Pubblichiamo alcune lettere dal volume Lettere a Giovanni Giudici (1955-1962) edito per San Marco dei Giustiniani (2021), a cura di Francesca Colombi, con un’introduzione di Simona Morando. Ringraziamo l’editore e la curatrice.
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Le lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanni Giudici raccontano la storia del rapporto tra due poeti, ma prima di tutto tra due uomini.
Da una parte c’è il giovane Giudici, trentunenne all’altezza dell’inizio del carteggio, già autore di due raccolte poetiche ma ancora alla ricerca di una propria identità letteraria, di propri maestri, di una propria impronta; dall’altra parte c’è invece l’anziano Sbarbaro, che non solo aveva già vissuto il proprio periodo d’oro nella prima parte del Novecento (preminentemente con le pubblicazioni di Pianissimo nel 1914, e di Trucioli nel 1920), ma che si era anche già ritirato dalla scena pubblica da tre lustri, conducendo una vita dimessa nella quiete di Spotorno con la sorella Lina. Sbarbaro dal 1940 al 1955 infatti non scrisse più una riga di proprio pugno, dedicandosi esclusivamente all’attività di traduttore, poiché pensava di non aver più nulla da dire e poiché, come emerge anche da queste lettere, riteneva che lo scrittore non dovesse forzare la propria vena artistica ma dovesse accogliere anche la possibilità di una lunga e necessaria, se così si può dire, afasia compositiva.
Proprio nel periodo di questo scambio epistolare interviene però un altro giovane interlocutore, ossia l’editore Vanni Scheiwiller, che fa vivere a Sbarbaro una seconda giovinezza poetica e prosastica, invitandolo a scrivere cose nuove e a pubblicarle con lui.
Giudici nel giugno del 1955 bussa alla porta di Sbarbaro presentandogli la sua ultima silloge poetica, La stazione di Pisa, cercando dall’affermato scrittore consigli circa il suo operato ma, a dispetto delle previsioni, non riceve le correzioni che si sarebbe aspettato di trovare: il poeta di Spotorno nel corso del carteggio ripete infatti più volte di non avere nessuna attitudine critica, di non essere in grado di fornire responsi dalla validità oggettiva, ma di poter offrire solo pareri personali, sganciati dal giudizio dall’alto che da un grande autore ci si potrebbe attendere.
Giudici è allievo e figlio, Sbarbaro è maestro e padre, e i suoi consigli sulla letteratura e sulla vita sono scorci intrisi di poesia e commovente affetto sincero.
La comunicazione tra i due personaggi è inoltre occasione per indagare il panorama letterario del tempo, con i protagonisti, i premi, le opere, le simpatie e le antipatie degli interlocutori non esternate pubblicamente ma solo in questo piccolo contesto d’intimità.
Giudici non dimenticherà mai Sbarbaro, ma continuerà a scrivere di lui fino al 1989, sottolineando sempre la sua umiltà, la sua ritrosia nel giudizio, la sua secchezza dichiarativa che gli faceva dire le cose col loro nome: il suo maestro, per le affinità che vi erano tra loro, per la vicinanza che sentiva di avere con lui, era divenuto un suo coetaneo.
Francesca Colombi
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2.
[Spotorno, 6 giugno 1955]
Caro Giudici,
ricevo ora la sua lettera, commovente. Come si vede che lei è giovane, per dire delle cose così grosse! ma sento che sono anche sincere e la ringrazio.
Non s’aspetti da me un giudizio motivato sulla sua poesia; in fatto di critica, io sono un “innocente”. Ho letto (e riletto già una volta) il suo libro e le basti sapere che mi è piaciuto.
Lei salpa; io sono da molto (troppo) tempo entrato in porto. Dal 40 non leggo più (quasi) che i libri che traduco. Sono fuori di tutto; ed anche le notizie che mi interessano mi arrivano – e per caso – con giorni di ritardo. Come svago, qualche “punta” qui nei dintorni, nei paesini della mia – nostra – cara Liguria: e, come saprà, il mio1 hobby (in questo momento, non so se si scriva così)2 per i licheni che riempie tante ore vuote e che perciò benedico.
Le rinnovo i miei auguri ed i miei ringraziamenti. (Ma se ha ancora occasione di scrivermi, non mi tratti di “illustre poeta”, che è come un pugno negli occhi).
suo riconoscente
CSbarbaro
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Lettera manoscritta a penna nera stilografica sulle due facciate di un foglio molto sottile tagliato a mano lungo un lato. Busta formato C6 strappata sul lato superiore, con indirizzo: «Giovanni Giudici | Roma | via Tripolitania 195». Timbro postale di partenza: «Spotorno, Savona, 6.6.55». Timbro postale di arrivo: «Nomentana, Roma, 8.6.1955»
Già pubblicata in BC, pp. 250-252.
1 Il mio] la mia cass.
2 in questo momento, non so se si scriva così] agg. in marg. e collegato mediante freccia al testo. Parentesi tonde mie
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Come si vede che lei è giovane: Giudici avrebbe compiuto dopo pochi giorni, il 26 giugno, 31 anni, mentre il poeta di Spotorno ne aveva a quest’altezza 67: l’aggettivo giovane demarca una consistente differenza d’età (che riguarda anche un altro interlocutore sbarbariano, Vanni Scheiwiller, ventunenne nel 1955) e, agli occhi di Sbarbaro, una certa ingenuità nel giudizio, che capiamo elogiativo, nei suoi confronti. L’atto di umiltà sbarbariano è una sorta di topos rinvenibile nel suo approccio iniziale con il destinatario di questo e di altri carteggi. Si confrontino a proposito la prima lettera di Camillo Sbarbaro ad Enrico Falqui: «Il mio parere conta ben poco nel “regno” com’Ella scrive “del Parnaso”» (LSF, p. 15, 29 maggio 1928) ed il responso a Giorgio Caproni sulla recensione a Rimanenze e a Fuochi Fatui, gradita ma forse – dice – immeritata. (LSC, p. 41, fra il 16 dicembre 1956 e il 20 aprile 1957).
A proposito degli incontri di Sbarbaro con le nuove firme del panorama letterario, destinati a smuovere l’irenico ambiente di Spotorno, Federica Merlanti afferma: «Impugnate dalle nuove generazioni di critici e poeti come una “bandiera” con la quale opporsi all’esperienza “già in crisi, delle generazioni precedenti”, la poesia e, insieme, l’immagine di Sbarbaro attraversano letture assai diverse e con esse, come anticipato, sferzano talvolta di “ebrezza” la gelosa quiete di Spotorno. Tonici, senza dubbio, furono gli incontri con quelle di Giorgio Caproni e di Giovanni Giudici, come vuole la lettera che descrive l’impazienza di Godardo e i festeggiamenti con gli asparagi alla scoperta della prima, nel 1960, e come testimonia il dialogo avviato con il secondo nel 1956» (Immagini di Sbarbaro nel Novecento, in Atti 2007, p. 114). In realtà la corrispondenza con Giudici iniziò nel 1955.
non mi tratti di “illustre poeta”: La clausola della lettera, con la richiesta di Sbarbaro di non essere trattato più da «illustre poeta», è ancora un emblema della modestia di Sbarbaro. Benedetta Centovalli scrive a questo proposito: «Quanto all’“illustre poeta”: “I titoli onorifici: lapidi su vivi”, scrive Sbarbaro in Scampoli, in «Il Mondo», Roma, a. VIII, n. 48, 27 novembre 1956, p. 12» (BC, p. 256). Sulla marcata timidezza di Sbarbaro e sulla sua ritrosia verso qualsiasi appellativo ritenuto celebrativo, discute Carlo Bo in un articolo uscito su «L’Europeo», in cui lo scolaro presenta il suo professore: «Quando frequentavo il liceo a Genova capitò un giorno in classe un nuovo professore di greco che veniva a sostituire il vecchio insegnante ammalato: noi studenti ci trovammo di fronte un uomo timido, un uomo che sembrava annoiato di fare quel mestiere nonostante mettesse nel proprio dovere un impegno quale fino a quel momento non ci era dato di osservare in nessun altro […] Quella scontrosità, quel riserbo non era frutto di un calcolo o posa ma tradivano una natura segreta di poeta, una capacità di riportare le cose del mondo al di fuori della commedia e del divertimento […] L’unica preoccupazione di Sbarbaro era ed è quella di non fare, non apparire “scrittore”: ricordo le sue risate per chi lo chiamava “maestro” e la sua abitudine di regalare libri ricevuti in omaggio, insomma la sua netta opposizione verso ogni forma di vita letteraria organizzata» (Bo 1955).
