Sarebbe stato difficile desumere dalle prove più antiche gli esiti ultimi della produzione di Alessandro Broggi, così radicalmente rappresentati da Noi (Tic edizioni, Roma 2021). Il passaggio dalle prose brevi staccate e autoconcluse o dalle quartine di versi a una dimensione prosastica dalla preponderante composizione macrotestuale; la presenza di un gruppo di attanti – veri e propri personaggi – che, dotati di nome proprio, scandiscono con continuità tutto il testo; il parziale superamento di una sorta di (apparente) frammentismo per riuscire a scrivere un libro caratterizzato da un più marcato grado di macrotestualità; l’adozione – fin dal titolo – di una piattaforma ideologica che richiama una prospettiva enunciativa apparentemente unitaria (sia pur dotata di sfaccettature e caratterizzata da una focalizzazione mobile), costituiscono altrettanti corollari di una vera e propria svolta, nel percorso di scrittura di Broggi, verso una testualità orientata secondo un senso di progressione narrativa (certo continuamente sabotata) che non può non richiamare, come minimo – ma non solo – per via intertestuale, l’universo del romanzo.
È dunque un testo narrativo, Noi? Se la serie di tratti appena individuati sembra suggerire la possibilità, sia pur con le dovute cautele, di ricollegare questo testo all’universo del romanzo, è la stessa istanza di enunciazione, in un passaggio dal rilievo metaletterario, a usare questa designazione all’interno del libro: «Il romanzo inizia con un salto temporale indeterminato» (p. 11). Del resto, in una importante recensione, è lo stesso Filippo Pennacchio a sottolineare come la genesi del libro stesso radichi nell’ambito delle we-narratives (Filippo Pennacchio, Qualche idea intorno a “Noi” di Alessandro Broggi, in «La Balena Bianca», 11 ottobre 2021).
La plausibile designazione di genere rilevata poc’anzi, in ogni caso, riprende e asseconda tutta una pratica di tematizzazione del lavoro di costruzione dell’incipit:
Cominceremo parlando sinceramente: non riuscivamo a uscire per strada a causa dell’eccesso di informazioni. Ogni persona che incontravamo o che vedevamo era un nuovo mondo possibile, una biografia in corso. Ogni sguardo accidentale, il disvelamento di un suo infinitesimo stadio. Erano troppe – e continue – le espressioni distinte di volti sconosciuti da decodificare. Le modalità di comportamento, sempre differenti. I pensieri e i tracciati: imponderabili. Ogni uscita era un’avventura (p. 9).
Il libro è cadenzato da un gran numero di riprese isotopiche come quella evidenziata, normalmente di carattere metatestuale. Un’altra allusione metatestuale all’universo del romanzo («scriviamo romanzi o atlanti per sinecura») compare a p. 75; è stata interpretata da Lorenzo Mari, in modo diametralmente opposto a quanto accade nel presente testo, come una allusione per antifrasi alla natura non-romanzesca del libro (Lorenzo Mari, Forme del conflitto. “Noi” di Alessandro Broggi, 13 gennaio 2022, sul sito di Argo Libri, rubrica “Costellazioni”, sezione Forme del conflitto, leggibile qui: https://www.argonline.it/forme-conflitto-noi-alessandro-broggi/)
Gli elementi di carattere metatestuale presenti nel volume – tipici e anzi proliferanti nelle cosiddette scritture di ricerca – non conducono però a forme affini a quanto viene definito metafiction: se la metafiction era, normalmente, un modo – dal marcato carattere ironico – per recuperare spazio alla voce dell’autore, dopo il volontario inabissamento autoriale degli ultimi fuochi del tardo modernismo, qui la figura dell’autore-narratore sembrerebbe quasi completamente abolita. La metatestualità, pertanto, pare quasi costituire un complemento dell’eclissi del narratore-autore: non dà voce direttamente all’autore né consente distanziamento ironico, ma piuttosto pare finalizzata a consentire una sorta di ripiegamento del testo su sé stesso, di kenosi, di sua volontaria autoalienazione. In questa kenosi senza soggetti, in questo romanzo di gusci vuoti (come vedono giustamente i personaggi Mari e Pennacchio) può consistere allora la sinecura cui allude il narratore collettivo.
