Non è che dobbiamo costruire un modello a posteriori che corrisponda a dimensioni preliminari. Ma piuttosto il modello stesso deve essere dall’interno idoneo a funzionare a priori, a costo anche di introdurre una dimensione supplementare che non avrebbe potuto, a causa della sua evanescenza, essere riconosciuta dal di fuori nell’esperienza.
(G. Deleuze, Logica del senso)
Deleuze tenta di spiegare il senso come una dimensione supplementare al linguaggio che permette allo stesso di funzionare a prescindere dal contesto. Questo “genio” del linguaggio è la chiave che permette a una testualità di significarsi – darsi a un rapporto con i concetti universali nelle manifestazioni linguistiche, oltre la designazione di ogni proposizione (il filosofo intendeva come designazione il rapporto tra la proposizione e uno stato di cose esterno; come manifestazione il rapporto tra la proposizione e il soggetto che si esprime; come significazione il rapporto tra la parola e i concetti universali).
I movimenti che coinvolgono il soggetto parlante, la lingua parlata e i referenti reali – i nominati – sono incipienti. Per questo motivo è quantomeno illusorio parlare di una poesia che proceda per immagini, per quadri che fissino una diapositiva della realtà astratta dal flusso continuo. A meno di accettare che queste immagini o siano una menzogna, e allora prenderle per quello che sono, rinunciando al valore euristico intrinsecamente accluso al processo poetico, o permettere a queste immagini di muoversi nell’universo sensorio del poetico – «Assurdamente d’accordo a un tratto e gremita / Mano è la mente i cinque sensi dita» scriveva Edoardo Cacciatore.
Posti a sedere di Luciano Mazziotta è attraversato da tensioni interne che permettono di costruire e percepire tale movimento. A partire da una questione sintattica che lacera il testo fin dal titolo: siamo di fronte a un participio passato o a un sostantivo? È un sintagma verbale o nominale che si staglia sulla copertina? Il titolo torna due volte all’interno dell’opera e in entrambi i casi c’è un margine di interpretazione: la prima volta la citazione della scena finale del film di Lars Von Trier farebbe tendere verso la scelta di un sintagma verbale, ma considerando che siamo davanti a una citazione cinematografica, siamo proiettati sulle poltroncine del cinema («era quella la data prima che fossimo posti a sedere / a comporre ogni giorno la scena finale di melancholia», p. 43). Nel secondo caso siamo nella Cripta dei Cappuccini a Palermo, in cui incontriamo gli scheletri dei frati lungo le pareti, i quali giacciono come fossero stati posti a sedere, ma allo stesso tempo nella loro attesa sono dei posti a sederedi fronte allo spettacolo degli spettatori che li osservano, in un gioco di rifrazioni prospettiche che non scioglie affatto il dubbio sintattico («anche loro sono posti a sedere in attesa / anche lui il primo a sinistra dopo le scale», p. 47). Il dubbio sintattico innescato coinvolge la relazione degli elementi in campo, e in questo sliding doors grammaticale – per rimanere in ambito cinematografico – l’accezione può cambiare la postura d’ascolto con cui leggiamo l’opera.
Torniamo a Deleuze. Gli stoici – riporta il filosofo francese – distinguevano due tipi di cose: i corpi e gli effetti. I primi sono lo stato delle cose, l’asserzione di esistenza qui e ora, il presente astratto dal flusso temporaneo; sono i sostantivi e gli aggettivi, che nominano i referenti del reale e li qualificano o determinano. I secondi sono attributi incorporei, logici o dialettici, mossi dalle credenze e dai desideri dei corpi, si radicano quindi nel passato o nel futuro; sono i verbi, esprimono accadimenti. I corpi esistono, cioè sono perché hanno rapporti con altri corpi, vivono della relazione e della percezione altrui. Gli effetti insistono, cioè sono creati dal movimento interiore della volontà dei corpi.
I corpi sono statici, la nominazione non è un movimento ma un’assegnazione, conferisce un segno a un oggetto il quale è immobile finché la sua o l’altrui volontà lo porta al movimento. Così in una frase i nomi e gli aggettivi senza un verbo non si muovono, non agiscono, restano fermi. Gli effetti nascono come movimento che anima i corpi. Ma c’è un paradosso. L’esistenza dei corpi è legata alla relazione, quindi all’intenzione del movimento. L’insistenza degli effettinasce e si esaurisce all’interno dei corpi, il suo stare non è mai uno stare al di fuori, ma sempre uno stare dentro, in un punto. La fissità dei corpi si crea nella relazione, il movimento degli effetti si crea nella stasi.
