Pubblichiamo oggi una conversazione con Paolo Bellomo e Camille Bloomfield sulla loro traduzione di Patrizia Valduga, Cent quatrains érotiques (Nous, Caen, 2022) curata da Guillaume Richez e uscita su Les Imposteurs il 27 gennaio 2022. La traduzione dell’intervista è di Matilde Manara.
Camille Bloomfield è ricercatrice in letteratura e insegnante all’Università Sorbonne Paris Nord. Franco-inglese, nata tra le lingue, coltiva l’ibridazione nella sua pratica poetica così come nel suo lavoro di ricerca e traduzione, mescolando forme (scrittura à contrainte, traduzione sperimentale, poesia sonora…) e media (testo, video, immagine, suono, digitale) diversi. Nel 2014 ha co-fondato Outranspo (Ouvroir de Translation Potencial), un collettivo dedicato alla traduzione creativa e ludica, ed è anche membro del gruppo italiano Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale), due “OuXpo” fondati sulla scia dell’Oulipo. Traduce, soprattutto poesia, dall’italiano e dall’inglese. Ha tradotto testi di Yuyutsu Sharma, Henry David Thoreau e Mariangela Gualtieri.
Paolo Bellomo è libraio e traduttore. È cresciuto a Bari, destreggiandosi come meglio poteva tra il dialetto e l’italiano della città. In Francia dal 2011, ha riflettuto sui discorsi sulla traduzione con una tesi in letteratura comparata e continua a farlo traducendo teatro (Emma Dante, Antonio Moresco), romanzi (Célia Houdart, Antonio Robecchi, Charles Duchaussois), autori del passato (Pierre Loti, Joris-Karl Huysmans) e poesia, il più delle volte accompagnato da unə o più co-traduttorə. Nel tempo libero, scrive con grande piacere opere teatrali e testi di canzoni. Dal 2021 è membro dell’Outranspo.
Nel 2021, l’editore Nous ha pubblicato la traduzione a quattro mani di Cento quartine, il libro più famoso della poetessa italiana Patrizia Valduga, tradotto per la prima volta in francese. È stata l’occasione per parlare con Paolo Bellomo e Camille Bloomfield del loro notevole lavoro su quest’opera singolare e per discutere della professione di traduttorə.
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Quando e come avete scoperto le Cento quartine di Patrizia Valduga?
Camille Bloomfield: Ho scoperto Patrizia Valduga mentre studiavo italiano a Paris 3. Insieme ad altre studentesse e studenti del mio corso, avevamo partecipato a una lettura di poesia all’Istituto Italiano di Cultura e io avevo letto degli estratti di Cento quartine. Di quei testi mi aveva colpita la potenza. Poi ho deciso di dedicare la mia tesi magistrale a un’altra raccolta di Patrizia Valduga, Requiem, anch’essa molto forte, anche se i suoi toni sono completamente diversi.
Paolo Bellomo: La prima volta che ho letto Patrizia Valduga avevo 21 anni. Avevo seguito il consiglio di un amico più giovane che era diventato il mio mentore in poesia contemporanea da quando avevo scoperto di poter amare la poesia. Mi aveva detto che Valduga apparteneva alla generazione di autorə che hanno iniziato a scrivere negli anni ’80 come Pusterla, un poeta che già amavo. Era sicuro che mi sarebbe piaciuta la poesia di Valduga. Mi ha dato due libri: Requiem e Cento quartine. Li ho letti subito, tutto d’un fiato, ad alta voce, secondo un gioco che all’epoca facevamo spesso. Rimasi sorpreso, persino sconcertato, dalla sua abilità, dalla sua forza semplice, dal modo in cui i suoi versi trasportano forme antiche fino all’estremo contemporaneo.
Da dove è nata l’idea e il vostro desiderio di tradurre questo libro? E perché l’avete tradotto insieme?
C. Bloomfield: Volevo dedicarmi a questo progetto difficile e impegnativo da molto tempo. Avevo già tradotto alcune quartine per la rivista L’Intranquille dell’Atelier de l’Agneau (numero 7, settembre 2014). Ma mi mancava l’energia per affrontare il progetto da sola. Allo stesso tempo, con Paolo volevamo tradurre a quattro mani, perché sarebbe stato più divertente. Quando si traduce poesia e non si vogliono fare soldi tanto vale divertirsi! Così, quando nelle nostre conversazioni è venuto fuori che Valduga era una passione comune, ho capito che il progetto sarebbe finalmente diventato realtà.