Se questo è il dispositivo cui dà vita Broggi, gli imperfetti narrativi (e il meccanismo adiettivo, a schidionata, attraverso cui sono montate le vicende) che ritmano il libro, collocando entro un orizzonte di scalarità cronologica le avventure di quattro personaggi che si spostano in uno spazio selvaggio, una sorta di wilderness, mai identificabile dal punto di vista realistico, dànno avvio a una quête di senso circa la consistenza ontologico-epistemologica del mondo. Tempo e spazio sono quindi la dimensione su cui in primis si interroga il testo: un tempo narrativo diviso tra un passato ancora inglobato nell’attualità dell’istanza di enunciazione e un presente non perfettamente databili, né perfettamente discernibili dalla dimensione del riferimento intratestuale, uno spazio diviso tra un’ambientazione urbana e una selvaggia ma non riconducibili a nessun luogo preciso, e la deissi testuale che frequentemente indica anche il libro stesso.
Come si è detto, la voce narrante si avvale della prima persona plurale e soprattutto del presente, contribuendo a dare l’illusione di una sorta di narrazione in presa diretta. Ecco un excerptum alquanto sintomatico di questa voce narrante:
Stiamo affrontando un cambio di pendenza, si sente il rumore di un torrente nascosto nell’avvallamento serrato dei pioppi, ci siamo allontanati. La giostra delle differenze ci forniva un orizzonte ritenuto definitivo, una sindrome condivisa che non conduceva a un’intensità di vita, e ai cui turbamenti seduttivi – non ci sembra difficile ammetterlo – non siamo più vincolati. Sogniamo, confusamente, di qualcos’altro (p. 11).
La formula che esprime meglio questo sforzo è: ‘un’idea di futuro’. Abbiamo contemplato una coppia di cervi grigi dall’aspetto docile, elusivo, ecco che Norberto sta diradando erbe e festuche che crescono dal suolo, a un certo punto Eleonora ha parlato con Maurizio. Non abbiamo compiuto un passo importante, semplicemente stiamo provando. Evidentemente Tania e Norberto ci hanno convinti a prendere una risoluzione di carattere permanente; mentre stabiliamo di rendere le esperienze non memorabili, rimuginiamo (p. 11-12).
Si sarebbe istintivamente portati a pensare che il noi – messo in rilievo del resto in sede di intitolazione – includa, o per lo meno alluda all’inclusione del lettore, ma in realtà non è così: l’esclusione del lettore è tanto forte quanto quella della prima persona singolare. L’esperienza di lettura, in effetti, non può essere considerata immersiva, inclusiva, o efficacemente identificativa: in realtà al contrario lavora su un mondo possibile da cui il lettore è irrimediabilmente escluso, mano a mano che i protagonisti si allontanano nello spazio selvaggio fuori dalla civiltà, allegoria in fin dei conti di come la testualità devii dalla descrizione del mondo reale per rinchiudersi in un mondo testuale a sé. Del mondo reale, il testo porta dietro solo i cascami di enunciati che ne hanno fatto parte, in plurime enunciazioni disautorializzate (e riautorializzate), ed è tutto ciò che autore e lettore hanno in comune: non è poco, ma non è abbastanza.
Il rapporto che il lettore vive nei confronti del libro è quindi in qualche modo un rapporto di alienazione. Infatti, non può far parte di quel noi pur sentendosene chiamato in causa; si trova di fronte a una compagine scrittoria che non descrive i meccanismi di alienazione, ma semmai li riproduce, e lo fa attraverso una tecnica ben precisa: tutto il libro è dominato dall’uso di meccanismi di astrazione, applicati a vari livelli.
Mentre la testualità è imperniata strategicamente su alcuni verbi di percezione o cogitandi, che presuppongono quindi l’astanza di una soggettività, che, come vedremo, si esprime esclusivamente in prima persona plurale (o in terza singolare/plurale, spostando la focalizzazione sulle azioni di personaggi isolati), continuamente il dettato testuale opera il passaggio dal concreto, a ciò che potrebbe essere considerato tale, all’astratto. L’alternanza di concreto e astratto viene realizzata in molti modi, talvolta inapparenti; e non è forse un caso che il narratore, a p. 11, non veda due cervi, ma una «coppia» di cervi. Ecco d’altronde che dalle «festuche» il narratore sposta la nostra attenzione all’idea del compimento di un «passo importante»: passo che è evidentemente astratta metafora proprio in un libro in cui i passi sono per lo più piantati sul terreno, quindi reali.