Perché ci interessa questo paradosso? Il dilemma sintattico dei Posti a sedere ci mette davanti alla scelta prospettica di un corpo o di un effetto, a seconda che si decida per un sintagma nominale o per un sintagma verbale. Non c’è via di scampo. Ma neanche può esserci un’effettiva scelta: la coesistenza delle due possibilità è inevitabile e genera un’implosione della lettura che si scontra con la solidità delle strategie testuali attuate.
A partire dall’io. La sua riduzione nell’opera non è un rifiuto antilirico della prima persona, bensì un nascondimento. Non tanto del carattere lirico, quanto della necessità di costruire una voce che costituisca il perno del movimento. Il soggetto parlante è forte, fortissimo, e guida la solida struttura testuale con grande abilità. Solo non si mostra, vive nel contrasto delle figure che animano l’opera. Ne è la prova l’assenza della prima persona, contro la presenza di tutte le altre – su tutte la seconda singolare e la prima plurale che coinvolgono il soggetto in una relazione dialogica. La voce che asserisce è un racconto in cui chi legge è destinatariə direttə, come se l’io absconditus stesse fisicamente raccontando ciò che succede («in casa invece c’è quello che occorre / tre facce due parlano e l’altra / li osserva. Poi quella che osserva / inizia a parlare e l’una che prima parlava si ferma che adesso / li osserva oppure si alza»), ciò che vede («perché si odiano diluiscono le colpe nel caffè / miscelano antefatti girando il cucchiaino / prima in senso orario a consistere decenni / dopo li riavvolgono come se fosse spago»), ciò che sente («dopo lo strappo del ticket fracasso che scende / rimbomba la cripta ma è sonnolento il rimbombo. // PER FAVORE SILENZIO PER FAVORE RISPETTO / del luogo e dei sintomi e delle mummie in platea») o ciò che pensa («questo è un buon soggetto per una fotografia anzi per tre. / però incorniciate in un’unica stampa un piano sequenza // come l’esempio o il richiamo dell’evoluzione / per dimostrare che c’era»).
Ad avvalorare questo nascondimento è il componimento che apre il libro. Posto come l’antinferno prima di varcare la soglia, è solo qui che l’io compare appositamente per defilarsi. Ma proprio questo movimento rende la sua presenza così pervasiva. L’apparizione-sparizione del soggetto avviene in sordina, in una serie di undici versi lunghi (tra le 14 e le 18 posizioni) tutti accomunati da cinque cola (a eccezione dei vv. 8-9 che ne contano sei), che ritmano l’andamento, e dall’anafora insistente della congiunzione coordinante, che cala il discorso nell’incipienza continua di cui si è detto all’inizio.
e gli ospiti sono fantasmi ai lati del pendolo
e dubbi domande le nozze un altro defunto
e due sottovoce s’ignorano come gemelli
e tre chiedendo permesso si serrano in camera
e gli altri sono fantasmi ai lati del pendolo
e il pasto è abbondante ne avanza si butta discutono
e gli ospiti non li salutano gli ospiti contano
e chi si assopisce e chi resta e un uomo disteso agonizza
e fuori fa giorno c’è venere macchine primi citofoni
e uno che accede alla sala ferito ripetere
e adesso adesso sparisco sparisco anche io.
A ben vedere la scomparsa del soggetto ricorda il movimento del Montale di Riviere («come l’osso di seppia dalle ondate / svanire a poco a poco; / diventare / un albero rugoso od una pietra / levigata dal mare; nei colori / fondersi dei tramonti; sparir carne / per spicciare sorgente ebbra di sole, / dal sole divorata…»); e proprio come l’osso di seppia il soggetto di Mazziotta si arresta a galleggiare sulla superficie scrutando l’abisso, mentre il testo si fa palombaro in sua vece e scende in profondità. Altra suggestione è quella del voto di conversione di Rebora che indossò la tunica nella prospettiva «di partire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio». Non siamo certo davanti all’assassinio del soggetto, né tantomeno a un discorso fideistico, ma l’azione di polverizzarsi rende bene l’idea di una voce onnipresente eppure invisibile, se non scrutata in controluce come il pulviscolo. Questo io, che esiste solo nel suo nascondersi e si cela per esserci sempre, accompagna tutta l’esperienza di lettura.
