenza, e più in generale di avere una certa familiarità con i paesaggi fondanti della sua poetica, agisca in altri modi, nel senso che mi permette in parte di attingere, o almeno di provarci, a una stessa ontologia cromatica. Mi è capitato anche di avere la percezione opposta, e cioè che i luoghi mi parlassero dei testi. Ad esempio, sul muro di una stradina vicino a casa mia c’è un graffito che riporta l’incipit di Ingrina, la prosa poetica che apre la raccolta:

O grito da cigarra ergue a tarde a seu cimo e o perfume de orégão invade a felicidade. Perdi a minha memória da morte da lacuna da perca do desastre. A omnipotência do sol rege a minha vida enquanto me recomeço em cada coisa.

Il grido della cicala innalza il pomeriggio alla sua cima e il profumo di origano invade la felicità. Ho perso la mia memoria della morte della lacuna della perdita del disastro. L’onnipotenza del sole regge la mia vita mentre mi ricomincio in ogni cosa.

L’ho riconosciuta solo dopo averla tradotta e mi è parsa una prova tangibile di quanto la sua voce sia radicata in queste vie. 

Com’è cambiata la tua percezione del testo da lettrice dopo aver tradotto l’opera? È difficile ricomporre un testo dopo averlo scomposto, riunirlo dopo averlo disgregato? E, infine, quali sono le strategie e le vie che hai percorso per ricostruire le poesie in traduzione?

In effetti non ho mai avuto la percezione di riuscire a «scomporre» i testi di Geografia, per riprendere la tua metafora: direi che si sono svelati progressivamente, attraverso piccoli dettagli che poi, nel susseguirsi delle letture, hanno trovato riscontro nel più ampio sistema della raccolta. 
In una prima fase, ad esempio, mi sforzavo di riportare fedelmente la misura dei metri chiusi (in prevalenza settenari, endecasillabi e alessandrini), nella convinzione che avessero un valore semantico a cui non potevo rinunciare. Da un certo punto in poi ho invece iniziato a notare che i versi, anche quelli tradizionali, si articolavano in funzione della logica interna al discorso poetico; la differenza tra misura breve e lunga per esempio era essenziale, ma impiegata con una certa libertà, nel senso che ai settenari potevano essere interposti senari, o quinari, e agli endecasillabi decasillabi o dodecasillabi. La resa della polimetria e dell’andamento ritmico risultava dunque – sempre nell’ottica di dover operare una scelta – più rilevante del mantenimento di una griglia metrica. 
Quindi, nella mia traduzione, ho posto particolare attenzione ai cambiamenti di ritmo, che spesso trovano luogo nelle chiuse, come nell’ultima strofa di Eu me perdi (Mi persi)

(…) Eu me busquei no vento e me encontrei no mar
E nunca
Um navio da costa se afastou
Sem me levar
(…) Mi cercai nel vento e mi trovai nel mare
E mai
Una nave lasciò la costa
Senza di me

La scelta di tradurre «sem me levar» – letteralmente «senza portarmi» – con  «senza di me» rispondeva alla volontà di mantenere il ritmo del verso tronco finale, senza perdere il senso complessivo, dal momento che l’azione è sottintesa dall’effetto. 
Compare qui un altro problema trasversale alla traduzione della raccolta e, più in generale, alla traduzione di poesia dal portoghese, ovvero la resa del pretérito perfeito simples, un tempo che ha la morfologia del passato remoto ma, nella maggior parte dei casi, il valore risultativo del nostro passato prossimo. Nella traduzione di Geografia ho tendenzialmente scelto di conservare la forma, eccetto i casi in cui la dimensione temporale risultasse essenziale per l’enunciazione poetica, come negli ultimi versi di No quarto (Nella stanza): «O nosso pensamento erra sem descanso pelos mapas // A nossa vida é como um vestido que não cresceu connosco»; «Il nostro pensiero erra senza tregua tra le mappe // La nostra vita è come un vestito che non è cresciuto con noi». 
Sempre col tempo, ho preso coscienza del fatto che privare i versi di Sophia della loro veste fonica avrebbe significato compromettere la loro originaria completezza; per questo, laddove in italiano il piano dell’accentuazione interferiva con quello del suono, ho scelto di privilegiare quest’ultimo. Nella stessa ottica, ho cercato il più possibile di riprodurre le rime e, nei casi in cui non era possibile ottenere una rima perfetta, l’ho sostituita con un’assonanza, come nella traduzione di A luz e a casa (La luce e la casa):

