Premessa e traduzione a cura di Letizia Imola
Pubblichiamo oggi «Vantaggi dell’esilio», un estratto da La tentazione di esistere di Emil Cioran (1956). Esistere per Cioran è «un atto di fede, una protesta contro la verità, una preghiera interminabile», «un’inclinazione» che non dispera di far propria, ma intanto è condannato alla lucidità e a «pensare contro se stesso», come in questo estratto sui vantaggi (ma soprattutto sugli svantaggi) letterari dell’esule. A discapito dell’«accumulo di turbamenti» e dell’«inflazione di crudeltà», l’inferno dell’apolide non è rinnovabile a oltranza, l’autocompiacimento esaurisce la materia. Il filosofo rumeno notomizza e critica l’esule «conformato» che si adagia nella «caduta» con stilettate di intuizioni fulminee. A pochi anni prima, con Sillogismi dell’amarezza (1952), risale infatti l’approdo all’aforisma, la forma ideale per delineare la precarietà della parola nella ricerca di una sintesi estrema. Tradurre la prosa incendiaria e graffiante di Cioran ha un interesse particolare perché la questione linguistica è direttamente legata alla sua consapevolezza esistenziale: inizialmente l’adozione del francese è dolorosa – rinnova il senso di sradicamento – in seguito si configura come la lingua più adatta poiché spietatamente analitica. In un’intervista rilasciata a Ben Amí Fihman ha dichiarato: «Ho cominciato a scrivere in francese a trentasette anni. Questo è molto importante. Non ero vecchio, ma ero nel mezzo della vita. Ho compreso il dramma di scrivere in una lingua che non è la propria e di trasformare l’atto di scrivere in un’azione cosciente».[1] Secondo Ion Deaconescu, se Cioran avesse scritto poesie sarebbe stato un grande poeta: ha persino confidato al filosofo che un giorno avrebbe trasposto alcuni suoi testi in forma di poesia per dimostrarlo.[2] Altrove Cioran affermava: «Sbagliano completamente quelli che mi attribuiscono o mi riconoscono uno ‘stile’. Io non ho stile, ho […] un ‘ritmo’. Un ritmo che corrisponde alla mia fisiologia, al mio essere; è la mia cadenza organica, il mio ansimare isterico che riesce a passare nelle frasi.»[3] E questo ritmo si è cercato di tradurre.
Emil Cioran – Vantaggi dell’esilio
A torto si immagina l’esule come qualcuno che abdica, si ritira e si eclissa, rassegnato alle sue miserie, alla sua condizione di relitto. Ad un attento esame si ravvisa in lui un ambizioso, un deluso aggressivo, un rancoroso, ma anche un conquistatore. Più veniamo espropriati, più i nostri appetiti e le nostre illusioni si inaspriscono. Si può discernere persino un qualche rapporto tra la sventura e la megalomania. Chi ha perso tutto conserva come ultima risorsa la speranza della gloria o dello scandalo letterario. Acconsente ad abbandonare tutto tranne il suo nome. Ma il suo nome, come farà ad imporlo, dal momento che scrive in una lingua ignorata o disprezzata dalla gente civile?
Si cimenterà in un altro idioma? Non sarà facile per lui rinunciare alle parole in cui si alligna il suo passato. Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra cambia identità, anzi cambia delusioni. Traditore in modo eroico, tronca con i suoi ricordi e in certa misura con se stesso.
Un tale scrive un romanzo che dall’oggi al domani lo rende famoso. Vi racconta le sue sofferenze. I suoi connazionali, all’estero, lo invidiano: anche loro hanno sofferto, forse persino più di lui. L’apolide diventa – o aspira a diventare – un romanziere. Il risultato è un accumulo di turbamenti, un’inflazione di crudeltà, di brividi antiquati. Non si può rinnovare a oltranza l’inferno, la cui essenza è la monotonia, né tanto meno il volto dell’esilio. In letteratura nulla esaspera quanto il terribile; nella vita è troppo macchiato di evidenza per attirare l’attenzione. Ma il nostro autore persiste; per ora nasconde il romanzo in fondo a un cassetto aspettando il suo momento. L’illusione di una sorpresa, di una fama sfuggente ma che dà per scontata, lo sostiene; vive d’irrealtà. Tuttavia la forza di questa illusione è tale che, se lavora in una fabbrica, lo fa con l’idea che un giorno ne sarà strappato da una celebrità tanto repentina quanto inconcepibile.
Altrettanto tragico è il caso del poeta. Rinchiuso nella propria lingua, scrive per i suoi amici, per dieci, venti persone al massimo. Il suo desiderio di essere letto non è meno imperioso di quello del romanziere improvvisato. Per lo meno rispetto a questo ha il vantaggio di poter piazzare i suoi versi nelle piccole riviste dell’emigrazione, che vengono pubblicate a costo di sacrifici e rinunce quasi indecenti. Un tale diventa direttore di rivista e per farla durare rischia la fame, si allontana dalle donne, si rintana in una stanza senza finestre e si impone privazioni spaventose e sconcertanti. Masturbazione e tubercolosi, ecco ciò che gli spetta.
Per poco numerosi che siano, gli emigrati si costituiscono in gruppi, non per difendere i loro interessi, ma per fare collette e svenarsi, così da pubblicare i loro rimpianti, le loro grida, le loro invocazioni senza risposta. Non troverete mai una forma di gratuità più straziante di questa.