Per di più il movimento dato dall’anafora è richiamato nel finale della raccolta: il componimento conclusivo, infatti, rovescia quello iniziale tanto nel dato uditivo che soppianta quello visivo («il risultato di un’onda sonora imprevista / un gong dall’esterno che sfibra il campo visivo»), quanto perché si costruisce su congiunzioni disgiuntive («sono i vicini che lanciano oggetti e si inseguono / oppure auto in sosta che assorbono l’urto delle altre. // o ancora ambulanze che hanno frenato di colpo / o cicche lanciate in attesa al pronto soccorso»), chiudendo su una forte avversativa che evidenzia la predominanza del suono sull’immagine e il rischio, per chi osserva, di essere ingannatə dal gioco prospettico della vista, ricollegandosi anche al gioco prospettico-sintattico messo in atto dal titolo («la luce su medea coglie solo lei che trema / ma muoiono i figli e precipita il rumore sull’immagine»). Inizio e fine creano la circolarità ininterrotta di un discorso che si vuole aperto e aprente.
Il movimento continuo scorre lungo le sette sezioni che compongono l’opera: cambiano la prospettiva, le tematiche, l’organizzazione formale, cambia la tonalità. Il movimento viene anche tematizzato: ne è un esempio il componimento che apre il Trionfo della morte, che inizia con il percorso per arrivare al cospetto dell’omonimo affresco. Non tanto il carattere ecfrastico interessa, quanto proprio la narrazione del percorso in cui la voce guida la seconda persona con una serie di verbi all’imperativo («attraversa», «arresta», «fermati», «riprendi», ecc.). Qui il movimento è tematizzato, ed è tanto un movimento fisico, quanto un movimento interiore («convinci che questo risolva il problema di esistere»), quanto un movimento formale, dato che il testo si organizza in terzine che richiamano la narrazione dantesca, pur mancando la struttura rimica.
Ma il movimento, ci insegna Lucrezio, è possibile solo grazie al vuoto entro cui agli atomi è permesso di muoversi. Oltre ai movimenti e alle pause interne ai singoli componimenti, entro la macrostruttura dei Posti a sedere possiamo ritrovare due stasimi che arrestano il movimento. Il secondo in ordine di comparsa è esplicito: si tratta di Stillstand, un testo che costituisce una sezione a sé stante e, già dal titolo, lascia intendere la dimensione dell’impasse. Si trova tra le due sezioni più esplicitamente visive dell’opera, Case museo (che contiene il Trionfo della morte) e Piano sequenza (che rimanda alla dimensione cinematografica). Stillstand si costruisce su congiunzioni disgiuntive, il che favorisce la stasi, perché sembra voler presentare a chi legge una serie di possibilità parallele che si affastellano una sopra l’altra. Anche dal punto di vista formale Stillstand rappresenta un arresto: la volontà è quella di ricavare un calco del sonetto in cui i versi sono allungati e mettono alla prova il respiro della lettura. Gli accenti cadono sulla sedicesima posizione e, dei quattordici versi, in otto è possibile individuare degli endecasillabi dissolti nella misura più lunga. L’operazione è prettamente formale, quasi un esercizio di stile, ma calibrato molto bene nell’equilibrio macrostrutturale del libro.
Stillstand oppure un’abbreviazione di ferocia oggettiva
nonostante appaiano ancora non sradicati gli arbusti
coesiste con la calma esteriore si diceva coesiste
oppure precede qualcosa feroce avvitato al nero
ad esempio alla macchia minuscola sul nitido nitido
sfondo nonostante screpolature di segni bonifiche
si avvera oppure coesiste o si è già avverato a prescindere
dall’uso di appenderlo il quadro e farne un istante slegato
dal nero spurio figliastro oppure un incanto neutrale
ad esempio sogno d’idillio subito dopo la raffica
o subito prima gli spettri renderci avversi gli spazi
si avvera oppure coesiste o si è già avverato a prescindere
come quella frazione di buio anteriore allo scatto
stillstand oppure l’elogio del gelo perché cristallizzi.
