La regola dell’irregolare. La lingua perturbante di Franco Scataglini – Valerio Cuccaroni

Proponiamo oggi un estratto di un articolo che sarà pubblicato prossimamente nella rivista «Poesia».

Giorgio Agamben ha scelto di pubblicare Tutte le poesie di Franco Scataglini, che egli considera «certamente tra i massimi del Novecento», per i tipi di Quodlibet, nella sua collana di poesia bilingue Ardilut, inserendola nel catalogo dopo le opere in dialetto di Pasolini, Zanzotto, Giusti e Marin.

Per un’agevole introduzione all’opera di Scataglini rimando a quanto già scritto su queste pagine da Olmo Calzolari (qui ). Chi invece desidera entrare in contatto diretto con il poeta, grazie a Quodlibet sarà accontentato. L’opera omnia è ormai disponibile in libreria. Io mi concentrerò su un particolare della lingua dell’autore che rinvia all’universale questione posta da Agamben alla base della sua collana: il rapporto tra lingua e dialetti. La lingua di Scataglini, in effetti, mette in crisi la dicotomia classica lingua-dialetti.

Dei cinque libri di Ardilut, Tutte le poesie è l’unico che non ha il testo a fronte. Così come i singoli libri in dialetto di Scataglini, anche l’opera omnia è dotata solo di un glossario. Ciò significa che siamo di fronte a un fenomeno in bilico tra lingua e dialetto, un fenomeno liminare. Agamben, nella sua Avvertenza, nota, in effetti, come le quartine di Scataglini «si situano perentoriamente, nelle parole stesse del poeta, nel bilico sottile e illocalizzabile che divide il dialetto anconetano dall’italiano», pertanto «in esse naufraga altrettanto irrevocabilmente ogni tentativo di assegnare un’identità alla lingua della poesia – e, forse, alla lingua tout court». La lingua del poeta anconetano porta in sé le tracce della rimozione patita dai dialetti ma non è esclusa, come quelli, dalla comprensione degli italofoni. Scataglini è un irregolare, non confinato, però, non escluso dai rapporti sociali. È un irregolare a piede libero, come Jean Valjean, ex galeotto capace di diventare sindaco e arricchire con una sua invenzione, derivata dall’esperienza manuale, tecnica, la popolazione di una cittadina in cui si è nascosto, dopo aver cambiato identità.

Nel caso di Scataglini, la scoperta è avvenuta grazie alla frequentazione amatoriale della poesia delle origini: il suo dialetto – gli apparve chiaro leggendo Poeti del Duecento di Contini – fu uno dei volgari delle origini e, date le somiglianze tra l’anconetano e il fiorentino, sarebbe potuto diventare, come lo ribattezzò il sodale Gianni D’Elia, un neovolgare. Senza perdere tuttavia il suo aspetto perturbante.

Usando in modo rudimentale l’armamentario psicoanalitico potremmo dire che la lingua di Scataglini è la nevrosi dell’italiano, il ritorno del rimosso (il dialetto), non come fenomeno psicotico (strutturalmente altro), ma come sintomo, tic, lapsus. 

Prendiamo un testo esemplare, da questo punto di vista.

Vita e scritura

(da So’ rimaso la spina, 1977)

Per me vita e scritura

ène compagni, el sai,

tuta scancelatura

dopo dulor de sbai.

Se cerca ’n sòno lindo

drento de sé e se trova

el biatolà d’un dindo

spèrsose ’nte la piova.

Una volta appurato che ène significa sono e biatolà d’un dindo è il verso di un tacchino, le altre parole sono riconoscibili, perché analoghe a quelle in uso nella lingua italiana, seppure storpiate e deformate da alcuni fenomeni tipici della parlata locale: lo scempiamento delle doppie ha trasformato tutta in tuta e cancellatura in scancelatura (con l’aggiunta del prefisso s-, per analogia con verbi quali battere > sbattere), la chiusura della o in u ha reso dolor / dulor, aferesi di un / ’n, la metatesi dentro / drento. Le altre sono forme arcaiche, presenti anche nel volgare letterario delle origini: sòno al posto di suono («quella sonò come fosse un tamburo», Dante Alighieri, Inferno, XXX, 103), se al posto di si («qual più se guarda», Guittone d’Arezzo, [Ahi lasso, che li boni e li malvagi], 24).