Il metaforismo di cui è condito il testo funziona appunto tutto all’insegna di questo passaggio dal concreto all’astratto; ma questo passaggio, nella misura in cui le metafore sono o spente, come la catacresi di «passo», o fortemente convenzionali, vere e proprie stereotipie (come nell’espressione «giostra delle differenze»), sembra in parte funzionare come sordina rispetto alla soggettività che si esprime nella voce narrante (che pure è espressione di un gruppo anziché di un singolo), per farne piuttosto una sorta di ipostasi della doxa di un mondo possibile a cui non abbiamo completo accesso.
La minaccia della trasformazione di ogni elemento di questa totalità parzialmente inaccessa in astrazione (all solid melts into air), all’opera continuamente e in tutto il libro, è un elemento che va a sommarsi all’uso della prima persona plurale. Anche la prima persona plurale, trasformando in collettivo ciò che normalmente è singolare, ossia l’esperienza di scrittura e lettura, opera in un certo senso una forma di astrazione; e che questa forma di astrazione sia un effetto prospettico in qualche modo anamorfico lo dimostrano anche, come vedremo, certe irregolarità nel passaggio dalla prima plurale alla terza singolare. Come scrive perfettamente Pennacchio: «Siamo abituati a pensare al ‘noi’ come a una specie di corazza pronominale, dietro a cui si nasconde una serie di ‘io’, di individui che aggregandosi cercano di farsi forza, di dare più risonanza alle proprie rivendicazioni, o più semplicemente di sentirsi parte di una comunità. Qui, invece, il ‘noi’ somiglia a un guscio vuoto, a una scorza sotto la quale non si agita alcun ‘io’».
Il libro di Broggi, dunque, pone in una prospettiva di ricerca stavolta il genere del romanzo, mantenendo la sua proposta progettuale entro il perimetro della “prosa in prosa”, e al contempo postulando un confronto con le scritture sperimentali, anche di tipo narrativo, degli anni Sessanta e Settanta. Non si può non pensare, in questo senso, a un testo come Tristano. Con questo romanzo, Noi condivide non solo il punto di partenza (ossia la realizzazione di un testo narrativo attraverso un uso pervasivo del cut-up), ma anche una lingua tutto sommato anodina, che della pratica del cut-up è per certi versi effetto. Se però Tristano procedeva nella direzione della desoggettivazione del romanzo sabotando le proiezioni e i simulacri dell’autore presenti nella scena di enunciazione del testo (si pensi al titolo, da un lato, e al nome del protagonista, C., dall’altro), Noi allude alla possibilità (ovviamente impossibile) invece di una forma di soggettivazione collettiva. Ora, il risultato più fecondo e chiaro che Broggi ottiene con Noi, per molti versi, è quello di risignificare il senso e le possibilità del cut-up, in qualche modo rimotivandone l’uso anche per quanto riguarda le sue opere precedenti. Si può in fin dei conti anticipare che Noi ha la capacità di risignificare la pratica del cut-up in una chiave ben diversa rispetto a quanto, nell’autore, poteva apparire inizialmente, ossia di unanimismo; il primo Broggi non ci dava uno stupidario dell’Italia di oggi, ma piuttosto evidenziava una volontà di unanimismo facendo risuonare in sé continue sineddochi di una voce comune, una sorta di punto di articolazione tra senso comune e un alienato general intellect, di cui si mette a risalto, come ben emerge da una recensione di Lorenzo Mari, la natura conflittuale: «il Noi di Broggi interviene all’interno di quel dissidio e lo intensifica anziché tentare di conciliarlo».
Se si pensa, in effetti, che il libro è stato scritto da uno degli autori più legati alla “prosa in prosa”, definibile per certi versi come una forma di astrazione lirica, il progetto di Noi, senza mettere in ombra la componente narrativa, acquisisce nuove armoniche. Soprattutto per la presenza massiccia, denunciata dall’autore, del meccanismo del cut-up.