P. Bellomo: Stavo prendendo un caffè con un editore (non quello che ha finito per pubblicarci) e mi ha chiesto se ci fosse qualche poetə italianə contemporanə che desiderassi tradurre. Tra i nomi che ho suggerito quel giorno, quello di Valduga ha vinto sugli altri. Inoltre, sapevo che Camille, che aveva già lavorato su Valduga, voleva tornare a farlo, così ho pensato di proporle di lavorare insieme. Amo lavorare a quattro mani e ancora di più con lə amicə. Sono andato a trovarla e lei è stata subito d’accordo. Inoltre, quando abbiamo iniziato, avevamo entrambi il desiderio e la possibilità (cosa rara!) di dedicare del tempo al progetto. Lavorare in due, partendo da due lingue madri diverse (quattro nel nostro caso) è sempre significativo: non lascia quasi nessuna zona d’ombra nell’originale o nella traduzione, mobilita e fa interagire due biblioteche, costringe a leggere le poesie ad alta voce, a trovare nell’altro un primo pubblico. Sono convinto che molte traduzioni trarrebbero beneficio dall’essere realizzate a quattro mani o più.
Patrizia Valduga è una poetessa e traduttrice molto conosciuta in Italia. Ha pubblicato una dozzina di libri, il primo dei quali, Medicamenta, è stato pubblicato nel 1982. Cent quatrains érotiques è la sua prima opera tradotta in francese. Perché pensate ci sia voluto così tanto tempo prima che un editore francese si interessasse al suo lavoro?
P. Bellomo: Forse perché non è un’autrice di consenso, forse per la difficoltà di tradurre le sue opere, il tempo che richiedono, e forse anche perché il mercato della poesia tradotta in Francia non è così ricco. Non saprei.
C. Bloomfield: Sì, in effetti, la poesia in traduzione vende molto poco in Francia ed è sempre una specie di piccolo miracolo quando unə poetə contemporaneə viene tradotto: un miracolo che risulta da un doppio impegno, quello della casa editrice e quello delə traduttorə. In questo caso, siamo stati noi a difendere il progetto presentandolo a diverse case editrici finché non ne abbiamo trovata una che accettasse di pubblicare questa traduzione. Inoltre, mi sembra che tra le opere di Valduga (che continua a pubblicare regolarmente) questa raccolta sia quella che ha fatto più rumore in Italia. Era il 1997, e il fatto che la sua fama abbia continuato a crescere da allora è una garanzia che depone a favore di un progetto di traduzione.
Patrizia Valduga ha tradotto Ronsard, Molière e Mallarmé. Avete parlato con lei durante la traduzione di Cento quartine? Sapete come giudica il vostro lavoro e questa edizione francese del suo libro?
P. Bellomo: Non abbiamo avuto molti contatti con lei. Quando traduco preferisco lavorare con l’idea che sto traducendo un’opera piuttosto che un’autrice o un autore. Le abbiamo chiesto chiarimenti su due o tre nodi testuali alla fine del lavoro. Ha detto di essere felice di essere pubblicata in francese, ma non ha voluto approfondire l’argomento.
C. Bloomfield: Non lo sappiamo e io personalmente muoio dalla voglia di saperlo! Se non avessi tradotto con Paolo, avrei sicuramente interagito di più con l’autrice o l’autore perché è il mio modo naturale di fare le cose. All’epoca della mia tesi di laurea mi aveva frustrato il fatto che il mio relatore mi sconsigliasse di mettermi in contatto con lei, per paura che la persona mi distraesse troppo dal testo! Come se le due cose fossero completamente separate! Anche se ho capito, quando ho avuto l’occasione di incontrarla più tardi, che cosa intendesse, non aderisco più molto alla logica puramente testualista nella quale mi sono formata, e mi piacerebbe essere più in contatto con l’autrice in futuro, se dovessi tradurre un’altra raccolta, per discutere di certe scelte. Forse in questa configurazione a due, il bisogno di scambiare con qualcun altro era già soddisfatto e così ho accettato di giocare il gioco della traduzione senza il suo aiuto, per vedere…
Prima avete detto di voler tradurre questo testo in coppia. Più concretamente, come avete proceduto? Avete lavorato da soli prima di confrontare le vostre diverse versioni? O avete tradotto queste poesie allo stesso tavolo, leggendo ogni quartina ad alta voce mentre le traducevate?
