Giovanni Giudici – Trentarighe. La collaborazione con “L’Unità” tra il 1993 e il 1997

È da poco uscito il volume che raccoglie gli articoli di Giovanni Giudici per la rubrica de «l’Unità»: Trentarighe. La collaborazione con «l’Unità» tra il 1993 e il 1997 (Manni 2021) a cura di Francesco Valese, con un saggio di Simona Morando. Di seguito, una breve introduzione e una selezione di articoli dalla raccolta. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.


Nel nostro Novecento sono pochi i poeti che, come Giovanni Giudici, hanno saputo accostare all’attività letteraria un’intensa e proficua collaborazione a quotidiani e riviste.

Mentre si appresta a ultimare e dare alle stampe Quanto spera di campare Giovanni (1993) – la raccolta che inaugura l’ultima splendida fase della sua produzione poetica – Giudici riprende la parola su «l’Unità», un giornale sul quale non scriveva più da qualche anno ma che per lungo tempo (tra il 1977 e l’89) l’aveva ospitato. A richiamarlo è l’amica Grazia Cherchi, che dopo qualche insistenza riesce a convincere il ritroso poeta, pianificando insieme un piccolo spazio settimanale sulle pagine dell’inserto «Libri»: «avevo risposto che non avevo più voglia di scrivere sui giornali e […] che avrei potuto scrivere al massimo trenta righe», ricorderà lui alla fine di questa esperienza.

Così, forse un po’ controvoglia e senza troppo impegno, nascono i celebri «Trentarighe», destinati a diventare la più longeva e fortunata rubrica tenuta da Giudici sulle pagine di un quotidiano. Sono più di centocinquanta gli articoletti che tra il 24 maggio 1993 e il 3 marzo 1997 compaiono su «l’Unità»; due brevi colonnine che toccano i temi più vari: dai libri (classici e contemporanei, di autori affermati o appena emergenti) che riescono a destarlo dalla sua sedicente “pigrizia” di lettore, agli amici e compagni scrittori che vede andarsene attorno a sé (Fortini, Volponi, la stessa Cherchi), all’attualità politica e di cronaca che richiamano la sua penna civile e ironica, fino ai fatti privati (un’imprevista convocazione dai carabinieri, l’attesa in una sperduta stazione dei treni…). Ma soprattutto c’è tanta Poesia – quella degli altri e la propria – che fa capolino quasi in ogni «Trentarighe», tra citazioni esplicite, brevi spunti di riflessione che continuano discorsi noti o aprono a nuovi temi, e ricordi personali di tutta una vita (in versi).