Proprio il cut-up è impiegato, secondo quanto testimonia Broggi stesso, come procedura fondamentale nella costruzione del libro. Nella nota che chiude il libro, infatti, si legge:
Il dettato di Noi è quasi interamente costruito come una sottile e fitta trama di microprelievi, effettuati da testi esistenti di diversa provenienza: frasi letterali o variate, sintagmi e costruzioni mai segnalati nel corpo del testo. Chi scrive è convinto, con Borges, che “la lingua è un sistema di citazioni”, che non esista un linguaggio privato e che l’ego, in definitiva, non sia che un epifenomeno, se non un’illusione (p. 109).
Il libro si presenterebbe, oltretutto secondo la descrizione dell’unico excerptum capace di restituire le autentiche parole dell’autore – per quanto anche questo inframmezzato da un microprelievo –, come una sorta di totalizzante e unico cut-up. È del resto solo con la giustificazione ideologica fornita dalla citazione borgesiana che si può considerare un testo come Noi un esperimento narrativo fondato esclusivamente su procedimenti di cut-up riuscito e accettabile. Se si ricollega il frequente uso della catacresi o di stereotipie metaforiche (questa versione degradata, questo décalage della metafora) con la tecnica del cut-up si vede come il libro metta in atto un dispositivo unitario in cui temi, motivi, forme e modalità espressive derivano da un impianto progettuale coerente: il cut-up è evidentemente uno strumento che si basa su un meccanismo di astrazione, raccoglie soprattutto frasi ed elementi che riflettono meccanismi di astrazione, e in questo modo si converte in un frammento sineddochico del discorso contemporaneo, inteso come una totalità a cui abbiamo accesso solo in modo parziale.
Ma il discorso contemporaneo, la doxa, nella sua natura frammentata e desultoria, viene da Broggi poi piegato alla narrativizzazione di un percorso allegorico. È anzi proprio questo tratto allegorico che consente a Noi di riguadagnare le specie della narratività. Questo percorso allegorico – il racconto di una forma di alienazione tanto radicale da risolversi in una forma di unanimismo – trova però il suo punto di innesco in un meccanismo su cui è informata tutta la dinamica dell’enunciazione.
Infatti, il narratore è un narratore collettivo, che in nessun modo e momento parla da singolo, nemmeno quando lo sguardo si focalizza su un personaggio. Questa dimensione collettiva può operare la separazione di un individuo dal gruppo a livello di sguardo, attraverso la terza persona e la focalizzazione, ma non a livello di voce. Si passa dalla terza persona (con una notevole abbondanza di forme impersonali) alla prima plurale senza che si possa mai transitare su una prima persona singolare. Il narratore costituisce un dispositivo basato in primo luogo su una macchina per produrre un enunciatore (complesso), in cui testo e metatesto finiscano per coincidere, e in cui la prospettiva del singolo soggetto sia sempre e comunque inestricabile da quella del soggetto collettivo.
Un esempio può chiarire meglio. A un tratto, il narratore scrive: «Quanta intelligenza! Eleonora Whitt, Maurizio Sabona, Norberto Orci, Tania Mojeri. “Come se fossero noi”, come se fossimo loro» (p. 85). Questo brano gioca, proprio attraverso le dinamiche di embrayage e débrayage, su identificazione e disidentificazione tra personaggi, narratori(i), lettori. Continuamente, la focalizzazione isola uno di questi personaggi: non ci si può non chiedere chi sia tra loro il narratore, ossia a chi appartenga l’effetto di voicing che sembra tradurre in testo quello che a tutta prima, nella misura in cui presenta forme e vettori di immersione finzionale evidente nella mente di un soggetto singolo, è la codificazione scritta di un discorso endofasico; in fin dei conti, un narratore di questo tipo è un’astrazione che prende le mosse sempre da un soggetto individuale e singolare. Si legga ancora questo frammento: «Eleonora, Maurizio, Norberto e Tania ci svegliamo, Norberto sta scostando le sovraccoperte e intanto ha potuto distinguere le circostanze in cui ci troviamo» (p. 11). Si noti che la designazione, sia pur fornita in una modalità che può essere definita obliqua e ambigua (il libro è già iniziato da alcune pagine), mette in cortocircuito i nomi di quattro personaggi, con un presente che, per la forza di attrazione della definizione, pare trasformarsi, nell’enciclopedia del lettore, da metatestuale in narrativo. Si noti pure il carattere inusitato della frase «Eleonora, Maurizio, Norberto e Tania ci svegliamo», che sembra costruita per evitare l’impiego della prima persona singolare, fino al punto di forzare i limiti della grammatica. Se è il noi allora l’oggetto di questo libro, è invece l’io il punto cieco del testo, in un oggetto estetico costruito evidentemente secondo una attentissima pianificazione macrotestuale.