Il secondo stasimo è incluso nella sezione Fanno spazio, una delle sezioni più dense del libro, e ne costituisce lo spartiacque. «Sognano tele di bosch quando stanno e formicolano le immagini» è il quinto di nove componimenti. Uno stacco netto rispetto all’organizzazione formale della sezione. Dal punto di vista metrico, mentre gli altri brani alludono al sonetto (tra i 12 e i 16 versi senza partizione strofica), questo consta di cinque distici. D’altra parte è l’unico testo in cui viene meno il tema portante della sezione, ossia quello dell’odio. Parallelamente i verbi d’azione che pervadono tutta la sezione («diluiscono», «disegnano», «rigano», «respingono», «escono correndo», «riprendono», «riempiono», «comprimono», «rimuovono», «decidono di aprire», «inghiottono», «sorvegliano», ecc.) sono rimpiazzati da predicati che danno l’illusione dell’azione (sottolineati), affiancati alla stasi vera e propria dei protagonisti (in neretto): «sognano tele di bosch quando stanno», «quando stanno le vite inquadrate sembra che poggino teste / a corpi di gatti», «appare normale come se fosse realtà deflagrata su un muro / che se ne avverte il riverbero appena dal posto che stanno», «è lì che le tele / somigliano a tutto senza ironia», «intasano specchi da cui anche noi ricaviamo le ombre».
Entrambi gli stasimi sono delle pause che spezzano un racconto dinamico e movimentato per enfatizzare il movimento della materia di cui l’opera si compone. Rientrano nella costruzione ritmica dell’edificio testuale che analizzeremo a breve. Per collegare è però necessario approfondire il tema dell’odio, a cui si è accennato poco fa.
Come affermato dallo stesso Mazziotta durante una presentazione del libro a Milano, il progetto originario dell’intera opera doveva essere una rivalutazione marxista della funzione dell’odio come motore della Storia, che poi si è stemperata in una macrostruttura di più ampia portata. Ma l’odio rimane elemento fondante che si impernia nella sezione Fanno spazio (al centro del libro), e si irradia al resto dell’opera. Si può parlare in un certo senso di una lirica dell’odio, ma solo a patto di considerare quanto detto sopra riguardo al nascondimento della prima persona singolare. Lo straniamento del soggetto permette di smorzare il processo di simpatia del lettorə per i personaggi mossi dall’odio. La sezione, infatti, è in terza persona plurale, scelta che crea un polo opposto al noi che domina la prima parte del libro. La prima persona plurale compare sporadicamente anche qui, collocando il lettore un punto di vista esterno all’azione.
Nell’ottica deleuziana odiarsi è un effetto, un incorporeo che nasce dalla volontà dei corpi. Ma chi sono questi corpi? La descrizione dell’odio in Fanno spazio è il ritratto della società capitalista: non è un caso che l’orientamento sia quello di una critica marxista al comportamento della borghesia. Con l’utilizzo della terza persona plurale, la voce prende le distanze da tale volontà, permettendo una riflessione distesa intorno al tema: il risultato è una poesia dai forti connotati politico-sociali, che funziona molto bene come motore dell’intera opera. La dicotomia noi-loro recupera dunque il concetto marxista di odio di classe («Bisogna invece restaurare l’odio di classe, perché loro ci odiano e noi dobbiamo ricambiare» scriveva Sanguineti nel 2007), ma nel sistema pronominale messo in atto i contorni di appartenenza sono sfumati: chi legge non può essere certo di essere incluso nell’uno piuttosto che nell’altro schieramento, e questa incertezza porta dentro il seme dell’autoaccusa, o quantomeno del riconoscimento di alcuni propri comportamenti in alcuni dei loro. Sfumatura alimentata anche dai caratteri fantasmatici con cui i personaggi sono tratteggiati, immersi in un’identità nebbiosa in cui non compare mai un nome, un genere o una connotazione precisa delle persone. Senza un corpo, dunque. Non a caso il libro si apre con l’immagine degli ospiti-fantasmi («e gli ospiti sono fantasmi ai lati del pendolo»).
Il discorso portato avanti è una riflessione generale intorno ai rituali sociali della classe borghese, alla vuotezza dei valori («intanto che si odiano disegnano spirali sulla pagina / riscaldano la penna sfregandola col foglio / e rigano anche il tavolo di legno. / ricoprono / e ricoprono e diffidano del bianco / aggiungono una specie di carattere poi un altro / ricopiano la specie di carattere poi l’altro») e all’importanza del benessere apparente («se a volte non si odiano esigono presenzi un testimone / gli chiedono a sproposito di esprimere pareri / sul benessere raggiunto a evitarsi e non ascoltano»). La terza persona plurale innesca un certo voyeurismo: tutta la sezione assume la postura di un occhio che spia dalla finestra l’interno di una casa in cui loro stanno bene attenti a mantenere un comportamento pubblico corretto, pur essendo in un contesto privato. E, tanto per non allontanarci dall’ambito cinematografico, la postura pare essere quella di Jeffries in La finestra sul cortile.