P. Bellomo: Ognuno di noi ha fatto una prima stesura della traduzione per conto proprio, di settimana in settimana, niente di definitivo, piuttosto per cominciare a capire quali difficoltà ponesse la poesia e abbozzare delle possibilità di rima. Ci siamo poi ritrovati di volta in volta di fronte a un documento condiviso proiettato su un grande schermo e abbiamo cercato di creare una quartina francese il cui schema rimico e la cui metrica regolare potessero trasmettere la forza poetica di Valduga. Certo, ci sono quartine che ci hanno sfinito e alle quali siamo dovuti tornare decine di volte.
C. Bloomfield: Il ruolo della lettura ad alta voce è stato molto importante in questa traduzione, perché ciò che avevamo apprezzato in italiano, tra le altre cose, era la fluidità della lingua, quindi il testo doveva “scorrere” altrettanto facilmente in francese, anche se dal punto di vista metrico il risultato non sarebbe stato esatto. La raccolta è un dialogo tra un uomo e una donna, ognuno dei quali ha tonalità diverse, quindi lavorare con le nostre due voci ha permesso fin dall’inizio di mettere in evidenza questo aspetto dialogico.
Parlate delle vostre letture ad alta voce, e chiudete anche la vostra postfazione con un invito a leggere ad alta voce il vostro lavoro. In un’intervista concessa a Les Imposteurs[1], André Markowicz ha confidato che la voce di Anna Akhmatova è stata decisiva per lui in quanto vi ha ritrovato quella della sua prozia, nata nel 1890 (“È una lingua russa che nessuno parla più, che nessuno è nemmeno capace di imitare, ed è questa lingua russa che sento ancora – nelle orecchie della memoria, o in quelle del cuore”). In quanto traduttrice e traduttore, siete sensibili alle voci delle scrittrici e degli scrittori? Avete ascoltato registrazioni audio di Patrizia Valduga?
C. Bloomfield: Sì, certo, è meraviglioso sentire la voce di scrittrici e scrittori! Sono i loro corpi che vengono fuori nelle registrazioni audio, e la voce porta con sé tante emozioni, tanta storia. Spesso rivela cose di noi che non oseremmo mai dire, la nostra fragilità, il nostro atteggiamento nei confronti della vita. Quindi sì, abbiamo ascoltato le registrazioni di Valduga, ce ne sono alcune su Internet che consiglio vivamente. Io poi l’ho incontrata a Napoli qualche anno fa, in occasione di una sua lettura, e ho parlato con lei. La sua voce quotidiana e la sua voce di lettura sono molto diverse. La prima è un po’ strascicata e ha un po’ di accento, ma niente di esagerato. La seconda, invece, è estremamente teatrale, una teatralità cosciente, indignata, che credo sia un indizio per capire il suo lavoro (molto bello) sul verso e sulla forma quartina nelle Cento quartine: è la trasposizione nella parola scritta di questa letterarietà estrema che sentiamo nella sua voce di lettura. Nonostante il vocabolario crudo siamo lontani qui dalla poesia di tutti i giorni, quella da post quotidiani su Instagram e che poi, improvvisamente, diventa una raccolta!
P. Bellomo: Condivido l’entusiasmo di Camille per le poetesse e i poeti che usano la lettura ad alta voce come un’arma poetica supplementare, come nel caso di Valduga. D’altra parte, ho un ricordo vivido di un programma televisivo italiano del 1989 (l’ho scoperto molto più tardi), L’Aquilone, che per la rubrica intitolata “Poeti in gara” sorteggiava due poeti e li metteva l’uno contro l’altro a leggere ad alta voce. Il pubblico a casa votava e il nome del vincitore arrivava per lettera in studio qualche giorno dopo. Ho ricordi terribili di questi momenti, soprattutto della lettura di Amelia Rosselli[2] e di Edoardo Sanguineti[3], due autorə che mi piacciono molto. Mentre li ascoltavo mi pentivo di non avere il testo davanti agli occhi.