Questa attenta organizzazione macrotestuale riguarda naturalmente anche la sequenza degli eventi. Tra i personaggi, proprio la figura di Norberto incorre, da questo punto di vista, in una disavventura di cui occorre dar conto. Nella seconda metà del romanzo, si legge: «L’orso si infuria e va sotto un nevaio che sovrasta un piccolo torrente; quando Norberto sciando passa il nevaio, l’orso lo aggredisce e lo dilania sul posto» (p. 72). Poco dopo il narratore torna sulla questione: «La perdita di Norberto ha dissolto la vita per come la conoscevamo e abbiamo dei problemi a occupare il nostro tempo» (p. 76). Pochi dubbi, insomma, a fronte del termine «perdita», che Norberto sia morto. Qualche pagina dopo, in apparente contraddizione con il principio di scalarità cronologico-narrativa che sembrerebbe informare il libro, il narratore scrive: «oggi, in questa mattinata tersa, sotto ai noci ci sarà qualcuno. Con le braccia incrociate, le labbra spesse e le sopracciglia segnate, l’uomo chiamato Norberto Orci, nel cui nome come si era aperta si chiuderà questa breve rassegna di fatti, sarà seduto di fianco a noi». «Come si era aperta si chiuderà»: il narratore esibisce il suo controllo e la sua pianificazione della vicenda, ma ripresentando come vivo un personaggio già fatto passare per morto pagine prima.
La morte di Norberto, dato il carattere d’enigma della vicenda (che sottace una quantità di informazioni necessarie a decodificare positivamente una simile contraddizione) di tutta la narrazione parrebbe anzitutto allegoria dell’incontro traumatico con il reale della natura. Ma questo incontro non cancella la presenza del personaggio nel testo, all’insegna di un futuro che non si capisce se caratterizzato da una modalità epistemica o meno. L’incontro conclusivo con Norberto, che dovrebbe in qualche modo segnare la fine dell’astrazione, in realtà è ancora parte di una pianificata astrazione, nella misura in cui la morte di Norberto pare sussunta dal meccanismo narrativo del libro, con il suo valore allegorico. Questa allegoria, in fin dei conti, sembrerebbe tematizzare la resistenza che il reale sempre oppone alla nostra capacità di addomesticamento, da un lato, e dall’altro il fatto che i processi di astrazione e rimetabolizzazione culturale sempre ricominciano anche di fronte al trauma del reale.
Vale la pena di leggere per intero l’explicit:
Da qualche tempo, forse da qualche istante, un uomo è seduto al tavolo dove ha l’abitudine di leggere i suoi libri; sta mormorando qualcosa a una donna, davanti ha un quaderno aperto. L’ambiente planetario, il paesaggio caratterizzato da un’eterogeneità spaziale su tutte le scale, l’incontro con il luogo – non siamo mai senza esperienze collocate da qualche parte –, il nostro tempo e quelli della flora e della fauna, quello astronomico e quello geologico. «Che cosa dici?», «Tu, che cosa dici?» Quale sia il punto non raggiunge la presenza. “Sollevano e riabbassano la loro maschera di scimmia”, c’è qualcosa da sapere? Al più questo intreccio di percorsi ci preparerà – noi speriamo – a perderci tra la folla. Sporadicamente qualche stella brilla attraverso le fronde dei noci: brucia gli occhi. Non abbiamo bisogno di sapere, ci sentiamo pronti per ridere; è quasi ora. Su, ce ne andiamo (p. 106).