Sull’ambientazione privata, o meglio – allargando lo sguardo all’intera opera – sullo spazio chiuso, ci sarebbe poi da fare qualche considerazione. Non è un caso che molti dei libri usciti negli ultimi anni portino fin dal titolo dentro ambientazioni chiuse (mi vengono in mente, a titolo di esempio, Appartamenti o stanze di Carmen Gallo, 2016 e Tavole e stanze di Ivan Schiavone, 2019, ma l’elenco è certamente più ampio). Sembra essere una necessità della poesia contemporanea lo scavo nella dimensione privata della vita umana. Non si tratta tuttavia di una dimensione individuale, se consideriamo le implicazioni sociali che nei Posti a sedere sono chiamate in causa. Piuttosto sembra che l’intento sia quello di coniugare la ricerca di una collocazione sociale dell’individuo con il tentativo di costruire un luogo verbale abitabile per osservare e spiegare il mondo. Non basta abitarla, quindi, la parola. Bisogna saper scavare il linguaggio per costruire una struttura capace di ospitare l’abitante. Le fondamenta devono essere elastiche, oltre che solide, per resistere ai sismi, altrimenti l’edificio crolla inesorabilmente. O si sgretola nell’insignificanza.
Posti a sedere è un’opera tutta tesa alla costruzione di un luogo, un progetto prospettico. Se il sistema pronominale ripartisce il libro nelle due dicotomie io-tu e noi-loro, la macrostruttura delle sezioni sembra voler tracciare una linea di demarcazione tra una prima parte, che comprende il testo introduttivo e le prime quattro sezioni (Questo posto, Di spalle, Fanno spazioe Una data), e una seconda parte, che comprende le ultime tre sezioni (Case museo, Stillstand e Piano sequenza). L’ambientazione al centro della prima parte emerge mano a mano come una casa da distruggere o destinata a crollare: «c’è che questo spazio si regge / da sé e cade». Sono luoghi spogli, indefiniti, non del tutto illuminati, in cui spesso spicca solo un dettaglio che innesca, nella relazione con le figure, l’azione scenica. C’è una prossemica nella testualità di Mazziotta, quasi che ci si trovi di fronte a scenografie teatrali. Ma la dimensione di trasandatezza dei luoghi richiama il discorso sull’abitabilità del linguaggio. È la voce stessa che ci avverte «è questo il posto questo / il racconto concesso» (siamo all’inizio del libro), non lasciando adito a errori o dubbi: il racconto, in avvio, riguarda un luogo che deve essere distrutto per permettere la costruzione di un luogo altro e abitabile. Così la postura d’ascolto di questa prima parte appare spesso scomoda, all’insegna dell’inadeguatezza del soggetto parlante, o meglio dell’impossibilità di trovare un posto comodo in cui abitare: il mantra che torna tre volte alle pagine 13, 16 e 19 è emblematico («noi non siamo all’interno di un futuro», «noi non siamo all’interno di un presente», «noi non siamo all’interno di un passato»).
Sul discorso dell’abitabilità del mondo, attraverso il problema dell’abitabilità del linguaggio, entra in scena la questione dell’esistere, che si ricollega alla riflessione sintattica sui corpi e sugli effetti. In questa prima parte del libro l’esistenza è un discorso complesso che ruota intorno alla relazione dei corpi. Nella sezione Di spalle tutta la riflessione è riassunta nel punto di vista da cui noi guardiamo, che permetterebbe a loro di esistere.
da questo punto esatto oltre l’impaccio c’è l’impero della luce
serrande aperte e chiuse finestre aperte e chiuse
e lampadari accesi e un albero e un lago nascosto
o un ostacolo altro al portone murato.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx se è plenilunio allora
vuol dire notte d’insonnia per noi. per ore il prospetto di fronte
rimane lo stesso tra l’una e le quattro che è quando
la luce non cambia e il palazzo è davvero impero di luci.
Soltanto ogni ora si spegne una lampada si alza
una donna svestita un cane si lancia sul letto
infine in penombra s’illumina un vetro. ogni ora
come dovesse non accadere mai più. come se fosse
questo per loro esistere esistere a tratti
per l’insonnia degli altri nel palazzo di fronte.
