Pubblichiamo qui un estratto dal secondo capitolo del saggio di Daria Catulini, L’infinito proliferare dell’essere – Poesia e immaginario in Andrea Zanzotto edito per Carocci (2021).
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L’immaginario vegetalistico
2.1
Un’idiota fioritura
Uno degli approcci possibili al ricco corpus zanzottiano consiste nell’adottare una prospettiva duplice, proprio come quella individuata dall’autore per interpretare parte della poesia novecentesca. Infatti, si potrebbe parlare di polo infero e supero, di inabissamento e riemersione verso atmosfere più rarefatte; di un raggrumarsi della parola attorno alle immagini della terra e del fango, così come di una parola sradicata, che esplode in fioriture, raggiere, gemmazioni.
Se da una parte il logos viene delineato da Andrea Zanzotto (1999a, p. 543) come «riversato entro la terra», dall’altra l’idioma si «trabocca» dall’«eccesso di privatezza» in cui è intrappolato e si apre in una «singolarissima fioritura» (ivi, p. 811).
Una disamina del linguaggio metaforico zanzottiano porta all’individuazione di due movimenti, uno centripeto, l’altro centrifugo. Se quello centripeto caratterizza in particolare la produzione poetica fino a Idioma, ed è volto alla ricerca di un centro concepito come «la parte più ignea della realtà», quindi come nucleo di verità o autenticità, quello centrifugo ribalta con ironia tale atteggiamento e scardina la centralità dell’io-soggetto. Si può sostenere che al polo implosivo «fa da contraccolpo una raggiera in cui la parola sale dall’abisso ed elabora una propria vita»; all’idea dell’«implosività», nozione connessa al modo di concepire l’idioma da parte di Heidegger, Zanzotto contrappone i «fiori più o meno inquietanti, più o meno spinosi, dell’infinito proliferare dell’essere», come si legge nella prosa Tra ombre di percezioni fondanti (appunti) (1991,p. 1341). Il limite che Zanzotto scorge nelle considerazioni di Heidegger sul linguaggio è, come si è detto, la difficoltà ad ammettere l’inesistenza di un fondo. Sarebbe «lo sgomento del senzafondo» (ibid.) a determinare, secondo il poeta, l’idolatria che il filosofo nutre nei riguardi del fatto linguistico, dell’«idiomaticità pura» (ibid.). Per avere un’idea di come l’immaginario zanzottiano si muova tra un inabissamento geologico (interramento) e un impulso allo sradicamento da un nucleo («grumo»,«bozzolo») supposto come originario, bisogna tenere in considerazione lo scritto Premesse all’abitazione del 1963, dove l’atto dello scrivere viene equiparato a «un modo di essere», che non è né «secrezione» né «escrezione», bensì un «cemento (o si crede un cemento) che per sisma sbalzi da strati; è un dato che al fondo di tanto stare e muoversi arriverebbe allo spogliarsi lucido e completo di un grumo, di un nodo» (Zanzotto, 1999a, p. 1028). Stando a questa prima dichiarazione, si potrebbe trovare una consonanza con quella ricerca di un fondo-origine che l’autore imputa ad Heidegger, ma se si segue l’argomentare di Zanzotto, che si riassesta continuamente non solo negli anni ma anche nell’arco di una stessa prosa, si constata che l’atto dello scrivere viene immaginato come un «ridursi a realtà filata ma compatta senza più nulla al centro, che tuttavia sarebbe di un nulla “infinitamente definito”» (ibid.). Scoperto il vuoto dentro l’involucro, Zanzotto si iscrive in una linea che alcuni critici hanno definito antiplatonica. A proposito di Sovrimpressioni (2001), ad esempio, Nicola Gardini (2001, p. 19) parla di «procedimento antiplatonico» per indicare quel particolare processo di fabbricazione dell’immagine in seguito al quale quest’ultima si dà come il «vuoto dentro la crosta dei segni».
L’impossibilità di ipotizzare un centro come origine della parola va di pari passo con un’idea di inattingibilità, simbolizzata spesso da lacune e vuoti, immagini che infoltiscono quell’universo figurale caratterizzato da «molteplicità centrifuga» e «fluidità eraclitea», espressioni impiegate dal critico Modeo (1996, p. 37) per definire i movimenti sottesi alla silloge Meteo (1966), ma applicabili a tutta la seconda fase della produzione zanzottiana.