Lei salpa: La metafora proviene dalla letteratura classica (si veda ad esempio l’ode oraziana 14 del libro I, Dante e la «navicella del mio ingegno» di Purgatorio I, o le Rime d’amore tassiane). La nave in partenza evocata per rappresentare Giudici, all’inizio di una carriera, viene descritta come ormai entrata in porto per quel che concerne Sbarbaro. Ciò però non è del tutto vero, poiché dal 18 gennaio del 1955 era in corso con Scheiwiller la preparazione di un libretto che contenesse alcuni antichi versi sparsi, Rimanenze, stampato il 23 settembre del medesimo anno (vedi infra).
Dal 40 non leggo…: Vera è invece l’assenza del poeta dalle cose letterarie, escluse le traduzioni, dal 1940: l’ultimo titolo sbarbariano prima di un lungo silenzio durato quindici anni fu pubblicato proprio in quell’anno, e fu Calcomanie 1914-1937, opera autoprodotta in seguito alla mancata pubblicazione nel 1938 da Vallecchi per la censura del Ministero della Cultura Popolare.
Il silenzio di tre lustri è confermato anche dalla lettera incipitaria di Sbarbaro a Scheiwiller: «ero fuori, sì, quando Lei mi scrisse; ma al ritorno trovai la Sua lettera. Solo, non sapevo che rispondere; da troppi anni mi occupo d’altre cose» (LSS, p. 32, XI/’54) e fu interrotto sicuramente dalla pubblicazione di Pianissimo per Neri Pozza nel 1954 (comprendente le poesie del 1920 e del 1954), ma soprattutto da Rimanenze (contenente i cinque componimenti dei Versi a Dina pubblicati nel primo numero di «Circoli» nel 1931, la Lettera dall’osteria uscita nel 1915 su «Riviera Ligure», cinque poesie ritrovate in un quadernetto da Elena Vivante, tra cui Voze che sciacqui al sole la miseria, del 1921, tre poesie del numero di «Primo Tempo» del 15 ottobre 1922, ossia Scarsa lingua di terra che orla il mare, Scapitozzan gelsi; batton cerchi, Donna ferma sul canto della via e poi La bambina che va sotto gli alberi uscita su «Circoli»nel 1933), la cui prima edizione risale al 1955, come detto, e la seconda al 29 giugno dell’anno successivo. Rimanenze sancì l’inizio di una collaborazione, quella tra Sbarbaro e Scheiwiller, che durò fino alla morte del poeta.
i libri che traduco: Le traduzioni sbarbariane, che videro lo scrittore impegnato in particolar modo dagli anni Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta, furono le seguenti: Gustave Flaubert, Salammbô (Torino, Einaudi, 1943); Sofocle, Antigone (Milano, Bompiani, 1943); Joris Karl Huysmans, Controcorrente oppure A rovescio (À rebours) (Milano, Gentile, 1944); Stendhal, La certosa di Parma (Torino, Einaudi, 1944); Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, Le diaboliche (Milano, Bompiani, 1945); Euripide, Il ciclope (Genova, Editrice ligure Arte e Lettere, 1945); Gustave Flaubert, Tre racconti (Milano, Bompiani, 1945); Guy de Maupassant, Il porto e altri racconti (Milano, Bompiani, 1945); Villiers de l’Isle-Adam, Storie insolite e Racconti crudeli (Milano, Bompiani, 1945); Jules Supervielle, La figlia del mare aperto (Milano, Gentile, 1946); Honoré de Balzac, La pelle di zigrino (Torino, Einaudi, 1947); Eschilo, Prometeo incatenato (Milano, Bompiani, 1949); Henry Poulaille, Pane quotidiano (Milano, Mondadori, 1949); Roger Martin du Gard, Les Thibault (Milano, Mondadori, 1951); Émile Zola, Germinale (Torino, Einaudi, 1951); Euripide, Alcesti (Milano, Bompiani, 1952); Julien Green, Varuna (Milano, Mondadori, 1953).
Le traduzioni di Sbarbaro erano anche al centro del suo lavoro di professore, come testimoniano questi interventi del suo “allievo” Carlo Bo: «Quel timido professore di greco cominciò a spiegare o meglio a tradurre parola per parola l’Antigone con gusto e con una specie di mania per l’esattezza, soltanto alla fine del verso e della frase passava a un altro compito e di colpo sapeva ricreare davanti ai nostri occhi un mondo insospettato di poesia. Nessun accenno a interpretazioni estetiche (in quel tempo di gran moda)» (Bo 1955); «Anche come professore, Sbarbaro non sembrava rispettare le regole del giuoco. Entrava in classe rapidamente, saliva in cattedra e subito cominciava a tradurre e a commentare Sofocle. Metteva nel suo lavoro quello scrupolo, potrei dire quel puntiglio che portava in tutte le cose della sua vita» (Bo 1967); «Traduceva l’Antigone, la traduceva parola per parola, senza mai permettersi il minimo tratto di quel regime che allora andava di moda dell’analisi estetica» (Bo 1988).
Come svago… benedico: Sbarbaro afferma di essere «fuori di tutto» e di ricevere le notizie in ritardo, ma questa dimensione, a volte rivendicata (ad Alceste Angelini in una lettera del ’64: «Che fortuna, la mia, di non aver niente a che fare col mondo dei letterati militanti!», LAA, p. 37, [4 marzo 1964]), lo stringe alla sua terra, la «nostra ‒ cara Liguria» (con questo aggettivo possessivo fa leva sulla medesima appartenenza territoriale degli scriventi. Il più giovane era infatti nato in una casa di via Umberto I a Le Grazie, un comune di Portovenere, provincia di La Spezia nel 1924; il più anziano invece a Santa Margherita Ligure nel 1888). Anche Giudici in Il nostro coetaneo Sbarbaro (Appendice), riconosce nei versi sbarbariani l’evocativa lingua comune ai due poeti: «Un’altra cosa vorrei aggiungere, troppo personale forse, per questo poeta della mia Liguria, io che dalla Liguria vivo lontano da così tanti anni da correr rischio di dimenticarla. Mi sembra che questi versi di Pianissimo siano ancora più belli quando li ripenso o ridico tra me nella cadenza e nell’accento del nostro dialetto» (cfr. Appendice).