Em redor da luz
Com sombras e brancos
A casa se procura 
Minhas mãos quase tocam
O brando respirar
Da sua atenção pura
Intorno alla luce
Tra i bianchi e le ombre
La casa si perlustra 
Quasi toccano le mie mani
Il respiro leggero
Della sua attenzione pura

Analogamente, nell’ultima strofa di De pedra e cal (Di pietra e calce), ho cercato di rendere la rima imperfetta «crinas-moiras» con un’altra assonanza, «chiome-moire»:

(…) Um xadrez só de torres
E cavalos-marinhos
Que sacodem as crinas
Sob os olhos das moiras
(…) Scacchi solo di torri 
E cavalli marini 
Che scuotono le chiome 
Sotto gli occhi delle moire

La sillaba è l’unità fonetica costitutiva sul piano della composizione perché non si limita a svolgere una funzione melodica, ma suggerisce possibili linee interpretative. Più in generale, la centralità del piano prosodico, su cui ho cercato di orientare il lavoro, è anche il motivo per cui la mia percezione di Geografia non è cambiata in modo radicale durante e dopo il processo, sicuramente non nella direzione di un “rivelazione” dell’opera: c’è un nucleo che si mantiene inalterabile e in un certo senso inaccessibile, ed è quello che coincide con il fulcro della lingua, in cui la sua poesia è radicata.

La tua traduzione adopera alcune parole desuete, arcaismi, neologismi (penso a «mensa» o a «disincontro»). Se per la poetessa nominare è scoprire, per la traduttrice rinominare, cercando parole dimenticate o non ancora esistenti, è, in qualche modo, riscoprire, riportare alla luce e, in piccola misura, “ricominciare il mondo”? Se non un atto creativo, può essere considerato un atto demiurgico, di riassetto delle relazioni tra parole e cose?

Penso di sì, quanto meno come intenzione ideale. Questo «riassetto delle relazioni tra parole e cose», per altro, descrive perfettamente l’asse Io-mondo, di matrice neofenomenologica, da cui prende le mosse la ricerca della parola poetica:
Se un poeta dice «oscuro», «ampio», «barca», «pietra», è perché queste parole nominano la sua visione del mondo, il suo legame con le cose. Non sono state parole scelte esteticamente per la loro bellezza, ma scelte per la loro realtà, per la loro necessità, per il loro potere poetico di stabilire un’alleanza.
In questa dichiarazione risiede anche il limite che mi sono posta all’interno del tipo di operazione di cui parlavo prima, ovvero del tentativo di mantenere le sonorità del verso. Anche sul piano lessicale infatti ho scelto di privilegiare i corrispondenti italiani più vicini dal punto di vista etimologico e fonico, rispetto ad altri vocaboli di uso più comune. È il caso, appunto, di «mensa» in luogo di «tavolo», equivalente alla «mesa» portoghese. Allo stesso tempo, portare agli estremi questa postura traduttiva avrebbe significato correre il rischio di attribuire a Sophia parole non propriamente «reali e necessarie». Il caso di «mensa» è emblematico del punto di equilibrio che mi sono prefissata: mantenendo il suono del significante, il senso che desideravo restituire al lettore (l’immagine di una superficie materiale su cui avviene un confronto) arriva ugualmente. Di sicuro questa scelta provoca un leggero attrito, ma permette di valorizzare il potere evocativo della parola. 
Una simile logica è alla base della parola «disincontro», mutuata dal «desencontro» della poesia Acaia:

 Aqui despi meu vestido de exílio
E sacudi dos meus passos a poeira do desencontro
 Qui mi spogliai del vestito di esilio
E scossi dai miei passi la polvere del disincontro

In italiano l’unica possibile traduzione sarebbe stata ‘mancato incontro’, ma, al di là della duplicazione lessicale, si sarebbe anche perso il senso di separazione spaziale veicolato dal prefisso dis-. Proporre una parola che, da sola, potesse descrivere la condizione di un disallineamento, tra persone o cose, sembrava comunque in linea con l’invito di Sophia a «stabilire un’alleanza» con la realtà.

*


Note:

[1] Sontag, S., Tradurre letteratura, Archinto, Milano.

[2] De Mello Breyner Andresen, S.; Sena, J., Correspondência 1959-1978, Guerra e Paz, Lisboa 2010, p. 36.

*

Immagine di copertina: Eleonora Signorini 

Per scaricare l’intervista: da ocidental praia: intervista a Elisa Rossi

Submit a comment

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...