Punto centrale del percorso zanzottiano è Idioma (1986), terzo momento della trilogia iniziata con Il Galateo in bosco (1978) e continuata con Fosfeni (1983). In questa raccolta è evidente il mutamento di prospettiva dinnanzi al fatto linguistico. Come afferma Stefano Agosti (1999, pp. XLIII-XLIV), in Idioma «i termini della situazione linguistica in atto – l’Io, il Mondo – risultano depositari di statuti in contrasto». Si tratta di un per-corso che poi troverà sviluppi nelle raccolte Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), dove è possibile constatare un «fatto decisamente straordinario»: «lo spostamento della posizione del Soggetto rispetto al proprio universo di discorso» (ibid.). Per aver contezza del modo in cui Zanzotto intenda l’idioma e di come tragga ispirazione dal mondo botanico per simbolizzare il rapporto tra il dire e l’essere, occorrerà leggere la nota scritta dall’autore come introduzione alla raccolta Idioma:
Idioma: è da intendere secondo ogni diffrazione etimologica e oltre, dalla pienezza del parlare nascente e incoercibile come singolarissima fioritura, fino al polo opposto della chiusura nella particolarità per cuisi arriva al lemma «idiozia». Lingua, lingua privata, fatto privato e deprivante; eccesso di privatezza equindi di chiusura-privazione-deprivazione. Enfasi di particolarità: ma anche, al contrario, mezzolinguistico tutto inteso al traboccarne fuori (Zanzotto, 1999a, p. 811).
Il linguaggio – nella sua accezione più ampia – viene immaginato da Zanzotto o come un sistema chiuso, alimentato narcisisticamente, che è il rischio contro cui ogni poeta deve fare i conti, o come qualcosa che tende a traboccare fuori verso un altrove, dimensione qui comunicata attraverso la metafora della singolarissima fioritura.
L’illusione di “possedere” la Natura con la parola poetica, colpa che Zanzotto si rimprovera costantemente, fa sì che paesaggio e sintassi siano in una prima fase reversibili (si pensi a Dietro il paesaggio o a Vocativo: abitare il paesaggio equivaleva ad abitare nella lingua, dimorare equivaleva a poetare). A partire da Idioma, come testimoniato dalle prose e dai saggi coevi, si verifica un’incrinatura che fa scricchiolare l’intero edificio del- le equazioni precedentemente stabilite. Definito attraverso i termini del linguaggio botanico, l’idioma non è più «radice dell’essere» o «fondamento strutturale dell’uomo» come si legge nella prosa Infanzie, poesie, scuoletta del 1973, ma una «fioritura» destinata a «traboccare fuori», un fenomeno in espansione e in movimento verso quella che nel testo Nix Olympica, appartenente a Idioma, è definita «lateralità» […]. All’interno della cosmogonia del linguaggio zanzottiano una posizione mediana spetta al dialetto, inteso come «assoluta libertà» (1999a, p. 541), come «terreno vago in cui langue e parole tendono a identificarsi, e ogni territorialità sfuma in quelle contigue» (ivi, p. 543). Così si legge nella nota introduttiva a Filò, in cui Zanzotto narra la genesi della breve silloge in cui campeggia il dialetto, percepito come tema insistente che si è incarnato in una riflessione più elaborata grazie all’incontro con il cinema di Federico Fellini, per il quale Zanzotto compone un testo in dialetto veneto con la funzione di accompagnare le immagini di quel misterioso rito compiuto da una gigantesca madre mediterranea in apertura del Casanova. Secondo la volontà di Fellini, la cui lettera viene riportata in Filò, il compito di Zanzotto era quello di restituire «freschezza» (ivi, p. 465) ad un dialetto – quello veneto – ormai divenuto opaco e stucchevole. Così, il desiderio di Fellini incrociava quello di Zanzotto lungo una traiettoria che avrebbe portato quest’ultimo a concepire la lingua dialettale come metafora di ogni «eccesso, inimmaginabilità, sovrabbondare sorgivo o stagnare ambiguo del fatto linguistico nella sua più profonda natura» (ivi, p. 542). La convinzione che il dialetto rappresenti una zona di libertà incondizionata è il fatto da tenere presente per visualizzare con una maggiore ampiezza di prospettiva il rapporto di Zanzotto con il linguaggio e – naturalmente – con la poesia. Dialetto e poesia, infatti, si pongono come luogo di un «logos che resta sempre “erchomenos”, che mai si raggela entro un taglio di evento, che rimane “quasi” infante pur nel suo dirsi, che è comunque lontano da ogni trono» (ivi, pp. 542-3). Come affermato da Giorgio Agamben (2010, pp. 101-2), il logos zanzottiano è anzi da intendersi come l’elemento messianico per eccellenza, sempre erchomenos, sempre a monte e in annuncio di sé, sempre sopravveniente in un non-luogo: «Certo il fatto linguistico, in quanto luogo messianico, è per Zanzotto luogo di sfacelo e di catastrofi, in cui l’esperienza del dialetto […] agisce sfaldando e disgregando la lingua e obbligando il poeta a spezzare aprosodicamente il suo canto (come gli ultimi inni hölderliniani cari a zanzotto)» (ibid.).