La Liguria, perimetro entro il quale Sbarbaro consumò pressoché la sua intera esistenza, venne raccontata dal poeta in diversi luoghi della sua produzione letteraria. Spesso, nei testi, si fa chiara l’antitesi tra l’alienazione della città, il deserto della dimensione minerale, e la brama della pace della vita vegetale, come nel celebre passaggio di Trucioli: «Ormai somiglio a una vite che vidi un dì con stupore. Cresceva su un muro di casa nascendo da un lastrico. Trapiantata, sarebbe intristita. Così l’anima ha messo radice nella pietra della città e altrove non saprebbe più vivere. E se ancora m’avviene di guardar come a scampo ai monti lontani, in realtà essi non mi parlano più» (OVP, p. 129).
La passione per le cose semplici della natura, insignificanti ai più, fecero di Camillo Sbarbaro uno dei più grandi lichenologi del suo tempo (si vedano dunque: Lavinia Spalanca, I fiori del deserto. Sbarbaro tra poesia e scienza con testimonianze inedite, a cura di Paolo Modenesi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2008 e La dorata parmelia. Licheni, poesia e cultura in Camillo Sbarbaro (1888-1967). Atti del convegno “La dorata parmelia”. Brescia 29 febbraio-1 marzo 2008, a cura di Giuseppe Magurno, Roma, Carocci, 2011). Questo intervento di Carlo Bo esemplifica al meglio il rapporto che intercorreva tra il poeta e la dimensione naturale: «Sbarbaro non esce mai dal dolore e le rare volte che ci riesce nella contemplazione degli aspetti minimi e segreti della natura non dimentica mai quella che è la sua condizione: non commette nessuna violenza contro la natura, al contrario si mette al di sotto della natura in una posizione di umiltà (secondo l’etimo più stretto) con la speranza di trovare una compensazione all’idea di disordine, di dolore e di violenza che lo ha colpito immediatamente» (Carlo Bo, Com’era Sbarbaro, in Atti del convegno nazionale di studi su Camillo Sbarbaro. Spotorno 6-7 ottobre 1973, Genova, Resine-Quaderni liguri di cultura, 1974, pp. 8-9).
I riferimenti ai licheni costellano i carteggi sbarbariani oltre che diversi punti della sua opera; si prendano ad esempio i seguenti passaggi: «Certo che alla Nena (se anche con un po’ di soggezione, sapendo che ora è maestra) certo che le avrei fatto vedere i licheni; i quali sono “montati” in buona parte come si montano i diamanti; il pericolo piuttosto era quello che una volta cominciato non la volessi più smettere; come fa il suonatore d’organo: due soldi bastano per farlo “attaccare”, ma ci vuole una lira per chetarlo» (Camillo Sbarbaro, Il bisavolo. Lettere a Tilde Carbone Rossi, a cura di Domenico Astengo, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 20, [inverno 1942-1943]); «Ma la novità più bella: un giovane lichenologo cecoslovacco m’annuncia l’invio d’una grossa collezione di licheni» (PPC, p. 90, 6.4.1957); «Grazie a Susannetta dei licheni; dille che quello nero, minuto, che fasciò a parte, sarà probabilmente l’Omphalaria Suzannae» (Ivi, p. 102, 9.11.1957); «Ti confermo che il lichenino di Susannetta è nuovo; il suo bottino d’altri licheni invece troppo frammentario per conservare alcunché. Si sarà ricordata (se mai l’ha saputo) che sono un frammentista. Quello nuovo, era, per la sua piccolezza, inframmentabile. Ringraziamela» (Ivi, p. 104, 4.12.1957); «Scrivo qc., faccio escursioni botaniche di una due ore e qualche volta mi par d’essere l’ultimo (!) abitante del paradiso terrestre. Oibò!» (Ivi, p. 113, 24-1-59).
Ma si legga anche questa testimonianza di Gina Lagorio: «Quando apriva i suoi pacchi, con occhi ridenti e gesti di una premura attentissima, a ogni lichene che mostrava come un fedele celebra la grandenza del Creatore, aggiungeva precise determinazioni scientifiche; e così, se gli capitava, in una lettera, di accennare a un lichene, generico per me, come per i più; non per lui, che puntigliosamente gli forniva una carta d’identità. In una cartolina del 15 dicembre 1959, una fotografia della torre saracena di Spotorno, così mi scriveva: “in umbra huius turris raccolsi nel ’51 la Rinodina Conradi per la seconda volta; la prima, fu all’Olivetta di Arenzano l’anno …? (Dai miei ricordi storici)”. A poco a poco non ci fu amico che non seguisse il poeta in questo suo amore: d’altra parte, egli stesso non era avaro d’inviti: nella lettera a Oscar Saccorotti, che figura in Scampoli, ma che apparve prima come prefazione al Catalogo di una personale del pittore, a Genova, e che Sbarbaro pubblicò in Circoli, si legge nella parte finale, espunta nel volume: “A Fausto dì se può raccogliermi ancora un po’ del lichene sulfureo sassicolo di Ruta. Le dimensioni delle spore lasciano sperare una specie nuova. Pertusaria Fausti? Ciao. Sta vispo e sano. P.S. L’altro del pacchetto non è un lichene. È una bryacea. Grimmia leucophea, in cattivo stato”» (SC, p. 334). I licheni sono anche oggetto, ad esempio, di questa lettera sbarbariana a Lucia Rodocanachi: «non meno sono contento dei miei licheni che sto montando neanche fossero diamanti. Pare che in detta montatura io riveli delle qualità pittoriche (scelta dei colori, inchiostri, tipi di carte e di carboncini ecc.) perché Lello ha parlato davanti ad una Cladonia della Florida (pel modo ch’era presentata) di.. Donatello. Io rido ma sarei pronto a difendere questo punto di vista. Nelle feste passate a Solaia, Elena fece un’esposizione, in un’ora di sole, dei campioni (da me speditegli) di tali licheni e l’entusiasmo fu rumorosissimo tra i numerosi ospiti; si disputavano la lente promettevano di mettersi a raccogliere ecc. Come vede non mi manca più nulla per passare nel numero dei beati» (Carla Peragallo, Tra fragilità e illuminazioni: le lettere di Camillo Sbarbaro a Lucia Rodocanachi, in Lucia Rodocanachi. Le carte, la vita, a cura di Franco Contorbia, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2006, p. 148).
Una sintetica considerazione sull’amore per la natura di Sbarbaro, che si riflette inevitabilmente nel suo scrivere, ci viene data da Gian Luigi Beccaria nell’Introduzione al convegno su Sbarbaro, tenutosi a Spotorno nel 2007: «[…] In questo discrimine tra vita e non vita, osserviamo che la pagina di Sbarbaro costantemente è percorsa, nonostante tutto, dalla tenera consolazione della natura, dall’incanto di fronte allo spettacolo della bellezza, di fronte al particolare minimo (lichene o filo d’erba)» (Atti 2007, p. 27).
hobby: Benedetta Centovalli scrive: «La parola hobby è collegata con una freccia a questa frase scritta lungo il margine sinistro del foglio: “in questo momento non so se si scriva così”. L’amore e lo studio dei licheni, per le “esistenze in sordina”, non fu mai un semplice “hobby”, come in apparenza o per errore fu talvolta scambiato, ma l’“inventario” di quella “minima parte del mondo” a Sbarbaro più congeniale, l’immagine speculare della sua poesia. Era questo comunque il ritratto di sé che il poeta amava dare nella sua ultima stagione, dopo il ritiro a Spotorno nel 1951» (BC, p. 256).
4.