Ungaretti andava pazzo per la lettura ad alta voce, adoravo le sue “r” da vecchio quando leggeva le poesie di Vinicius de Moraes[4]. Quindi ho sempre un rapporto un po’ cauto sia con le letture riuscite che con quelle considerate come non riuscite: credo che quando si traduce sia meglio lasciare aperte il maggior numero di interpretazioni possibili, quindi non solo quella testuale, ma anche emotiva, vocale. Lo stesso accade quando si traduce il teatro: occorre lasciare intatte le possibilità di indirizzo. A volte davo una lettura sadomasochista, un po’ kinky di Valduga, e spingevo la traduzione in quella direzione perché era quello il mio modo di leggere i suoi versi, ma so anche che lo facevo perché Camille mi sorvegliava su quel fronte, come io potevo sorvegliare lei in altre altre occasioni. Questo è il privilegio di lavorare insieme. Quindi, per rispondere alla seconda domanda, sì, ho ascoltato e mi sono divertito molto con i suoni e prima di digerirli: in nessun momento, credo, la nostra priorità era di attenersi al modo che ha Valduga di leggere ad alta voce.
Cento quartine è composto da cento quartine di endecasillabi regolari a rima incrociata. Nella vostra postfazione, spiegate perché avete mantenuto la rima incrociata e scelto il decasillabo. In un’intervista a Le Matricule des anges[5], Olivier Le Lay, traduttore di Berlin Alexanderplatz di Döblin, così come di opere di Peter Handke e Elfriede Jelinek, confida che “un errore semantico è sempre meno grave di un errore ritmico”. Anche se ritmo e metro non sono proprio la stessa cosa, condividete la sua visione?
C. Bloomfield: Assolutamente! Le regole del metro corrispondono a una pronuncia del francese che non è più attuale. All’inizio coincidevano con quelle del ritmo, ma non è più così. Allora che senso ha favorire la metrica se non suona bene, non suona naturale nella pronuncia moderna? Le regole di dieresi e sineresi, in particolare, sono molto complesse e nessuno, tranne forse lə attorə professionistə di formazione classica, le rispetta più nella lettura orale. Per la “e” muta, il discorso è più complesso: dipende da dove si viene. Il nostro francese è quello della Francia settentrionale, quindi non pronunciamo davvero la [e] alla fine di una parola, ma un traduttore del sud potrebbe averlo fatto diversamente. La nostra prova, ogni volta, consisteva nel leggere il verso nel modo più naturale possibile, e nel contare i piedi a partire da ciò che sentivamo. Per questo ci sono delle irregolarità metriche, che assumiamo, ma che in teoria facilitano la traduzione nel parlato, dove il ritmo dovrebbe essere avvertito più chiaramente.
P. Bellomo: Ho ancora un po’ di problemi nel pensare alla traduzione in termini di errore: perché la traduzione è sempre vista come sbagliata, quindi mi rendo conto che ho naturalmente smesso di pensarla in questi termini. Lə autorə che amo aggiungono sempre un certo ritmo alla loro scrittura, e il ritmo – per me è vero come la pietra – è ciò che permette alla loro scrittura di colpire la mia attenzione, il mio desiderio, è una spinta. Uno dei trucchi della traduttrice Ilide Carmignani è stato quello di mantenere la fiamma del ritmo di Bolaño nelle sue traduzioni. Senza il suo ritmo Bolaño è ancora un autore enorme, ma la sua prosodia può paralizzare il cervello per settimane. Tutto questo per dire che non ripristinare il ritmo o non prestarvi attenzione, forse per mancanza di serietà, mi pare un peccato.
Nella stessa intervista[6], Olivier Le Lay ha anche spiegato che lə traduttorə non devono portare nulla di sé, ma “purificare la loro scrittura, sparire dietro il testo”. E conclude: “La pietra di paragone di una buona traduzione è sempre la prova del suono. Siete d’accordo con lui su questo?