Francesco Valese


25. Destra o sinistra? Piuttosto la polis

3 gennaio 1994

Sono un teleutente e teleuso quel che si può vedere e sentire. Non insensibile al fascino e alle promesse del «nuovo» che (almeno si spera) avanza, ho indugiato più del consueto sui dibattiti politici, piatto forte del video di stagione. Ed è per questo che mi sono sorpreso a riflettere sulla singolare analogia di una doppia-coppia di parole, l’una delle quali derivata dall’altra: poetica-poesia e politica-polis. Inconsciamente ho messo in prima posizione i derivati e non, come sarebbe più ragionevole, i termini da cui derivano: poesia, cioè, e polis che sarebbe, quest’ultima (per chi non avesse presente il greco) la «città», la comunità dei cittadini e, insomma, lo «stato», oggetto appunto della politica, così come della poetica è oggetto la poesia stessa intesa come invenzione, opera d’arte, conoscenza per sentimento. In prima posizione perché? Per mettere politica e poetica in prima fila sul banco degli imputati? Perché, come letterato, ritengo ozioso ragionare di «poetica» se prima non c’è la poesia? So che molti vorrebbero darmi torto, malgrado sia abbastanza consono al senso comune il non parlare di una cosa che non c’è. Ma che dire di «politica-polis»? Dopo aver «fatto il pieno» con una decina almeno di quei dibattiti, ora più temperati per fortuna da una diversa e discreta educazione, mi sono reso conto di un fatto: che i discorsi dei vari opinanti subiscono spesso una sorta di deriva in direzione dell’astratto, cioè di un «vecchio», malgrado tutto, ancora duro a morire. Che non sia proprio il «parlare», anziché il «fare», politica il fattore alienante e autocastrante? È un dubbio: sommesso, ma serio. Perché che cosa significa «polis» in questa Italia di oggi, se non persone e vita delle persone? Posti di lavoro perduti, casse integrazione, pensioni di fame per i meno privilegiati, degrado delle città, sfascio della scuola, spreco e saccheggio delle risorse, avvilimento del costume, dissesto della finanza pubblica, pirateria dei mass-media, inquinamento e devastazione del territorio e altre cose ancora. Di tutto ciò (e di altro che tralascio) in certi «dibattiti», tutti «destra» e «sinistra» e centro-che-non-c’è (e del quale sarebbe, per il momento, più saggio tacere); in certi «dibattiti» dicevo, se ne parla pochissimo. Sarebbe proprio impossibile anteporre a pretesi «discorsi sulle cose», le «cose» stesse?


61. Quelli che il «Blob»

21 novembre 1994

Non ebbi, in passato, il minimo «rispetto umano» o, detto altrimenti, non fui trattenuto da imbarazzo e vergogna nel confessare ad amici e non amici una certa mia perversa passione per «Beautiful». Lo giustificavo, soprattutto davanti a me stesso, su una curiosità per le combinazioni della trama: inventate, più che dalla mente degli autori, dai chips di un banalissimo computer. Tanto è vero che la funesta soap opera non poteva non diventare (soprattutto nell’attuale fase fininvestesca) una specie di vite senza fine: come quella «storia del sior Bontempo / che la dura tanto tempo / e che mai la no se distriga» (citata anche in una certa poesia di Zanzotto). Ugualmente non ho difficoltà (e questa volta per opposto amore di sintesi) a dichiarare la mia attuale predilezione per «Blob», che mi dispensa dal seguire, in pratica, ogni altro programma. «Blob» è l’antitesi di «Beautiful» e di ogni «beautifullismo» passato e futuro. Visto «Blob» è visto tutto, o quasi. Avrete già avuto l’essenziale, potete tranquillamente spegnere il televisore. Qualcosa del genere devono averlo già suggerito alcuni altri amici miei, rei di istigazione allo spegnimento e perciò blandamente commiserati sulla «Stampa» da Curzio Maltese in un suo, per altri versi, brillante articolo. Pazienza, resto sempre dalla parte di «Blob», pur essendo consapevole del classico rischio per il quale la «dissacrazione» può stravolgersi in «consacrazione» (quanti, del resto, non aspirerebbero segretamente a essere «blobbati»?). Viva, insomma, «Blob», che (divertimento a parte) induce anche ad altre meno gratificanti constatazioni. Se intento della trasmissione è di offrire un campionario delle stoltezze, volgarità e imposture oggi ammannite all’inerme telespettatore i suoi autori ci sono riusciti benissimo: segno probabile che stoltezza, volgarità e impostura sono le dee dominanti delle società contemporanee. «Blob» le smaschera o, quanto meno, ci prova. Che ci sia ancora è comunque un miracolo.