[Spotorno, 7 aprile 1956]
Caro Giudici,
grazie della tua letterina e della poesia, che questa volta ho capita e “quindi” posso dire che mi piace (sebbene non la senta “necessaria”: ho torto?). Piuttosto il mio sempre rinnovato stupore è che si tenga al mio giudizio, quando si è letto Pianissimo e (più grave) ci si è conosciuto di persona. Io non ho nessuna attitudine critica. E poi credo che chi ha, come tu hai certamente, un suo nodo (!) o gomitolo di poesie da dipanare, non debba guardare né a destra né a sinistra e tantomeno affidarsi a giudizi che saranno sempre contraddittori1 e comunque disturbanti (anche, e magari soprattutto, se laudativi). L’unico consiglio che io posso dare a un giovane che sento “vale”, è quello di lasciarsi condurre per mano, di non mettersi problemi, di non sforzare la vena e di accettare rassegnatamente anche l’eventualità di lunghi silenzi.
Non ti dico questo perché sono vecchio: così ho sempre pensato e fatto. Quod habeo tibi do2!
Sono stato tanto contento di conoscerti; tu sei molto più buono di me, più sano e più coraggioso; e di gran cuore ti auguro più fortunato.
Mi farò dare da Barile le poesie che gli hai mandato e tu mandami quelle che farai senza scrupolo di importunarmi; basterà per questo che tu non mi chieda cioè non ti aspetti quello che non posso dare: un giudizio, al quale se tu credessi ti potrebbe mettere fuori strada.
Salutami tua moglie e credimi.
Tuo Sbarbaro3
Un bacetto al tuo caro bambino
Ti rimanderò appena letta l’«Esperienza poetica»4
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Lettera dattiloscritta sulle due facciate di un foglio molto sottile tagliato a mano lungo un lato. Busta formato C6 con indirizzo: «Giovanni Giudici | Stradale Torino 63 B | IVREA». Timbro postale di partenza: «Spotorno, Savona, 7.4.56». Timbro postale di arrivo: «Ivrea, Torino, 9.4.56»
1 contraddittori] contradditorii
2 do] d>i< corr.
3 Tuo Sbarbaro] a penna
4 Ti rimanderò… l’Esperienza poetica] a mano
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La quarta lettera del carteggio dispone di un indirizzo differente sulla busta rispetto alle precedenti, che invece venivano mandate da Sbarbaro a Roma, in via Tripolitania 195 (luogo in cui Giudici visse a partire dalla primavera del 1954). Giovanni Giudici infatti il 19 gennaio del 1956 venne assunto all’Olivetti come impiegato di I categoria e si trasferì ad Ivrea, in un’abitazione di stradale Torino 63b. Egli era addetto alla biblioteca d’azienda, ma anche e soprattutto direttore, per volontà di Adriano Olivetti, del settimanale «Comunità di fabbrica» (VDV, pp. LIX e LXII).
ci si è conosciuto di persona: È contenuto qui un riferimento al primo incontro tra i due interlocutori del carteggio, avvenuto a Spotorno a Pasqua, e dunque pochi giorni prima della stesura di queste righe, il primo aprile. Il racconto di quella giornata fu descritto da Giovanni Giudici: «Non ho mai scritto un diario, ma da qualche parte ‒ qui ‒ debbo annotare la visita che ho compiuto \ per Pasqua \ a Spotorno per Camillo Sbarbaro. Non ha libri e fa di tutto perché non se ne accumulino al di fuori della sua volontà: mi ha regalato un catalogo di licheni, dopo avermi mostrato l’erbario (per me interessante). In un primo momento si era rifiutato: “Per una ragione che capirai”, dicendo. La ragione era in Fuochi fatui; v. \ “ricevo \ la visita del letterato militante”. Mi ha detto di essere felice: contento di un giudizio della Manzini a proposito di Fuochi fatui ‒ appunto parlava di “felicità straziata” di Sbarbaro. Ha rinunciato a tutto in cambio della libertà: è la sola, la sola cosa più grande? Siamo andati a colazione a Finale, il paese di Boine dove nemmeno un vicolo è intitolato a Boine. Sbarbaro non l’ha conosciuto, anche se fu Boine a scoprire Pianissimo. Per Montale, Sbarbaro è preoccupato del suo comportamento: “gli ho mandato ‒ dice ‒ le Rimanenze con una dedica molto amichevole, e non mi ha risposto nemmeno. Chissà? Forse è per questo?… o per questo?…” Erano cause eventuali che adduceva: tutte innocenti, o quasi. Ma devo resistere alla tentazione di una bella pagina di diario» (cfr. Giovanni Giudici, Quaderno 1954-1957, trascrizione e note di Teresa Franco, in GGFO, pp. 115-116, ma si vedano anche i contributi in Appendice, I fuochi fatui di Camillo Sbarbaro, I libri dello scrittore e Sbarbaro, la Lina ed io).Rispetto a questa pagina di diario di Giudici possiamo annotare quanto segue. La figura di Sbarbaro, che stupisce, insieme alla modesta casa, per disinvolta semplicità, è raccontata con stupore anche nei resoconti di altre visite al poeta. Si veda, ad esempio, questo frammento dell’Intervista col poeta ligure Camillo Sbarbaro (arricchita d’un suo inedito) di Cinzia Fiore del ‘56, poi inserita in Primizie 1958: «Abita da cinque anni a Spotorno (“Dal ‘51” mi dirà “ho tirato i remi in barca” e nessuno a Spotorno sa dove stia. Solo l’Adelina, la portalettere che incontro, alla mia domanda si illumina: “Ah” il professore!”. Percorso il nastro di mattoni che tra vecchie case archetti e portichetti risale l’antica “borgata Monte”, approdo all’abitazione del poeta: il secondo piano d’una casina, cui s’accede per una scaletta esterna, fiorita di gerani. Mi apre un vecchierello, sulle prime sospettoso. È lui: lo denunciano i capelli in disordine (non è Sbarbaro che ha scritto: “Un mio scolaro mi insegna che tutto, le donne, passano all’uomo ma non i capelli in disordine. Capisco adesso perché fui così poco un rubacuori.”?)» (LAG, p. 163).
La prosa di Fuochi fatui individuata nel racconto di Giudici, che inizia con: «Ricevo la visita del letterato militante» nella prima edizione dell’opera, è così leggibile in OVP (a pag. 486): «Avendogli dovuto confessare che, no, non ho il telefono, m’affretto per riabilitarmi a rassicurarlo che, sì, la macchina ce l’ho; ma non è quella per scrivere che lui intendeva. Mi aiuta a sostenere la raffica l’accenno che ha fatto a un primo treno. A che ora sarà? Vinco la tentazione, feroce, di chiederglielo; alla peggio, mi dico, gli mostrerò l’erbario; è il meglio che ho, ma ha anche la virtù, non capisco come, di abbreviare la più ostinata seduta. Non occorrerà tanto; è persona discreta: già, vedo, consulta al polso l’oriolo. Mettendosi a mia disposizione per qualunque cosa in cui possa servirmi, si alza, infatti; lo reclama altrove un impegno indifferibile: un altro filo, certo, da tendere nella ragnatela che instancabilmente tesse».