*
ma quello che accade ci accade di spalle.
Il testo funge da ponte alla sezione Fanno spazio, che abbiamo visto incentrarsi sull’odio e sulla ritualità borghese, ma già da qui vi è un deciso invito alla riflessione sul valore dell’esistenza, oltre le convenzioni sociali che funzionano ormai come automatismi vuoti.
Altri due elementi hanno particolare rilevanza in questa prima parte del libro: la lingua e l’acqua. La lingua è di fatto la tematizzazione del discorso sull’abitabilità del linguaggio. L’immagine della lingua non è pervasiva, ma appare assieme al problema dell’esistenza e accompagna il mantra di cui abbiamo detto sopra («lingua ametista malachite corallo», «liquida lingua di ghiaccio di neve», «lingua di quarzo antracite cristallo»). L’acqua è elemento pervasivo: appare come pioggia («non è solo disordine l’ombrello che sgocciola / e inzuppa il tappeto sull’uscio e forma un rigagnolo»), ma subito si trasforma in «altissimo mare». Recuperando la tradizione dei miti sul diluvio, l’acqua è l’emblema della distruzione esistenziale (o meglio della disillusione dell’esistenza sociale, in questo caso), entra in ogni anfratto e ristagna, marcisce, accumula «poltiglia di carte / foglie di calce e residui di liquidi appositi / per galleggiarci in bottiglia le mosche le larve / e scarti di tetto: / palude». L’acqua in realtà compare solamente in tre testi della prima parte del libro, ma segna nettamente un confine dal quale la distruzione ha inizio e con essa lo svelamento dell’esistere. Infatti, dopo la comparsa dell’acqua, dopo l’allagamento, la voce ci dice che l’«aria vera è dopo i vetri ma dentro c’è un polmone che scoppia che // vuole esistere esiste». La catastrofe della distruzione permette ai corpi di aprirsi verso la relazione con gli altri corpi, di conoscere e innescare la volontà e l’azione.
la testa sul muro che sbatte
che apre una faglia nel mezzo
dei punti a contatto del muro
la fronte. che fuori dal muro
c’è il mondo si vede. E dentro
la fronte c’è il mondo si vede.
Se la prima parte del libro ritrae un luogo abitato da fantasmi e la sua distruzione, la seconda parte muove dall’esperienza della fruizione estetica per recuperare e approfondire la riflessione sull’esistenza. Prima la Cripta dei cappuccini a Palermo, poi il Trionfo della morte, infine, con Piano sequenza, una serie di presunti scatti fotografici. L’esperienza visiva diventa un tutt’uno con la cognizione esistenziale, ma la fruizione estetica serve da strumento di astrazione per innescare un discorso intimo e complesso. L’andamento sembra cercare sempre la clausola gnomica, senza però concretizzarla, perché rimane sempre un dubbio assiduo nella voce e nella testa di chi legge («i bambini meglio di no no meglio dipende / da come glielo hanno incistato il concetto di vero […] sanno questi bambini che muoiono / anche i bambini?»). Un dubbio che cerca e non trova una risposta. Il Trionfo della morte è il passaggio più denso dal punto di vista esistenziale: la voce che prima guida la seconda persona al cospetto dell’affresco, poi la interroga e addita gli errori, le incongruenze della rappresentazione che è trasfigurazione dell’esistenza. Così, come non si vede trionfo nel Trionfo, non vi è soluzione all’interrogativo sull’esistenza che assume la forma di una condanna nichilista: «allora perché / scrivere un trionfo se è trionfo del niente / se i supplici supplici restano se la tua ombra / nemmeno combacia con l’autoritratto / pittore». L’indagine sull’esistenza si risolve in un nulla di fatto, perché «tutto questo qui è spazio alterato nel raccordo», «tutto questo qui è falso», «è un incastro. Non bisognava tornarci. È lucido / il falso». La realtà ci appare solo nell’impossibilità di sciogliere il nodo. L’ultima possibilità che rimane è quella di catturarla. Infatti Piano sequenzasembra voler proprio fermare la realtà in fotografie. Ma, come si è detto all’inizio, il fermo immagine crea un problema nella riproduzione del reale: tralascia il movimento. L’ultima sezione dell’opera non è un collage di immagini che tentano di restituire la realtà, piuttosto è il tentativo di riprodurre il processo che porta alla fotografia, e in questo intento la costruzione del luogo linguistico entro cui ritrarre la realtà – con tutti i soggetti in campo e il nodo esistenziale che si è imbrigliato nel corso del libro. Tant’è che il componimento che apre la sequenza tematizza proprio noi spettatorə che diventiamo soggetto della fotografia:
questo è un buon soggetto per una fotografia.
un cinema vuoto ripreso dallo schermo
*
illuminato.