2.2
«L’albero che non c’è»
Come il precedente paragrafo ha anticipato, il vegetalismo – inteso come l’insieme delle immagini appartenenti al regno vegetale – non è semplice- mente un motivo ricorrente ma un elemento fondante della produzione zanzottiana. Oltre ad informare di sé numerosi testi poetici, esso si pone come uno dei pilastri metaforici sia delle costruzioni saggistiche sia delle dichiarazioni di poetica. Infatti, se si considerano gli interventi dell’autore sulla trilogia, si constata che più volte Zanzotto è ricorso in una maniera quasi enigmatica a una metafora arborea. Come confermato anche dallo studio degli autografi del poeta da parte di Francesco Venturi (2011, pp. 79- 80), la metafora arborea viene impiegata una prima volta a ridosso dell’u- scita del Galateo (1978); una seconda in un autocommento del 1980 dove Zanzotto (1999a, p. 1234) dichiara: «su questa tripartizione è basata quel- la che ho annunciato come una pseudotrilogia, che forse non riuscirà mai a comporsi e in ogni caso corrisponde a tre rami di un albero che non c’è: forse questi rami esistono ma non si sa bene dove si congiungano». Inoltre, come suggerisce correttamente Venturi, bisogna citare la dichiarazione risalente all’aprile del 1986, a ridosso dell’uscita di Idioma: «Bisogna immaginare che non di vera trilogia si tratta, cioè di una successione di momenti, ma di una specie di campo rotante in cui i tre libri sono iscritti […]. Questo per dire che dovremmo vederli come tre rami di uno stesso albero inesistente, che comunicano tra loro in qualche punto» (ivi, p. 1730).
Questa immagine arborea cara a Zanzotto ha un sostrato filosofico ben preciso e forse non immediatamente congetturabile: il libro Rizoma di Gilles Deleuze e Félix Guattari, uscito nel 1977 nell’edizione prefata da Jaqueline Risset, la stessa recensita da Zanzotto su “Libera stampa” nel marzo del 1978. Così Risset in riferimento alla scelta dei due autori:
Un rizoma è un gambo, o fusto sotterraneo, un vero paradosso vegetale. Sceglierlo come metafora principale della nuova pratica di linguaggio e di analisi vuol dire (esplicitamente neltesto) ripudiare sia l’albero, simbolo consacrato della produttività verticale e normale (normativa), sia la radice, figura di ogni origine e fondamento (Risset, 1978, p. 7).
Zanzotto sembra voler quindi esprimere l’impossibilità del “libro-radice”, etichetta con cui Deleuze e Guattari designano il libro classico in quanto «l’albero è già l’immagine del mondo, o meglio, la radice è l’immagine dell’albero mondo» (ibid.). In riferimento alla metafora arborea – ma il discorso vale anche per altri temi zanzottiani – si può parlare di un modus operandi basato su un sistema di riprese di cui Zanzotto discute già nel 1968 in un’intervista sulla Beltà, quando allude all’interscambio mobile con i libri precedenti. Nello specifico, tra le varie raccolte sussiste «un’interrelazione osmotica», base per «un’incessante ritorno sui me- desimi luoghi e temi» e per le «continue riletture degli stessi palinsesti con esiti ora metapoetici ora di distanziamento» (Venturi, 2011, p. 80).