Sbarbaro dà notizia a Scheiwiller della visita in questa lettera: «È stato qui a trovarmi Giudici; molto simpatico» (LSS, p. 80, 19/4/56).
accettare rassegnatamente anche l’eventualità di lunghi silenzi: Si vedano le prime pagine di tutte e tre le edizioni dei Fuochi Fatui (FF 1956, FF 1958, FF 1962): «Scrittore, lavorai sempre a intermittenza; senza provare nelle lunghe pause velleità o rimpianti di sorta. Di non avvertire alcuna sollecitazione a scrivere, accettavo con la stessa passività con cui, avvertendola, vi avevo ubbidito. Non mi misi mai di proposito davanti a un foglio bianco; per aver pubblicato, non sentii mai d’aver contratto impegni, neppure con me stesso. Lavorai, non è quindi la parola giusta; se la frase non si prestasse a interpretazioni metafisiche, direi che scrissi sempre sotto dettatura» (Lagorio 1981, p. 320).
Il consiglio sbarbariano di accettare anche il silenzio, e quindi di adottare la sua modalità di approccio alla scrittura, si posiziona agli antipodi rispetto alla risposta di Saba all’invio di alcuni componimenti da parte di Giudici (si vedano le note alla lettera 1).
Quod habeo tibi do!: È un insolito prestito dagli Atti degli apostoli 3-5, in cui si racconta di Pietro che non potendo fare l’elemosina allo storpio presso l’entrata del tempio con oro o con argento, si premurò di dargli solo quello che possedeva: la guarigione nel nome di Cristo. Ecco un’altra dichiarazione di umiltà da parte di Sbarbaro che affermava di poter dare solo il poco che gli è possibile, ossia qualche consiglio da «vecchio» privo di qualsiasi attitudine critica. Il poeta era solito elargire questo tipo di raccomandazioni ai suoi più giovani interlocutori: «Consiglio = raccomandazione da vecchio: non abusare delle tue forze» (LSS, p. 80, 19/4/1956).
Mi farò dare da Barile…: «Angelo fu negli anni di liceo l’amico che supponi, ma per il resto della vita fu il compagno di scuola, non di più. […] Il compagno di scuola che mi volle più bene, quello che sempre stimai ma non l’amico in senso proprio, mio» (LG, p. 110): in questo modo Sbarbaro definiva Angelo Barile, l’amico con cui nutrì un’importante corrispondenza e con cui, si rileva da questa missiva, anche Giovanni Giudici scambiava delle lettere. Nella comunicazione tra Sbarbaro e Barile entravano spesso in gioco Giudici ed i giovani poeti che in quel periodo stavano riabbracciando e rivalutando la figura sbarbariana: «queste ultime lettere mostrano un fitto interscambio con altra coeva corrispondenza già nota di Sbarbaro, quindi con notizie e confidenze anche ad altri espresse, in modo analogo o con variazione, e di conseguenza illustrano il vecchio Sbarbaro molto attivo nella scrittura dei Fuochi fatui e molto attento ai suoi lettori e critici, in una più salda volontà di elaborare e variare infinitamente il proprio autoritratto come scrittore, corroborato dall’ammirazione crescente dei giovani che andavano prediligendo il primo ‘900 rispetto alla dominante ermetica. Così nelle missive a Barile rimbalzano più volte ‒ oltre l’amatissimo Vanni, editore minorenne ‒ i nomi di Squarotti, Giudici, Caproni, Pasolini e Guerrini, ed in molti casi si allegano le stesse lettere dei giovani ammiratori» (Verdino 2019, p. 25, ma si veda anche PPC).
L’amico Barile fu dedicatario di Cartoline in franchigia, libro pubblicato dalle Nuovedizioni Enrico Vallecchi nel 1966, e «nato interamente sotto il segno dell’amicizia» (Davide Puccini, «Cartoline in franchigia»: trasfigurazione di un’amicizia,in Atti 2003, p. 91). La dedica così recita: «A Angelo Barile | che mi volle bene nonostante tutto, | queste lettere che affettuosamente conservò». All’interno dell’opera stessa Sbarbaro parla del merito di Angelo Barile di aver salvaguardato le carte che gli erano state affidate tempo prima: «Devo all’amicizia la sorpresa di pubblicare alla mia età un libretto giovanile. Congedato, affidai a Angelo Barile, l’amico cui avevo frequentemente scritto prima e durante la guerra, la mia corrispondenza dal fronte a casa, per salvaguardarla dal rischio più che probabile che in mia mano andasse distrutta […]. Angelo ripose il pacchetto senza aprirlo e solo al momento giusto lo ritrovò; di averglielo dato in custodia m’ero io stesso del resto così bene scordato che, presentatasi l’occasione di accontentare il più generoso dei miei Editori, non m’ero nemmeno chiesto come mai di tante lettere alla “cara gente” non fosse rimasta traccia» (CF, p. 73).
Salutami tua moglie…: Marina Bernardi, sposata con Giudici dal 7 ottobre 1951; il bambino a cui si dà il «bacetto» nei passaggi conclusivi è Corrado Giudici, primogenito dello scrittore, nato il 21 dicembre 1952.
Ti rimanderò appena letta l’Esperienza poetica: Giovanni Giudici scrisse sul penultimo numero di «L’esperienza poetica» di Vittorio Bodini, inviato a Sbarbaro, una recensione intitolata Cartoline di Roma riguardante l’ultima opera di Luigi Capelli pubblicata quell’anno con All’Insegna del Pesce d’Oro («L’esperienza poetica», II, 07/08, luglio-dicembre 1955, pp. 69-71). Poche pagine dopo la recensione di Giudici trovò inoltre spazio una recensione di Luciano Luisi su La stazione di Pisa (Ivi, pp. 73-74). L’invio del giornale a Sbarbaro disponeva dunque probabilmente di un duplice invito alla lettura.Anche il numero successivo, ed ultimo, della testata diretta da Bodini, vide la partecipazione di Giovanni Giudici con Il pregiudizio antilirico nella sezione intitolata «Saletta» («L’esperienza poetica», III, 09/11, gennaio-settembre 1956, pp. 66-69).
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21.
[Spotorno, 25 ottobre 1956]
Caro Giudici,
nel ricordo la troviamo così sciocca la mia ultima… ma affettuosa, come dici, questo certo.
Ho ricevuto, sì, quella rivista che è poi quella che m’era stata mandata tanto tempo fa dall’editore; cambiata, solo la copertina, il titolo che era: «Liguria». Un buffo tipo pasticcione di editore, che dispone a suo talento della roba altrui, con un’innocenza che disarma. Mi dicevo: «intanto, i suoi periodici [perché ne stampacchia parecchi] non escono da Savona». Vedo che non è così, ma che fare contro chi è convinto di onorarti?
Così quel foglio romano «IDEA» di cui ignoravo l’esistenza. Spero che non ti arrivino (ma ti arriveranno) le 3 (tre) puntate capassiane che seguiranno a quelle che deplorasti: così saccarinose che mi vennero1 in bocca i versi di Dante per Taide la puttana.
Non potei ringraziarlo come il galateo vorrebbe; gli indicai solo alcuni errori di interpretazione «per la Storia». Oltreché di sfrenato arrivismo, il povero Aldo mi pare affetto da infantilismo – e2 sarebbe una attenuante. Mi fa pena comunque, per cui3 non mi sento d’infierire; è troppo cieco, malatissimo; e forse, come si dice, meno gramo di quel che appare. Barile ha trovato (ed anche tu), nella prima puntata almeno, che qualche osservazione era azzeccata. Anche qui, che fare contro chi crede di onorarti, s’anche a proprio profitto?
Il Taormina pare si prospetti favorevolmente, grazie alla Regia, specie a quel miracolo di figliolo che è Vanni. Contrario, ad oggi, (e in modo quasi offensivo) solo il Ravegnani.