C. Bloomfield: Sono d’accordo con la seconda affermazione (vedi domanda precedente) ma non con la prima, che corrisponde a un ideale di trasparenza un po’ illusorio e, secondo me, un po’ superato. Naturalmente lə traduttorə portano sempre qualcosa di personale! È impossibile che sia altrimenti. Ogni micro-decisione è una parte di te stesso che ti porti dietro! Esserne consapevoli mi sembra più costruttivo di far finta che questo fenomeno non esista, che noi stessi non esistiamo. Quindi è importante essere chiari sul proprio progetto di traduzione mentre ci si sta lavorando: quali sono le mie scelte? Cosa privilegerò? Il suono, il ritmo, la precisione lessicale, il registro, la forma chiusa? Eccetera. Queste sono le scelte che saranno la “parte di me” che porto nella traduzione. E più sono audaci e radicali, più questa parte sarà visibile, semplicemente. Questo vale se non altro per la poesia o per la letteratura à contrainte.
P. Bellomo: Sono pienamente d’accordo con quello che ha detto Camille. Non esiste una traduzione oggettiva, tradurre è sempre il frutto di una lettura, di un’interpretazione personale. Quindi, no, non deve essere messa in secondo piano rispetto al testo, ma deve essere al servizio della sua coerenza, che sarà una delle sue possibili coerenze, quella che lə traduttorə hanno scelto di dargli. Per quanto riguarda il test del suono, tenderei ad essere d’accordo con Le Lay, corrisponde un po’ ai dispositivi che metto in atto quando traduco. Dopodiché, non si deve credere che la prova del suono sia necessariamente senza ostacoli o asperità. Il risultato non deve sembrare “facile come se fosse letto ad alta voce”. Di nuovo, questo è un punto fondamentale anche per la traduzione teatrale.
In una conferenza del 1960, Ingeborg Bachmann disse: “Ciò che è nuovo in altri paesi ci rimane nascosto per molto tempo. Il più delle volte ne veniamo a conoscenza con un ritardo di una o due generazioni. La vostra traduzione appare in Francia più di vent’anni dopo la pubblicazione di Cento quartine in Italia, il che sembra confermare l’affermazione della poetessa austriaca. Se possiamo solo rallegrarci di questa messa in evidenza dell’opera di Patrizia Valduga, non dovremmo anche concentrare parte del lavoro di traduzione sulle opere poetiche che si stanno scrivendo?
C. Bloomfield: Certo, idealmente dovremmo fare entrambe le cose in parallelo! Ma le risorse destinate alla traduzione di poesia dalla maggior parte degli editori sono così scarse e le rinunce materiali così grandi che in cambio sento di avere il diritto, e in ogni caso mi arrogo il diritto, di tradurre rigorosamente ciò che mi sento di tradurre, senza altra considerazione che il piacere o il sentimento di necessità nel trasmettere un’opera al pubblico francese. Bisogna ricordare che nella traduzione di poesia, la remunerazione è spesso quasi inesistente, limitata a una percentuale delle royalties e non – come nel caso della traduzione in prosa – costituita da un cumulo di queste royalties in aggiunta a una remunerazione per pagina o per parola. A partire da questo vincolo finanziario, scelgo di avere totale libertà nei testi che propongo alə editorə. Quindi a volte sono testi recenti e a volte no. Paolo e io veniamo anche dalla ricerca universitaria, e scopriamo i testi non solo quando vengono pubblicati in libreria, ma anche attraverso il lavoro di altri colleghi, attraverso gli archivi, attraverso la loro progressiva istituzionalizzazione in un determinato campo culturale al quale prestiamo attenzione… Questo atteggiamento non implica lo stesso rapporto con la temporalità di quando si traduce a tempo pieno, tutto l’anno, opere appena pubblicate (il che non è affatto il mio caso). E poi, bisognerebbe fare un’indagine sociologica sulə traduttorə di poesia: quanti di questi sono universitari? Per intraprendere tali progetti bisogna avere i mezzi.
P. Bellomo: Certo, dovremmo concentrarci anche sull’estrema contemporaneità. Anche se credo in una sorta di καιρός della traduzione, dove la contemporaneità di questa o quell’opera non è necessariamente dettata dal tempo puramente cronologico… Per dirla in altro modo e per prendere un esempio recente dal mondo dell’editoria francese, James Baldwin è più nostro contemporaneo di molti autori che hanno trenta o quarant’anni oggi. Ma per non andare fuori strada, Camille ed io stavamo recentemente discutendo insieme del prossimo progetto di traduzione di poesia e non è affatto escluso che ci rivolgeremo di nuovo a un poeta o una poetessa italiana vivente. Ma non possiamo dire di più al momento.