Difficile non considerare l’ipotesi che l’uomo seduto al tavolo sia un’ipostasi del narratore-autore; che una sententia come « Al più questo intreccio di percorsi ci preparerà – noi speriamo – a perderci tra la folla» non racchiuda in sé il senso allegorico del romanzo stesso; e che la frase finale non raddoppi attraverso una pratica di mise-en-abyme il movimento di conclusione stesso; come se il romanzo si chiudesse attraverso questo perdersi nella folla, o anzi fosse una concrezione narrativa, nel suo essere somma di mille voci disautorializzate, proprio di questa forma di unanimismo che è il perdersi nella folla. Il libro non contiene quindi una allegoria, ma risulta bensì un autentico romanzo allegorico, in cui le varie stazioni dei personaggi rappresentano momenti diversi che rappresentano il rapporto dell’uomo con la vita, intesa come impasto di un mondo di parole e un mondo di fatti («breve rassegna di fatti»).
La simulazione di enunciazione collettiva che mette in evidenza la scrittura di Broggi, allora, questa sorta di adynaton, mentre segue precisamente tutti i vissuti dei protagonisti, persino in proiezione futura, lo fa senza mai astrarre la posizione di un io che si faccia carico di questi vissuti:
Proprio vicino a noi alcuni corvi raggruppati su un ramo stanno piombando giù per catturare i rospi di uno stagno. O forse potremmo aver già registrato il modo in cui i falchi artigliano i pipistrelli non appena escono dai rifugi diurni. Ne prendiamo nota mentalmente senza rendercene conto. La luce è rada nel folto; quando il nostro senso della posizione è lasciato libero di vagare, perdiamo l’orientamento. Prima che cada nuovamente la notte ci siamo arrampicati su un grande tronco, per ottenere una vista panoramica, Norberto ci ha indicato il punto dove trascorreremo il prossimo sonno. Improvviseremo giacigli di strame nei campi dismessi di miglio o di barbabietole, ci coricheremo nel provvisorio. Eleonora guarda con insistenza, Maurizio osserva spasmodicamente, Tania spalanca gli occhi nel buio, le pupille si dilatano (p. 50-51).
Si potrebbero addirittura rilevare tratti lirici, in questo passaggio, che mette in scena vissuti e percezioni foriche e disforiche. Ma l’enunciazione ha un carattere di paradossalità, nella misura in cui a dominare con onniscienza i sensi e le sensazioni di ciascuno dei personaggi è sempre un noi, mai un io. Ora, è evidente che tutta la serie degli istituti che Broggi attribuisce a questa postazione enunciante collettiva è nata, storicamente, per rendere conto ed esprimere solo posizioni individuali e soggettive. L’assenza dell’io, allora, si fa flagrante.
È in questa assenza che consiste la natura paradossale del particolare trattamento che, degli aspetti enunciativi, Broggi realizza, attraverso focalizzazioni esterne incastonate in una narrazione omodiegetica. Se è impossibile in qualche modo dire noi senza dire io, allora, l’espulsione, quasi la forclusione dell’io, comunque la sua scotomizzazione, l’io come punto cieco del noi, però, non è che la pars destruens, di questo testo. C’è una pars construens.
Che consiste proprio nell’allegoria: se il libro è di fatto costruito su una contrainte formale molto forte (non lasciare mai spazio all’io e ai suoi sottoprodotti), l’elemento che produce nel lettore le inferenze necessarie per il riconoscimento dei procedimenti allegorici è proprio l’eliminazione e l’assenza dell’io. È allora la stretta articolazione formale, basata su narratività e finzionalità, che riscatta i temi in una chiave allegorica. A rendere allegorico il libro è proprio l’articolazione delle forme, le ellissi, il suo taglio enunciativo paradossale. A fronte di ciò, questo uso ideologico della dimensione enunciativa del noi non può che esplicare un fine lato sensu politico. Un senso politico che si ritraduce, ovviamente, a livello tematico, nella dimensione del paesaggio naturale. E in particolare del paesaggio naturale di tipo boschivo; la prospettiva collettiva su cui sembra informato il libro è esemplata in verità, a immagine e somiglianza della figura della foresta, che acquisisce a questo punto un senso di disvelamento allegorico:
Dà ora forma alla nostra vita sociale e concettuale una copertura arborea relativamente fitta, ma potremmo anche accorgerci che percepiamo il paesaggio come un continuum, visibile ai nostri occhi e comprensibile per le nostre menti, perché e nella misura in cui vediamo e intendiamo solamente la nostra scala di aderenza, solo dal nostro punto di vista, il resto rimane inavvertito (p. 17).