Ti duoli o ti rallegri dell’impaginatura; come sei giovane caro Giudici! Invidiabilmente. Lo vedo anche dalla facilità in cui frani e in questo riconosco me alla tua età (la tua ultima sa davvero di pioggia e di domenica.) Anche questo, che non è un “particolare” mi conferma del tuo valore.
Abbiamo scritto (in due) a Vanni di venire, finiti gli esami; anche lui l’ha mezzo promesso. Cercate di venire insieme.
Quando mi scrivi, quella variante mandamela. Per mio uso. Può essere uno dei passaggi in cui mi impuntai.
Non ti caricare di rimorsi se ti svaghi; io non ho fatto (o cercato di fare) quasi altro; le ore di dissipazione4 le ho trovate5 le più proficue e sono6 certo quelle che oggi ricordo con conforto7.
Protesta ma è così.
T’abbraccio
Sb.
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Lettera manoscritta sulle due facciate di un foglio molto sottile tagliato a mano lungo un lato. Busta formato C6 strappata sul lato destro, con indirizzo: «Giovanni Giudici | stradale Torino 63 c | Ivrea | (Torino)». Timbro postale di partenza: «Spotorno, Savona, 25.10.56». Timbro postale di arrivo: «Ivrea, Torino, 26.10.56»
1 vennero] preceduto da >xxxx<
2 e] spscr. a >xxxx<
3 per cui] spscr. a >xxxx<
4 dissipazione] spscr. a >abbandono<
5 trovate] preceduto da >xxxx<
6 sono] agg. in linea
7 conforto] preceduto da >xxxx<
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Un buffo tipo pasticcione di editore: Altre prose di Sbarbaro uscirono per opera di Silvio Sabatelli: Verezzi ̶ Spotorno («Liguria», XXIII, n. 2, febbraio 1956, p. 7); Io, Godardo, re dei ghiottoni (Ivi, XXIII, n. 4, aprile 1956, p. 8); Tre prose (Ivi, XXIII, n. 9, settembre 1956, p. 8).
Il poeta, probabilmente desideroso di ricevere i numeri della rivista in cui aveva pubblicato, incontrò l’editore innocente che «dispone a suo talento della roba altrui», nel febbraio del 1957, come rivela questa lettera a Barile: «Venerdì incontrai anche il Sabatelli ma non mi disse che la tua era uscita su Liguria né sinora la ricevetti. Dispone come crede, senza informarmene nemmeno dopo» (PPC, p. 85, 18/2/57). Sbarbaro riuscì poi finalmente ad ottenere quei fascicoli: «Sabatelli m’ha poi mandato quei numeri; grazie, con grande ritardo, del “cappelletto”» (Ivi, p. 87, [1.4.1957]).
Qualche anno prima della nascita del mensile «Liguria» (nel 1934), Silvio Sabatelli fondò inoltre l’Istituto di Propaganda per la Liguria, con il fine di promuovere varie pubblicazioni sulla regione.
Con quel foglio romano…: «Idea» (con sottotitolo mensile di cultura e politica sociale) fu una rivista di letteratura, arte e scienza fondata e diretta da mons. Pietro Barbieri ed in seguito da Giuseppe Lucini, con sede a Roma. Iniziò le pubblicazioni nel 1945, per concluderle nel 1998. Il giornale, di ispirazione cattolica, ebbe tra i suoi più eminenti collaboratori Luigi Einaudi e Jacques Maritain. Su questa testata Pier Paolo Pasolini pubblicò lo scritto Tema per Sbarbaro (in «Idea», n. 41, 14 ottobre 1951; poi in Portico della morte, a cura di Michele Gulinucci, Roma-Milano, Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini” – Garzanti Editore, 1988, pp. 57-59; poi in Saggi giovanili, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, vol. I, pp. 398-401).
Un lungo articolo di Capasso su Fuochi fatui e Rimanenze, fu pubblicato su «Idea» in tre puntate (16 e 23 settembre, 7 ottobre 1956) e non in quattro, come sostenuto da Sbarbaro in questa lettera a Giudici e nella comunicazione a Scheiwiller del 15 ottobre 1956 (si veda la nota alla lettera 19).
Taide è un personaggio nato nell’Eunuchus di Terenzio, ripreso dal De amicitia di Cicerone e giunto poi a Dante e a Borges. Nella Commedia Taide è punita tra gli adulatori nell’Inferno, ed i suoi versi, contenuti nel canto XVIII (all’interno dunque dell’VIII cerchio delle Malebolge), sono i più volgari di tutta la cantica: Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», / mi disse «il viso un poco più avante, / sì che la faccia ben con l’occhio attinghe / di quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose, / e or s’accoscia e ora è in piedi stante / Taide è, la puttana che rispuose / al drudo suo quando disse “Ho io grazie / grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”». La comparazione delle recensioni di Capasso con questo passo dell’Inferno dantesco, è chiaramente indice di un’interpretazione adulatoria delle mosse del critico da parte di Sbarbaro, che non cela in alcun modo nella lettera a Giudici la sua spinta antipatia per quel modo di fare ruffiano, suscettibile di atroce punizione, quantomeno nell’immaginazione.
Il Taormina: Sbarbaro partecipò nel 1956 al premio Taormina su sollecitazione e con pieno appoggio di Vanni Scheiwiller, che in questa fase si stava muovendo per comprendere le reali possibilità di vittoria dello scrittore. A metà ottobre l’editore diede buone speranze a Sbarbaro: «Caro Sbarbaro, torno domani a Milano. Sono partito ieri da Roma: tutto bene. Tutti mi assicurano che il “Taormina” è suo. (Villaroel è stato veramente un amico per lei ̶ un amico della sua poesia: e credo nessuno farebbe di più). Se tutti i diavoli dell’inferno ci mettessero la coda e il “Taormina” non fosse suo ̶ nulla è impossibile tra “letterati”, anche se Falqui sul “Tempo” di ieri lo annunciava come sicuro insieme a Supervielle ̶ c’è un’altra ottima speranza. Ma per favore SILENZIO!» (LSS, p. 111, 12/X/56).
Giuseppe Ravegnani (Coriano, 1895-Milano, 1964), critico letterario, giornalista, scrittore e traduttore. Fu redattore capo e membro del comitato di redazione del settimanale «Epoca», critico letterario per il «Giornale d’Italia» e collaboratore di numerose testate, quali «La Gazzetta del popolo», «il Resto del Carlino», «La Stampa», «Il Corriere della Sera». Diresse, insieme ad Alberto Mondadori la collana Poeti dello Specchio. Vinse nel 1955 il premio Viareggio e nell’anno successivo il premio Marzotto, sempre per la saggistica.
Ravegnani, parte della giuria del premio Taormina 1956, parve in un primo tempo contrario all’attribuzione del riconoscimento a Sbarbaro, come si evince da questi passaggi tra il poeta e Scheiwiller: «Ps. In questo momento un espresso di Villaroel, con due lettere “in visione”: una di Baldini, favorevole; una di Ravegnani (me l’aspettavo) avversa: te la compiego, per non travisarla» (LSS, p. 114, 19 ottobre [1956]); «MEGLIO spedire anche i Fuochi al “Taormina”. Sono cose nuove (per consolare il Ravegnani. Un buon uomo, debole e un po’ stupido: gli ho parlato per telefono. Mi sembra meglio disposto ̶ gli ho spiegato un po’ del “Marzotto” ecc. Ma lui è legato mani e piedi a Mondadori [Gatto, Govoni, Sinisgalli]. Grande ammirazione pei miei libretti, ecc. solo non può parlarne su “Epoca” dovendo recensire quelli dello Specchio e della Medusa. Questo il livello intellettuale…)» (Ivi, pp. 114-115, 20/X/56).