Nella vostra postfazione, scrivete che se la vostra traduzione “apre la strada […] spera di sollecitare altre traduzioni future, che saranno diverse, prenderanno altre posizioni”. James Joyce credeva che dopo “l’età massima antidiluviana di settant’anni” un’opera dovesse essere ritradotta – il che equivale a considerare che, a differenza dell’opera nella sua lingua originale, che attraversa il tempo, qualsiasi traduzione avrebbe una sorta di data di scadenza, qualunque sia la qualità del lavoro delə traduttorə. Condividete questo punto di vista?
C. Bloomfield: Assolutamente. È qualcosa che mi ha sempre affascinato e che fa capire quanto si traduca sempre in un’epoca, secondo modalità di traduzione, credenze e discorsi sulla traduzione che evolvono e quindi, di fatto, scadono. Questo è anche ciò che fa sì che non esista “la migliore traduzione” in assoluto, ma “la migliore traduzione in un dato momento e in un dato contesto “. La traduzione è un discorso situato, in un certo senso.
P. Bellomo: Non mi sorprende che Joyce abbia detto questo. Lə traduttorə traducono sempre in una lingua, e sottolineo una, che qui è più un aggettivo numerale che un articolo indefinito: un’opera viene tradotta in francese, in italiano, i confini di una lingua sono lì a fare da salvaguardia al lavoro di traduzione. Lə scrittorə si preoccupano meno di questo, o meglio: scrivere in una lingua non è un obbligo esplicito del loro lavoro. Joyce è forse l’esempio più estremo di questo atteggiamento. E senza dubbio le norme (per lo più inventate) di una lingua evolvono molto più velocemente di quelle autodeterminate dalla scrittura di unə autorə, che può essere vista come una lingua nella lingua, al di sotto o al di là della lingua. Ma vorrei aggiungere qualcosa: le opere che non invecchiano dopo settant’anni sono quelle che diventano classici e continuano a essere leggibili perché hanno plasmato ciò che è la letteratura, hanno contribuito a formare i lettori di domani. Credo che anche le opere che non sono entrate nel canone letterario invecchino più velocemente, non quanto le traduzioni forse, ma che comunque invecchiano. Questo è solo uno dei modi di pensare il problema. Per quanto riguarda la moltiplicazione delle traduzioni, se potessimo prescindere dal mercato, se potessimo essere nel puro piacere, mi piacerebbe sempre vedere almeno due traduzioni diverse della stessa opera letteraria, anche quando questa viene tradotta per la prima volta. La traduzione è una ricchezza.
Se nel 2020, il 15,9% dei libri presenti nel catalogo della BnF sono opere tradotte (l’inglese rappresenta il 60% del totale delle traduzioni e l’italiano il 4%)[7], oggi è ancora raro che i nomi delə traduttorə appaiano sulla copertina dell’opera. A volte i loro nomi non appaiono nemmeno sulla quarta di copertina. Questa pratica è abbastanza diffusa in Francia tra le case editrici, che si tratti di un grande formato o di un paperback. Lə traduttorə sono anche raramente invitatə agli incontri nelle librerie. Secondo voi, tutto questo dimostra una mancanza di considerazione per questa professione in questo paese?
C. Bloomfield: Sì, anche se in Francia la situazione è migliore che in molti altri paesi europei, c’è ancora una grande cultura dell’invisibilità delə traduttorə. È una cultura che è spesso perpetuata dalə stessə traduttorə, in modo largamente inconscio, nel senso che tendiamo a metterci in secondo piano, per una sorta di antico riflesso, una modestia per la quale siamo statə addestratə. Ma per fortuna la situazione sta cambiando e sempre più case editrici mettono i nomi delə traduttorə in copertina, soprattutto in poesia, dove l’aspetto creativo della traduzione è più riconosciuto. Credo sia una questione di tempo: con il diffondersi del discorso sulla visibilità nelle diverse professioni il problema prende uno spazio più grande nell’inconscio collettivo e oso sperare che diventerà presto sistematico!
