Questo saggio è uscito sul numero 17-18 (2004) della rivista «Il gallo silvestre» (pp. 117-126). Ne ripubblichiamo la prima parte.
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Queste righe sono la testimonianza dell’incontro con un romanzo, Notre-Dame de Paris, e col suo autore, Victor Hugo, avvenuto originariamente in sede di traduzione. Ne è seguito un lavoro critico che rappresenta l’esito di quel primitivo corpo a corpo, il tentativo di darne conto in altra forma, una forma diversa da quella dell’impatto esperienziale e dell’oggetto finale – il testo tradotto come analogon materiale, in altra sostanza linguistica, del testo originale.
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I
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La condizione del critico-traduttore in rapporto al testo è la stessa in cui si trova lo spettatore-lettore all’inizio del romanzo: il suo sguardo è preso in una foresta di corpi di cui non riesce a districare i nessi, i contorni. Si tratta di animati corpi verbali, che costituiscono articolati corpi sintattici, che costruiscono elaborati corpi retorici, che creano complessi corpi figurali e imaginali, attraverso corpi ritmici e corpi fonici: si è immersi in una sorta di frastuono, in un pieno, che è il fumo accecante di questo rumore semantico, sonoro e imaginale.
L’unico appiglio è la parola, intesa nel senso materiale di lemma, di stringa di caratteri, anche se è proprio dai lemmi e dal loro accostamento che si leva questo fragore sordo: particelle innocue, distratte in uno spazio instabile, lo trasformano in una galassia in espansione.
Il traduttore, à coups de dictionnaires, si aggrappa saldamente alla zattera della parola, confidando nella sua capacità di traghettarlo sano e salvo attraverso il lungo e periglioso viaggio che lo aspetta. La parola-zattera lo protegge dalla parola-maroso, che pure mantiene intatta la sua natura di parola-corrente e parola-cresta dell’onda, dando vita a una incessante staffetta in cui le zattere si alternano senza soluzione di continuità. La parola-zattera, a cui il traduttore-navigante si assicura saldamente coi canapi della grammatica e della sintassi, lo protegge dal canto ammaliatore della parola-sirena che continuamente si tramuta in flutto, maroso, corrente, cresta dell’onda e zattera provvidenziale, indispensabile al compimento di questa traversata/naufragio in cui i nessi tra un corpo e l’altro, tra l’una e l’altra forma, si spalancano in abissi di senso pronti a inghiottire. Si resta inesorabilmente in superficie.
Ma il timbro, l’impasto fonico, il ritmo non sono semplicemente miraggi che portano alla perdizione: sono ciò che la parola dice al di là di se stessa, sono il rampino dell’affectio: stella polare e maestro che guida limitandosi a esercitare il suo magnetismo indifferente.
Il traduttore si fa vuoto: limatura di ferro, a fronte di tanto potente calamita.
In altre parole: il primo ingresso nel corpo complesso del testo è dato dalla suggestione del suono e del ritmo che immediatamente si complica e da fonico si fa grammaticale, da grammaticale sintattico, da sintattico, retorico, da retorico, figurale. Il testo è il primo maestro. L’unico, supremo maestro. Gli altri – gli altri testi/gli altri maestri, le altre voci, suggerimenti, strumenti, suggestioni – sopraggiungono inevitabilmente in un secondo momento, in seconda battuta, e sempre soltanto attraverso l’appiglio – che è apertura e baratro – del testo originale, di quel primo – indimenticabile – incontro. Le figure di supporto sono evocate dalla sua guida: dal maestro del testo, dall’autore in veste di maestro. E si procede: il viaggio si allarga, diventa esplorazione di altri – per lo più insospettati – continenti.
Dall’immersione nella parola/lettura primaria ci si allontana, come un’onda di risacca, verso scaffali di biblioteche, verso altri libri e altre immagini, per trovare una risposta, un chiarimento, un filo a cui tenersi per curare il senso di smarrimento, l’eccesso di intensità, pensiero e emozione, scatenati dall’attraversamento. È questa la spinta che porta – in un pendolarismo costante tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, ma può risultare illuminante o calmante – ad approfondire l’incontro.
Ci sono due modalità di accostarsi ai testi: quella dell’abbandono fiducioso nelle loro intrinseche capacità di traghettarci dentro e oltre se stessi, di parlarci e farci parlare, costringerci a parlare; e quella della sfiducia nelle loro e nostre capacità di conduzione e comprensione. In quest’ultimo caso, presi da una smania di possesso che investe le premesse dell’azione e dell’oggetto, ci si affanna ad accumulare quante più informazioni possibili, pensando, o non pensando ma dando addirittura per scontato, che ogni testo non contenga al proprio interno la propria clavis.
La traduzione ha la virtù di tagliare questo nodo gordiano: il nudo lettore-traduttore è solo di fronte al nudo testo. Solo con un compito che non gli permette di smarrirsi nell’inarrestabile cattiva infinità.
È una forma di denudamento e abbandono totale, questo rifiuto di grimaldelli estrinseci, questo procedere passo passo, parola dopo parola, a tentoni – nel buio spesso – con la certezza incrollabile di incontrare – al momento opportuno – le chiavi che apriranno una dopo l’altra le innumerevoli porte che si innalzano a sbarrare il cammino, come fronti d’onda spaventosi, enormi. È fiducia incrollabile nel fatto che il testo sia più delle sue interpretazioni, se non altro perché, nella migliore delle ipotesi, le ha generate.
L’inabissamento del sapere pregresso – innegabilmente presente – crea il vuoto indispensabile all’epifania dello spirito del testo attraverso il suo corpo mobilissimo, sonoro e fisicamente ingombrante. L’inabissamento del sapere pregresso – l’apertura delle mani che stringono i poveri fuscelli con cui si pensa di garantirsi dai pericoli della traversata – porta a ritrovarlo in pienezza, arricchito e aumentato, sotto forma di appiglio provvidenziale, zattera, relitto, scialuppa che si profila e prende corpo nel momento del più alto bisogno: ingrandito in efficacia, sfrondato dell’inessenziale, da tutto ciò che sarebbe inutile alla realizzazione del compito – attraversamento e restituzione. Anche i tempi imposti dal lavoro di traduzione si rivelano un irrinunciabile strumento di arricchimento e spoliazione. E le mani che hanno lasciato cadere ciò che stringevano si ritrovano piene di nuovi tesori. All’apparenza semplici sassolini, alghe, gusci di conchiglia, emersi da abissi o bassure sconosciute, ma quanto luccicanti, illuminanti e perspicui alla luce rivelatrice della meraviglia.
Questa è l’esperienza originaria che precede il volo, sempre notturno e postumo, di quella nottola di Minerva che la critica. E i sassolini, le alghe, i gusci di conchiglia – ritrovati e riconosciuti a posteriori nelle parole d’altri, divenuti conferme dell’erranza in un territorio comune – sono i germi interpretativi da cui si genera il percorso secondario che viene via via delineandosi in sede critica, non secondo un ordine estrinseco, ma assecondandone docilmente le intime connessioni. Poiché ciò che trova il pescatore-traduttore – il quale deve pur sostentarsi durante la traversata – non sono semplici frammenti, a dispetto della metafora proposta, ma reticoli. Una maglia, una rete – trama e ordito – in cui, come un pesce -un pescatore pescato -, rimane invischiato, impigliato. Così tenta di liberarsene stendendola al sole, traducendola in altre parole, esponendola.
Per scaricare il saggio in PDF: Donata Feroldi – Traduzione e critica: ritmi/forme di viaggio
Immagine: Mattia Marzorati