Il nome di Ravegnani legato al Premio Taormina viene fuori anche nelle lettere di Sbarbaro a Barile di quel periodo: «Conoscemmo insieme a Genova, nel tempo!, Vittore Branca, ora prof. Univ. di Padova? Ti ricorda e mi ricorda. È uno dei giudici a Taormina: favorevole (da una lettera comunicatami da Villaroel; che me ne ha comunicata pure una, contrarissima e quasi offensiva, di Giuseppe Ravegnani, il quale, naturalmente, “porta” poeti di Mondadori Gatto, Govoni e Sinisgalli) (PPC, p. 77, [24.10.1956])».
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30.
[Spotorno, 10 maggio 1957]
Caro Giovanni, vedo dalla tua che sei a terra e me ne rallegro; nella mia esperienza, queste “frane” sono la prova dell’autenticità di una vocazione. Non ti proporre di “cambiar strada”, non fissarti itinerari (che del resto non seguiresti): lasciati condurre per mano. Non mirare a nessun porto, lo raggiungerai anche tuo malgrado. E per superare questi periodi, inevitabili, di scoraggiamento non temere di “abbrutirti”. Li troverai ingenui, questi suggerimenti, e magari corruttori; ma non ne ho altri e l’intenzione è buona anche se sbagliata; accetta almeno questa.
Dimmi se il libro di Barile l’hai poi ricevuto; Angelo me lo chiede e vorrei rassicurarlo. Non ho visto ma gli ho segnalato la recensione di Pasolini. Se è “interessante”, non sarà spero “scialba” come quelle che il suo libro ha avuto finora (a mia conoscenza). Cordiale, ma non “critica” quella di Caproni. Purché entrasse in merito, credo che anche una stroncatura gli farebbe piacere.
Vanni mi ha scritto ieri di ritorno da Merano; come saprai, allestisce ora TRE mostre delle sue edizioncine a Milano e ne progetta una a Siracusa; digli anche tu che non si ammazzi con queste che lui stesso chiama “faticacce”; non ha un fisico da atleta. Della vita che fa anche suo cognato mi è parso preoccupato.
Ti avrà forse stupito che nell’ultimo nostro incontro io non ti abbia come le altre volte abbracciato; perché non pensi male, ti anticipo un fuocofatuo (che non so se uscirà; nella collaborazione al «Mondo» prevedo una lunga pausa); questo: “Violento contro natura, il vecchio che chiede al giovane il contraccambio del tu. Deferenza: cordone sanitario.”
Tanti auguri a Marina per le sue vacanze; te e Forti vi aspetto.
tuo
aff Sb.
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Lettera dattiloscritta su due facciate di un foglio molto sottile tagliato a mano lungo un lato. Busta formato C6 con indirizzo: «Giovanni Giudici | Stradale Torino 63c | IVREA | (Torino)». Timbro postale di partenza: «Spotorno, Savona, 10.5.57». Timbro postale di arrivo: «Ivrea, Torino, 11.5.57»
1 di scoraggiamento] di >abbatti=< scoraggiamento
2 recensione] spscr. a >rensione<
3 stroncatura] stroncttura corr. a penna
4 ne progetta] neprogetta corr. con tratto di penna
5 giovane] di seguito a >gi<
6 cordone] d su >xxxx< a penna
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Dimmi se il libro di Barile: Tornando sulla questione del mancato invio di Quasi sereno, Sbarbaro così afferma in una comunicazione a Barile del medesimo periodo: «Giudici, quando venne, non aveva ancora (come, credo, ti scrissi) ricevuto il libro; poi è partito per Londra poi per Metz e ignoro se sia tornato» (PPC, p. 91, 9-5-57). Inoltre, nel post scriptum di tale lettera, aggiunto evidentemente in un secondo momento, si fa cenno alla lettera giudiciana di cui questa comunicazione sbarbariana del 10 maggio è la risposta: «Di Giudici una lettera oggi: non mi dice se ha poi ricevuto il libro; glielo chiederò» (Ivi, p. 92).
La richiesta fu poi realmente effettuata in questa lettera del maggio 1957. Quasi tre mesi dopo quest’ultimo scambio di notizie, Sbarbaro tornò sull’argomento, sancendo di fatto la prolungata discussione intorno allo stesso: «Non ti ho a suo tempo appunto scritto che Giudici ha avuto il tuo libro? Mi pare proprio; verificare non posso perché straccio tutto» (Ivi, p. 96, [31.7.1957]).
Non ho visto ma gli ho segnalato la recensione: Sulla recensione di Pasolini si intrattiene Sbarbaro in due lettere a Barile: «Sul “Punto” una recensione di Pasolini (al tuo libro), che mi dicono “interessante”»(PPC, p. 92, 9-5-57).«Caro Angelo, ha deluso anche me ma, venendo dall’altra sponda, non mi pare negativa. Giovanile sì e polemica, ma da Pasolini che milita nel campo avverso, mi pare già un segno di vivo interesse. I giovani che me ne hanno scritto o parlato, giudicano la recensione “favorevole”, e che le limitazioni, dovute alla “posizione” dell’autore, non tocchino il valore della poesia. (La “madeleine” di Proust la gallettina che inzuppava da ragazzo a colazione, e il cui sapore gli risuscita da grande l’infanzia.) (Ivi, p. 93, 28-5-57)». La recensione è intitolata Un poeta cattolico ed uscì su «Il punto», II, n. 17, 27 aprile 1957, poi in Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, pp. 387-388. Un passo della recensione che esemplifica il contenuto dello scritto pasoliniano, è quello che riguarda le cinque poesie della raccolta definite «piccoli capolavori funerari» e «autentici raptus di un’anima fondamentalmente debole, facile preda di una poeticità estetizzante e di un fatale conformismo» (Pier Paolo Pasolini, Un poeta cattolico, cit.,p. 388). Il passaggio che invece riguarda la madeleine di Proust, è il seguente: «per avere un’idea del procedere stilistico di Barile quasi come sul tavolo del laboratorio: “l’intermittence du coeur (pura, senza l’ausilio della madeleine) che avviene per accertata predisposizione alla relazione poetica del mondo”» (Ibidem).
Della recensione di Giorgio Caproni a Barile parla Scheiwiller in questa parte di missiva a Sbarbaro: «Ricevuto il libro da Barile: alcune cose molto molto belle. Simpatica la recensione di Caproni sulla “Fiera”» (LSS, p. 127, 15/3/57). Il contributo di Caproni si intitola Solitaria ricerca e solitaria rivelazione, ed è stato pubblicato in «La Fiera Letteraria», XII, n. 10, 10 marzo 1957, p. 3, ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Torino, Aragno, 2012, vol. I, pp. 769-771.
Un altro importante articolo sulla raccolta poetica di Barile, scritto da un già preminente recensore di Sbarbaro, è A Quasi sereno, in «Paragone», VIII, n. 90, giugno 1957, poi con varianti ed il titolo Barile, in Giorgio Bárberi Squarotti, Poesia e narrativa del Secondo Novecento, Milano, Mursia, 1961, pp. 66-70. Su tale recensione si soffermano alcune comunicazioni tra Sbarbaro e Barile: «ed hai ricevuto la recensione di Squarotti?» (PCC, p. 99, 5 settembre, ma forse5.10.1957, cfr. timbro postale); «No, non ho visto la recensione di Squarotti; né desidero leggerla, perché non capirei; annunciandomi che l’aveva mandata a quella rivista, mi diceva sì che era “limitativa” ma diceva anche che il tuo libro era molto notevole, non vedo quindi come possa essere di “condanna”. Ah le condanne e le esaltazioni dei critici!» (Ivi,p. 100, [9.10.1957]); «Caro Angelo (o “Arcade”? vedi Squarotti) Ho letto e riletto la critica su “Paragone” che a parte di restituisco; ma, come mi aspettavo, ho capito ben poco; le citazioni che la costellano (e dalle quali non ho capito come si possano ricavare quei giudizi) sono, nella lettura, le sole OASI. (per me)» (Ivi, p. 102, [9.11.1957]).