P. Bellomo: In effetti, la Francia è più avanti di molti altri paesi in queste lotte. E non è solo una questione di visibilità ma anche di diritti, remunerazione, ecc. Ma come ogni diritto acquisito, non è sempre facile trovare una soluzione. Non dobbiamo sederci sui diritti, dobbiamo continuare a difendere il valore e l’importanza di questa magnifica professione.
Il MEET e il Collegio Internazionale dei Traduttori Letterari, come altre organizzazioni in Francia, Belgio e Svizzera, offrono residenze alə traduttorə. La vostra traduzione è stata sostenuta dal laboratorio Pléiade e dalla struttura federativa Medialect dell’Università Sorbonne Paris Nord. Pensate che le residenze, così come il sostegno finanziario per la scrittura e la traduzione, siano essenziali per la pratica di questa professione oggi? Che consiglio dareste a chi vuole diventare traduttorə?
P. Bellomo: Sì, le residenze sono essenziali: compensano un’economia ancora troppo fragile e aiutano a far uscire lə traduttorə dalla loro solitudine professionale, contribuiscono alla sensazione di far parte di una rete più ampia e valorizzata (socialmente e finanziariamente). Per quanto riguarda i consigli da dare alə aspirantə traduttorə, la cosa più importante per noi, che traduciamo a quattro mani, è di evitare lo spirito competitivo nella professione e di aiutarci il più possibile, condividendo i contatti con lə editorə, valorizzando il lavoro dei colleghi, facendo progetti insieme ed essendo generosi. Questo è l’unico modo in cui merita di essere vissuto!
C. Bloomfield: Completamente con Paolo, ancora una volta! Vorrei aggiungere qualcosa: il nostro progetto ha effettivamente beneficiato del sostegno del mio laboratorio di ricerca, ma ha anche beneficiato del sostegno di un superbo programma dell’ENS (les Arlésiennes de Translitterae[8]), in partenariato con il Collegio Internazionale dei Traduttori di Arles[9], grazie a Nathalie Koble e Roland Béhar. Questo ha permesso una residenza e una masterclass di una settimana dove abbiamo potuto, in condizioni veramente privilegiate, tradurre di nuovo Valduga con gli studenti, questa volta scegliendo estratti da Requiem, e organizzare una lettura polifonica finale (alcuni risultati di questo lavoro collettivo possono essere letti qui[10]). È stato un momento di condivisione e trasmissione memorabile che, per me, ha dato un altro significato a questo progetto. Lo dico perché spesso critico l’università francese e la sua mancanza di risorse, ma qui devo dire che siamo stati doppiamente fortunati ad avere un simile sostegno istituzionale. Quindi, sì, l’aiuto è indispensabile, vitale per questo tipo di progetti! E consiglierei a unə giovane traduttorə di non esitare, soprattutto, a bussare a ogni porta, a lottare per ottenere uno stipendio decente, a moltiplicare le richieste di residenza, ecc. È un percorso lungo e noioso e spesso ingrato, ma quando funziona, che gioia!
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Note:
[1] https://chroniquesdesimposteurs.wordpress.com/2018/06/07/interview-dandre-markowicz/
[2] https://www.youtube.com/watch?v=tur8Ll4vVy4
[3] https://www.youtube.com/watch?v=7N-DwBzQ0Tw
[4] https://www.youtube.com/watch?v=R373gOtqOjw
[5] Le Matricule des anges, n°188, novembre-décembre 2017, pp. 23-24.
[6] https://www.translitterae.psl.eu/wp-content/uploads/2021/09/Arle%CC%81siennes_2_Valduga_2020.pdf
[7] https://www.sne.fr/actu/les-chiffres-de-ledition-2020-2021-sont-disponibles/
[8] https://www.translitterae.psl.eu/arlesiennes/
[9] https://www.atlas-citl.org/conditions-de-sejour/
[10]https://www.translitterae.psl.eu/wp-content/uploads/2021/09/Arle%CC%81siennes_2_Valduga_2020.pdf
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Per scaricare l’intervista: Conversazione con Paolo Bellomo e Camille Bloomfield
Immagine: Flaminia Fiocco