*
e non fanno fatica ad assistere. poltrone
numero lettera nomi frattanto
*
ridotti a tabù.
*
e pronunciarli
sarebbe riempire la sala di ondate di occhi
*
attratti dal bianco.
*
e ondate di occhi
su noi spettatori monocromi.
Ma tutta la costruzione metafotografica è tesa a erigere il luogo dell’esistere e a scalzare noi dal piedistallo della creazione, dell’essere delle cose esclusivamente in nostra presenza. La formulazione di tale pensiero è contenuta nel Trittico del balaustium murorum, uno dei passaggi più riusciti del libro. Il noi è decentrato per far spazio al ragnetto rosso che diviene il soggetto della fotografia. All’inizio si intravedono due dita («c’è pure due dita nel manico o potrebbe trattarsi di noi»), poi più niente, solo il ragnetto: «significa che capita al centro del rettangolo / che l’acaro-pianeta diventi una galassia // ché questo spazio esiste anche in assenza nostra». Il libro si chiude proprio sull’impossibilità di abitare il luogo, sulla sparizione degli abitanti. L’immagine è quella del finale della Medea pasoliniana con lo stretto primo piano su Maria Callas (interprete della protagonista), la colonna sonora in crescendo e l’immagine non mostrata della casa distrutta, che brucia con i figli all’interno. Al Niente è più possibile ormai – urlato da Medea appena prima del finale – sembra fare eco la citazione da Schultz posta da Mazziotta a chiusura dell’opera: «The present remains uninhabitable».
Posti a sedere, quindi, rappresenta anche l’impossibilità di abitare il mondo che viene costruito attraverso il linguaggio. Eppure l’opera ha una tessitura formale molto precisa, che sembra voler rimandare proprio alla costruzione di un edificio.
Possiamo rintracciare, entro la testualità dell’opera, quattro aspetti che rispecchiano le quattro dimensioni della relatività generale: larghezza, altezza, profondità e tempo. La larghezza è data dalla scelta dei metri che graficamente rendono il testo più ampio o più stretto. Le scelte sulla planimetria dell’edificio testuale alternano elementi di metrica italiana tradizionale a recuperi classici. In alcuni passaggi endecasillabi («in casa invece c’è quello che occorre», ), settenari («come scritte a matita / dappertutto le cimici») e novenari («la testa sul muro che sbatte / che apre una faglia nel mezzo / dei punti a contatto del muro») sono i metri più ricorrenti che scandiscono il testo, spesso sparigliati da misure meno tradizionali come l’ottonario o il decasillabo; ribattuti in versi doppi («serrande aperte e chiuse finestre aperte e chiuse / e lampadari accesi e un albero e un lago nascosto / o un ostacolo altro al portone murato»); oppure da misure esondanti come il tredecasillabo o addirittura le diciassette posizioni di Stillstand. Tale metrica accentuativa è ben riconoscibile per tutta la prima parte del libro, mentre nella seconda parte viene come incrinata dall’innesto di versi più lunghi entro cui le misure tradizionali si confondono (endecasillabi come in «tutto questo qui è spazio alterato nel raccordo», settenari in catena come in «ché questo spazio esiste anche in assenza nostra. noi»). In altri passaggi la metrica procede per cellule ritmiche, per lo più dattiliche, che creano regolarità e sincopi tra versi e porzioni di testo attraverso la fissità o lo spostamento degli accenti forti:
in casa invece c’è quello che occorre
tre facce due parlano e l’altra
li osserva. Poi quella che osserva
inizia a parlare e l’una che prima
parlava si ferma che adesso
li osserva oppure si alza
si lava le mani girata
che allora non guarda.
L’alternanza tra metrica quantitativa e organizzazione per cellule ritmiche crea un cortocircuito nella lettura: il primo verso è un endecasillabo se consideriamo la sinalefe tra casa e invece, ma se applichiamo una dialefe nello stesso punto viene rispettato l’andamento del piede anfibrachico, che regola tutta la porzione di testo. In questa oscillazione tra struttura metrica e struttura ritmica assume una particolare significanza il novenario pascoliano: costruito su anfibrachi si presta sia al richiamo della tradizione italiana, sia alla creazione, quando spezzato in frammenti dissolti nei versi, di un ritmo differente, più organico. Così il novenario sembra fungere da ponte tra la struttura metrica e quella ritmica, in un concerto diretto acutamente dall’autore.