Pasolini in quell’anno scrisse anche di Sbarbaro: «Un giovane di Pietraligure m’ha portato un numero del periodico IL PUNTO con l’articolo di Pasolini che ti ricopio nelle parti essenziali. Qui accresciuto, l’articolo era già comparso su una rivista bolognese. Ci capisco così poco che spero da te LUMI. Me lo riporterai quando vieni» (Ivi, p. 83, 5.2.57). I contributi a cui Sbarbaro fa riferimento sono: Orgoglio di Sbarbaro, in «Il Punto», II, n. 4, 26 gennaio 1957, poi con il titolo Sbarbaro in Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., pp. 377-379, ed alla parte a lui dedicata in Il neo-sperimentalismo, in «Officina», n. 5, febbraio 1956, poi in Passione e ideologia, cit., pp. 470-483.
Sbarbaro, qualche giorno dopo, torna sulla recensione pasoliniana, entrando più nello specifico: «No, a Pasolini non ho chiesto chiarimenti, per principio; ma li avessi chiesti, me l’avrebbe dati nello stesso linguaggio. A differenza di Bo, credo che (per ora almeno) Pasolini non possa scrivere che così. Sono alcune p espressioni che, nella sua recensione, non capisco: per es. grammaticalità, pre-grammaticalità; abrasione ecc. ma nell’insieme ho l’impressione che non mi sia favorevole. La stessa recensione appena ritoccata, era già uscita su una rivista bolognese e cominciava: “Ma la meraviglia vera, la commozione vera è per il libretto (Rimanenze) di Sb. …”» (PPC, p. 85, 18/2/57).
Sbarbaro già in precedenza aveva tentato un dialogo con il giovane scrittore: «(Tra parentesi: sai che Pasolini, che pure dev’essere vivo se nell’anno ha pubblicato tre libri [così leggo], non ha dato segno d’aver ricevuto né il libro né la mia lettera? Ma non fiatarne con lui; se tu glielo dicessi, forse scriverebbe ed io non ne avrei più piacere.)» (LAG, p. 63, [12 aprile 1955]).
Per il rapporto tra Sbarbaro e Pasolini si veda Morando 2019.
TRE mostre: Le mostre di Vanni Scheiwiller sono argomento anche di questa lettera di Sbarbaro a Barile del medesimo periodo: «Ora Scheiwiller, l’instancabile, è indaffarato per TRE mostre delle sue edizioncine (una grossa a Milano, due piccole, una a Siracusa!! L’altra non ricordo dove)» (PPC, p. 91, 9-5-57). Nel post scriptum della medesima lettera, Sbarbaro ritorna nuovamente sull’argomento: «[Scheiwiller] Di ritorno dalla sua mostra a Merano, ne prepara 3 a Milano» (Ivi, p. 92).
Nel 1957 e nel 1958 Scheiwiller organizzò diverse mostre. Nel 1957 l’editore stampò il suo primo Quaderno d’Arte dedicato ad Ennio Morlotti, in 1000 esemplari, per conto del Centro Culturale Olivetti dalle Officine Grafiche Esperia di Milano, in occasione della mostra personale dell’artista tenutasi ad Ivrea nel gennaio di quell’anno (Novati 2013, p. 387). Al pittore Ottone Rosai Scheiwiller dedicò invece un altro Quaderno d’Arte, stampato sempre per conto del Centro Culturale Olivetti dalle Officine Grafiche Esperia di Milano, in 600 copie, in occasione delle mostre dedicate all’artista tenutesi ad Ivrea nel maggio del 1957 e a Verona nel luglio del medesimo anno (Ibidem).
Due opere su Constantin Brancusi ed Henri Gaudier-Brzeska di Ezra Pound, vennero pubblicate dall’editore per la Serie illustrata, in occasione della XI Triennale di Milano nel luglio del 1957, e nello stesso anno a Fabrizio Clerici Scheiwiller dedicò l’opera Capricci, per una piccola mostra grafica che ebbe luogo a Merano l’8 dicembre dello stesso anno (Ivi, p. 415).
Il volume di Leo Longanesi, Lettera alla figlia del tipografo, venne invece stampato in 1000 copie presso la tipografia U. Allegretti di Campi, in occasione della Mostra retrospettiva di Leo Longanesi al Circolo della Stampa in Milano, dell’11 dicembre 1957 (Ivi, p. 240).
Scheiwiller inoltre realizzò Ceramiche di Stefano D’Amico ed Emanuele Luzzati, con prefazione di Egidio Bonfante, per la mostra di ceramiche del gennaio ’58 ad Ivrea, il Quaderno di Osvaldo Licini per la sua mostra, sempre ad Ivrea, del 12 febbraio 1958 (Ivi, pp. 387-388). Il «fuori serie» Gyorgy Kepes, venne invece pubblicato in occasione della mostra dell’artista del 1958 ad Ivrea, ed il Quaderno dedicato a Felice Casorati per la mostra tenutasi sempre nella città piemontese il 4 giugno 1958 (Ivi, p. 388). Ippogrammi & metaippogrammi di Giovanola. Programmi di altri ippogrammi di Luciano Erba, è un volume che fu invece stampato dalla tipografia Antonio Maschera di Milano in 500 copie, in occasione della Mostra grafica di G.L. Giovanola alla Saletta d’arte della Libreria San Babila di Milano del 12 aprile 1958 (Ivi, p. 241). Per la mostra del 5 giugno 1958 alla XXIX Biennale di Venezia, Scheiwiller realizzò invece Wols, un’opera dedicata al pittore tedesco Alfred Otto Wolfgang Schulze (Ivi, p. 347).
A Merano poi, tra il 9 ed il 20 settembre 1958, si tenne la Piccola mostra ciclica di Ennio Morlotti, a cui Scheiwiller partecipò con un volume illustrato da lui pubblicato (Ivi, p. 416). Per ricordare il cinquantenario del primo libro di Ezra Pound, e in occorrenza della mostra delle edizioni poundiane promossa dall’Azienda Autonoma di soggiorno e Cura di Merano, che si svolse il 30 ottobre 1958, Scheiwiller realizzò A lume spento 1908-1958. Piccola antologia (Ibidem). Anche negli anni successivi l’editore partecipò a diverse mostre a Milano, Firenze, Merano e Lugano, con pubblicazioni dedicate a grandi nomi delle arti figurative.
un fuocofatuo: In questa lettera Sbarbaro anticipa a Giudici un Fuoco fatuo, affermando l’indecisione circa una prossima uscita di questo in rivista. La prosetta è così leggibile in OVP, a pagina 480: «Violento contro natura, il vecchio che chiede al giovane il contraccambio del tu. Deferenza, cordone sanitario» (come si può evincere Sbarbaro, rispetto all’enunciato della lettera, modificò appena un segno d’interpunzione).
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Per scaricare l’articolo: Camillo Sbarbaro, Lettere a Giudici
Immagine: Valentina Panarella