Un approccio che voglia accostarsi alla poesia tenendo in considerazione la storia della filosofia non può trascurare di fare riferimento a Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (Deleuze, Guattari, 2014), di cui Rizoma fu un’anticipazione e in seguito il primo capitolo. L’opera, infatti, toccando i campi di sapere più svariati, come quello scientifico, filosofico e matematico, si presentava – e tutt’ora si presenta – come testo attualissimo in grado di fornire delle chiavi con cui accedere alla struttura retinica della contemporaneità. Come Deleuze e Guattari fondono archetipologia generale e lessico scientifico, causando un’evoluzione nel discorso filosofico ma anche nella poetica dello spazio, allo stesso modo la poesia di Zanzotto offre delle immagini poetiche che, sconfinando dal campo letterario in innumerevoli altri settori, si offrono come allegorie filosofiche o come fotogrammi di un pensiero in perenne movimento.
Come mette in luce Michael Hardt, la critica di Deleuze e Guattari alle strutture a radice rende evidente i limiti dei vari “fondazionalismi”, i quali poggiano su una «concezione idealistica del fondo necessario ed eterno che sta alla base degli sviluppi epistemologici, ontologici e infine etici» (Hardt, 2016, p. 234). Una posizione non dissimile era sostenuta da Zanzotto quando rintracciava i limiti della filosofia heideggeriana nello scritto Tra ombre di percezioni fondanti (appunti), facendo notare al lettore l’attaccamento morboso del filosofo tedesco all’immagine – e al pensiero – del fondamento. Proprio in questo senso – conclude Hardt commentando Deleuze – i termini “fondamento” e “terreno” (grounding) si rivelano inadeguati per inquadrare la filosofia post-strutturalista, essendo essi delle metafore organiche che nascondono tutti i problemi di un or- dine predeterminato (ivi, pp. 234-5). Del resto, Heidegger stesso sembra avvertire la difettosità di un’immagine come quella della radice quando, nel seminario del 1973, affermava che neppure l’“esser-ci” sarebbe la radice dell’uomo. Anzi, «il concetto di radice rende impossibile portare al linguaggio il riferimento dell’uomo all’essere» (Heidegger, 1992, p. 166). Se si trasla il discorso sulla poetica zanzottiana, si comprende il meccanismo per cui «l’infinito proliferare dell’essere» (Zanzotto, 1999a, p. 1341) venga figurato attraverso una simbologia che si pone in contrasto con le immagini – parimenti presenti – della terra, del fango, del sottosuolo. L’idea di interramento e impaludamento formano, nell’immaginario zanzottiano, un polo opposto rispetto a quello in cui l’essere si mostra nella sua produttività e nel suo vitalismo.
Per comprendere la valenza filosofica della poesia di Zanzotto, come anche la pregnanza metaforica degli elementi vegetali, bisogna risalire alla raccolta Il Galateo in bosco, ispirata ad uno spazio geografico ben preciso, cioè il bosco Montello, luogo scelto un tempo da Giovanni della Casa per l’elaborazione del suo Galateo. Il titolo della raccolta, non di immediata decodificazione, fa riferimento a più livelli di significato: da una parte c’è il bosco, che si offre come deposito e campionario di vari aspetti del reale, come i resti dei picnic e le ossa dei soldati della Prima guerra mondiale; dall’altra, c’è un discorso metatestuale che coinvolge la questione della tradizione o del canone, di cui il Galateo di Della Casa è simbolo. Andando a valutare il piano simbolico del bosco, si scopre allora che esso si pone come immagine-luogo che resiste ad ogni tentativo di codificazione e razionalità, fino a diventare fonte di nutrimento per la poesia stessa e a rappresentare quel magma oscuro da cui nasce l’ispirazione poetica.
Per scaricare il saggio in PDF: Daria Catulini, L’infinito proliferare dell’essere.pdf
Immagine: Martina Yara Pasquali, Ciò che rimane, 2019