100. G.G. davanti ai C.C.

6 novembre 1995

Milano. Domenica, ore tredici e quindici. Quasi il deserto, fuori. Ovvero: Giù la piazza non c’è nessuno (Einaudi), tanto per ricordare il titolo dell’introvabile romanzo di Dolores Prato. Silenzio di tomba anche nel mio minuscolo appartamento all’interno del cortile. Siamo oramai al dessert quando, imperioso e ripetutamente, gracchia il citofono. «Chi è?». Risposta. «Carabinieri». Memore del famoso inizio del Processo di Kafka (Garzanti, «Grandi Libri»), dove il protagonista Josef K. viene arrestato pur senza aver fatto nulla di male, non ho mai provato particolare entusiasmo (e me ne scuso) nell’intessere rapporti personali con i tutori dell’ordine. «Desiderano?». «Consegnare una convocazione per Giudici Giovanni». «Convocazione dove?». «In caserma». Mi si apre un vuoto allo stomaco. Che cosa avrò fatto mai? Prima che eventuali sviluppi drammatici della situazione me lo impediscano, arraffo via con la rapidità di un condor i due bigné di mia spettanza, intanto che mia moglie (io sono indisposto) scende in strada a parlamentare. Di che si tratta? «Non sappiamo. Telefoni a questo numero dopo le tre». Aspetto le tre con angosciata impazienza e telefono. Cortesissimo, il maresciallo all’altro capo del filo mi domanda se per caso nell’anno 1980 io non sia stato derubato dell’autovettura «Ritmo» targata Mi eccetera eccetera. Sì, infatti: ma l’assicurazione (soggiungo) mi rifuse sollecitamente il danno. Che cosa si vuole da me? La spiegazione è che l’autore di quel furto (e probabilmente anche di qualche altro) è stato identificato e, saldati i suoi conti con la Legge, vorrebbe ora il cosiddetto «perdono giudiziale»: che lo Stato non può concedere se tutte le singole persone danneggiate dal ladro pentito non dichiarano esplicitamente di perdonarlo. «E lei cosa fa? perdona o non perdona, egregio signore?». A questo punto Josef K. tira un sospiro di sollievo. E perdona.


125. …ina e la sua luce

10 giugno 1996

In Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler (1940) c’è un episodio che non riesco a dimenticare. Ed è quando, ascoltando dalla sua cella il «Morse» carcerario di un ignoto compagno, il protagonista si accorge che in una parola è saltata una lettera. Il messaggio s’interrompe, poi riprende, si completa la frase, si chiarisce il senso: quel «soréte» era un «sorgete»… «Sorgete, miserabili del mondo!», che nel testo italiano era inteso come traduzione del famoso «Debout, debout, damnés de la terre» nel canto della (sempre) nostra «Internazionale».

Per molto tempo ho amato pensare che Koestler avesse voluto rifarsi a quel ventesimo capitolo della Certosa di Parma di Stendhal dove Gina comunica con segnali luminosi con Fabrizio

prigioniero nella torre. Anche lì c’è il salto di una lettera: «…ina pensa a te».

Koestler aveva letto Stendhal certamente assai prima di me. Salvo che adesso, alla tardiva lettura di una affascinante traduzione in versi di Ero e Leandro (Marsilio) a cura di Guido Paduano, mi trovo a riflettere come il motivo della «luce», della sua «presenza» e/o «assenza», sia un «topos» onnipresente nella letteratura d’amore. Dopotutto, anche il protagonista di Koestler (per il quale alla luce si sostituisce il suono) è in carcere per amore di un’idea. E Gina che parla di segnali di luce a Fabrizio discende (insieme a Isotta e Giulietta e altre eroine per le quali la luce è, in diversi modi, un segno linguistico) da Ero, a sua volta erede di tutta la tradizione greco-latina (per tacere di altre).

Dall’alto della sua torre, Ero accende un segnale d’amore per guidare ogni sera attraverso l’Ellesponto l’instancabile nuotatore Leandro suo sposo notturno e segreto. Fin quando: «Un aspro soffio di vento spense la lampada infida / e la vita e l’amore dell’infelice Leandro».

Ma non accontentatevi di due versi: leggetela, se potete, per intero questa felicissima traduzione (con testo greco a fronte).


Per scaricare l’estratto in PDF: Giovanni Giudici, Trentarighe

Immagine: Beatrice Zerbato, Il ford

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