L’aspetto, dunque, è innanzitutto quello di una lingua povera, soggetta a quel fenomeno così ben descritto da Adorno nei suoi Minima moralia, libro a lungo meditato da Scataglini: «la lingua proletaria è dettata dalla fame. Il povero biascica le parole per saziarsi di esse. Egli attende dal loro spirito oggettivo il valido nutrimento che la società gli rifiuta: e fa la voce grossa, arrotondando la bocca che non ha nulla da mordere. Egli si vendica sulla lingua, straziando il corpo che non gli è concesso di amare» (Theodor W. Adorno, Minima moralia [1951],af. 65, Einaudi, Torino, 1996).

Tuttavia, per uno strano accidente storico e linguistico, l’anconetano, in particolare dopo il labor limae di Scataglini, assomiglia così tanto alla lingua letteraria che la deformazione popolare non è riuscita a rendere incomprensibile il codice, mentre la perizia di Scataglini è riuscita a evidenziarne le ascendenze nobili. Dagli sbagli (sbai), dagli errori, dalle cancellature emerge, in controluce, il suono pulito, la lingua del «bel paese là dove il sì suona», per dirla con il nostro miglior fabbro del parlar materno. Indossati da Scataglini, con consapevolezza, gli stracci volgari si rivelano essere le vestigia dell’antica nobilità. Di fronte alla «Poesia assoluta», in effetti, Scataglini confessò di sentirsi «un guitto sul proscenio del divino» (Questionario per i poeti in dialetto, in «Diverse lingue» 5, anno III, n. 1, pp. 27-35).

E adesso cosa penseremo della nobiltà poetica? Il suo aspetto lussureggiante non ci apparirà forse la promessa della lacerazione? E la lacerazione, indossata con consapevolezza, non ci apparirà forse il massimo segno dell’eleganza? Il sintomo nevrotico, esibito come marchio dell’esserci per la morte (Heidegger fu un altro filosofo di riferimento per Scataglini), non è forse la manifestazione di una salute superiore, consapevole che la malattia è la vita stessa? Ora che si hanno a disposizione tutte le poesie dell’autore chiunque potrà verificarlo. Ad accompagnare la lettura, oltre all’Avvertenza di Agamben, si troveranno una Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo e un’ampia Introduzione di Paolo Canettieri, che ha curato l’opera. Mengaldo, che si era già dedicato all’analisi linguistica dell’opera di Scataglini tra la fine degli anni 1980 e i primi del 2000, ritiene che Scataglini sia un poeta del contrasto, contrasto tra liricità e realismo, tra dialetto italianizzante e spesso un solo dialettalismo marcato per poesia, tra forme italianissime (soprattutto la quartina di settenari) e lessico antipoetico, tra assertività filosofica e leggerezza metrica. Canettieri, che si occupò di Scataglini poco dopo l’uscita del poema La rosa (1992), «come tutti i filologi sent[endo] un’affinità elettiva» in quella riscruttura del Roman de la rose, ha accettato di curare l’opera omnia su richiesta di Federico De Melis. Nella sua Introduzione ricostruisce le coordinate biografiche dell’autore, lingua e stile, forme metriche, temi e miti, cultura e fonti. Infine dà conto dell’impianto complessivo dell’opera, giustificando la scelta di inserire in appendice, senza rispettare la cronologia, le poesie in lingua, ripudiate dal poeta. Ha scelto di non includere, parole sue, «un apparato di pedanterie filologiche», limitandosi ad aggiungere due raccolte inedite (La tortora quinaria, confluita in parte nel poema El sol, e Taccuino inglese); riportando tutte le poesie edite nella forma data dal poeta in volume e nella struttura delle raccolte; correggendo esclusivamente i refusi evidenti, a volte confortato dalle indicazioni manoscritte dell’autore stesso sulle copie dei libri in suo possesso. Questa scelta, purtroppo, non consente di cogliere il lavoro di selezione e idealizzazione compiuto da Scataglini in Rimario agontano, l’auto-antologia curata da Franco Brevini e pubblicata da Scheiwiller nel 1987, che lo consacrò. Nella selezione, operata dal poeta, furono scartati i testi che più marcata esibivano la matrice dialettale. Quell’opera, summa dei primi tre libri in dialetto, meriterebbe una ristampa a parte.

Per scaricare la recensione in pdf, clicca qui.

Immagine di Ignazio Fabio Mazzola, XA frame2.

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