La componente ritmica introduce la liaison dei versi in senso verticale, che costituisce la seconda dimensione della testualità: l’altezza. A questa concorrono anche i numerosi enjambement e la strutturazione strofica dei componimenti. Due in particolare sono le caratteristiche rilevanti: la forma sonetto, che viene allusa da molti testi dell’opera, e il distico, che viene spesso usato come principio ordinatore. A questi elementi c’è poi da aggiungere la rima (una rima spesso imperfetta, interna, sostituita da assonanze o quasi rime) e altre frequenti figure di suono (allitterazioni, anafore, qualche figura etimologica) che possono fungere da equivalenti nella struttura poetica.
La terza dimensione testuale è quella della profondità, che innesca però un discorso più delicato: non siamo più di fronte ad aspetti prettamente formali dell’opera, bensì all’interazione tra la macrostruttura e le tematiche attorno a cui fa perno il libro. La profondità dell’edificio testuale è da ricercare quindi in quei nuclei su cui Mazziotta erige il discorso poetico e nelle modalità con cui questi nuclei sono trattati. Recuperando quanto detto finora possiamo rintracciare l’odio come motore della storia e come oggetto di critica sociale, la questione della costruzione e dell’abitabilità del linguaggio e del mondo, il problema dell’esistere e l’apparato citazionistico (spesso di matrice cinematografica e artistica) che correda tutto il libro fin dalle citazioni messe in principio e in termine d’opera.
Ultima dimensione testuale è quella del tempo, che riguarda la gestione della variabilità ritmica nella testualità, cioè come l’edificio si modifica nel tempo. Sono coinvolti due aspetti: la punteggiatura, che è rada ma fondamentale per orientare la lettura – specie tenendo conto dell’assenza delle maiuscole; le variazioni ritmiche e le cesure, che, causando una soluzione di continuità, evidenziano le pause di lettura e danno l’idea di una continuità temporale entro cui si sviluppa il movimento imprevisto del reale.
dove la madia è poggiata su un incubo
ma ne è valsa la pena
venire a vedere
ché dentro c’è farmaci e pasta
e miele – le blatte.
*
dopo però quando l’apri
è tutto al suo posto. se c’era
qualcuno ha finto di no e allora
la sposti la madia e quell’incubo
che riga i mattoni a rettangolo
s’irradia manda scintille al soffitto.
adesso è accesa la luce. dovreste
uscire lasciare a riposo
la casa: guarda
*
c’è che questo spazio si regge
da sé e cade.
Qui il nesso endecasillabo-settenario apre il componimento, ma al v. 3 subentra un ritmo anfibrachico. Questo dura fino al v. 6, quando l’accento è anticipato e il testo procede per dattili, con le sincopi di alcune sillabe atone mancanti («e allora», v. 8) o aggiunte («che riga», v. 10). Questa organizzazione collide con l’endecasillabo di v. 11 – che non a caso si collega al v. 1 per l’accentazione di 4° e 7°, e per l’assonanza tra incubo e soffitto: il ritmo dattilico è mantenuto, ma al contempo viene ripristinata la lunghezza sillabica di partenza. I vv. 12-14 riprendono il ritmo anfibrachico fino a «guarda»: qui si apre la chiusa gnomica che viene enfatizzata dalla distensione del verso nella direzione di un ritmo piano, quasi prosastico. La punteggiatura si sovrappone alle variazioni ritmiche, alle misure metriche e alla struttura sintattica delle frasi, soprattutto laddove si incontrano punti fermi all’interno dei versi.
Il luogo costruito dai Posti a sedere racchiude quindi il paradosso di un’abitazione inabitata. Allo stesso tempo la chiusura risulta essere una proiezione all’esterno, un corpo testuale che per volontà propria diventa luogo e per volontà altrui resta inabitato. Così il dubbio sintattico di partenza racchiude l’intera identità dell’opera che è dichiarazione di esistenza di un corpo e volontà di insistenza degli effetti che questo corpo ha generato. La dialettica interno-esterno – che già dal primo Novecento aveva iniziato a sgretolarsi – qui si fa sistema di forze che implodono nel testo.
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Immagine: Bartolomeo Rossi, Islanda.