Il paesaggio come un continuum, l’enunciazione, la vocalità come continuum, l’io, il punto di vista come interruzione. Che resta in quelle parti del testo in cui sono situati i bianchi, le cesure, che non possono essere in nessun modo riportati se non all’autore. Non è un caso che l’indice del libro sia in realtà l’indice delle quattro cesure che lo sequenziano. Ecco allora che non ha senso mettere in scena il punto di vista dell’Io perché in verità l’io è dato dalle forme della nostra interruzione di un flusso e contesto costituito dal mondo come somma di eventi che ci attorniano e ci abitano:
Questo nostro camminare produce abitudini mentali, posture, pregiudizi, conoscenza. Crediamo realmente alla sequenza di ciò che facciamo, tutto quello che vediamo esiste. Ogni nostra costruzione deriva dall’essere al mondo in un luogo e in un modo particolare. In ogni momento descriviamo lo spazio e il tempo a partire dalla nostra posizione (p. 16).
Ma il senso della nostra embricatura nel mondo, però, si spinge oltre, in questo libro: il mondo è il suo limite e insieme lo sfondamento del limite. In questo senso, il cielo è proprio la perfetta allegoria della nostra coappartenenza al mondo, del mitsein. Di fatto, il mitsein non è altro che pura compossibilità, che non arriva a produrre l’uscita dall’isolamento e la negazione della natura monadica del soggetto umano. Ma proprio per questo, proprio lo spazio della compossibilità è anche lo spazio di una possibilità di comunità. Il cielo così è davvero al medesimo tempo ciò che è impossibile da toccare e ciò in cui siamo immersi dal momento stesso che respiriamo (respiriamo cielo, ossia aria). Contraddizione che il libro rappresenta in forma dialettica in una serie di passaggi del testo dedicati al cielo:
Nessun albero arriva a toccare il cielo (p. 61).
Ogni volta che possiamo contempliamo l’azzurro del cielo oltre le nuvole; il cielo non è un oggetto, possiamo immergervi lo sguardo ma non possiamo guardarlo, continua all’infinito, i sensi diventano inutili (p. 100).
Sopra, sotto, incontro – più è lento, più siamo presenti: il tragitto non è lungo, a che altezza inizia il cielo? (p. 102).
Fuori dall’immobilità e dal movimento, un cambiamento di vibrazione, ogni volta che alziamo il piede da terra camminiamo davvero nel cielo (p. 103).
Ecco allora che in un libro che è tutto fondato su forme diverse di alienazione attraverso l’astrazione (alienazione dell’io, in primis; alienazione del e nel linguaggio; alienazione attraverso la forma), proprio la massima astrazione, qualcosa che non esiste e che pure è così immensamente incombente, rispetto alle nostre vite, si trasforma allora anche nello spazio precipuo della convivenza. Incredibilmente, l’interpassività così alienante delle nostre condizioni è anche la forma prima dell’intersoggettività. È nell’astrazione che consiste la nostra possibilità di essere un noi.
Paradossale forma di partage des voix, ma anche di espaces, la domanda che attraverso il suo libro Broggi si pone, ossia a che altezza inizia il cielo, è traducibile allora in una domanda equivalente: a che punto inizia(mo) Noi? Cielo e Noi, quindi, in questo libro, si trasformano nel luogo senza luogo che custodisce insieme il non poter essere altro dal mondo, il non poter essere altro che (l’)altro, e la radicale e necessaria, nel suo unanimismo, possibilità della coappartenenza. In questo senso, con questo libro, forse Broggi ha scritto il suo capolavoro, la sua piccola e (im)personale Ginestra.
Per scaricare la recensione: La prosa in prosa del mondo: Su Noi di Alessandro Broggi – Gian Luca Picconi
Immagine: Orecchie d’asino, Pane quotidiano
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