Il fatto che siano buoni poeti tanto quanto sono cattivi prosatori dipende da ragioni abbastanza semplici. Esaminate la produzione letteraria di un qualsiasi piccolo popolo che non abbia la puerilità di crearsi un passato: l’elemento più impressionante è la profusione della poesia. Per svilupparsi, la prosa richiede un certo rigore, uno stato sociale differenziato e una tradizione: è intenzionale, costruita; la poesia sgorga, è diretta, oppure totalmente artefatta; appannaggio dei trogloditi e dei raffinati, sboccia sempre solo ai margini della civiltà. La precede oppure la segue. Mentre la prosa esige un genio riflessivo e una lingua cristallizzata, la poesia è perfettamente compatibile con un genio barbaro e una lingua informe. Creare una letteratura significa creare una prosa.
In tanti non dispongono di nessun’altra forma di espressione all’infuori della poesia, cosa c’è di più naturale? Anche coloro che non sono particolarmente dotati attingono dal proprio sradicamento, dall’automatismo della loro eccezionalità, quel talento in più che non avrebbero mai trovato in un’esistenza normale.
Qualunque forma assuma e qualunque ne sia la causa, l’esilio, all’inizio, è una scuola di vertigine. E alla vertigine non tutti hanno la fortuna di potervi accedere. È una situazione limite, come gli estremi dello stato poetico. Non è forse un privilegio esservi trasportato immediatamente, senza deviare per una disciplina, dalla mera benevolenza della fatalità? Pensate a quell’apolide di lusso che è Rilke, alle tante solitudini che dovette accumulare per liquidare i suoi legami, per stabilirsi nell’invisibile. Non è affatto facile essere originario di nessun luogo quando non c’è alcuna condizione esterna costrittiva. Persino il mistico raggiunge la spoliazione solo a costo di sforzi mostruosi. Staccarsi dal mondo: che abolizione faticosa! L’apolide, dal canto suo, ci riesce senza darsi da fare, grazie al concorso – all’ostilità – della storia. Né tormenti né veglie perché giunga a spogliarsi di tutto; vi è costretto dagli eventi. In un certo qual modo assomiglia al malato, il quale, come lui, si accomoda nella metafisica o nella poesia senza meriti personali, per forza di cose, grazie ai buoni uffici della malattia. Assoluto di poco valore? Può darsi, benché non sia dimostrato che i risultati ottenuti con lo sforzo superino di valore quelli che derivano dalla quiete nell’ineluttabile.
Un pericolo minaccia il poeta sradicato: quello di adattarsi al proprio destino, di non soffrirne più, di compiacersene. Nessuno può preservare il vigore dei propri dolori; si affievoliscono. Lo stesso avviene con il mal di patria, con ogni nostalgia. I rimpianti perdono il loro lustro, avvizziscono da soli e, come l’elegia, cadono presto in disuso. Cosa c’è allora di più normale che stanziarsi nell’esilio, Città del Nulla, patria alla rovescia? Nella misura in cui vi si diletta, il poeta dilapida la materia delle sue emozioni, le risorse della sua sventura, così come il suo sogno di gloria. Poiché la maledizione da cui traeva orgoglio e profitto non grava più su di lui, insieme a questa perde anche l’energia dell’eccezionalità e le ragioni della solitudine. Proscritto dall’inferno, tenterà invano di ristabilirvisi, di rituffarvisi: le sue sofferenze, troppo assennate, lo renderanno per sempre indegno di quel luogo. Le grida di cui un tempo andava ancora fiero si sono trasformate in amarezza, ma l’amarezza non si trasforma in versi: lo condurrà fuori dalla poesia. Niente più canti, né eccessi. Invano rivangherà le ferite rimarginate per estrarne qualche afflato: nella migliore delle ipotesi sarà l’epigono delle sue pene. Lo attende un decadimento onorevole. In mancanza di varietà e di inquietudini originali, la sua ispirazione si prosciuga. Ben presto, arresosi all’anonimato e come incuriosito dalla sua mediocrità, indosserà la maschera del borghese di nessun luogo. Eccolo al termine della sua carriera lirica, al punto più stabile del suo declassamento.
“Conformato”,ben comodo nell’agio della sua caduta, cosa farà dopo? Potrà scegliere tra due forme di salvezza: la fede e l’umorismo. Se si trascina dietro qualche residuo d’ansia, lo liquiderà poco per volta con migliaia di preghiere; a meno che non si compiaccia di una metafisica gentile, passatempo dei poeti esausti. Se invece, al contrario, è incline allo scherno, minimizzerà le sue sconfitte al punto di rallegrarsene. A seconda del suo temperamento offrirà sacrifici alla pietà o al sarcasmo. In entrambi i casi avrà trionfato sulle sue ambizioni come sulle sue sfortune, per raggiungere uno scopo più alto, per diventare un dignitoso sconfitto, un reprobo decoroso.
[1] L’intervista (1978) è tradotta da Vincenzo Fiore e Concetta Iannaccone ed è contenuta nel volume Emil Cioran, Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994), La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2020.
[2] Ion Deaconescu, Dacă m-as fi aruncat în Sena, Editura Europa, Craiova, 2000. Il testo riporta, in forma di conversazione, le confessioni di Cioran durante le visite di Deaconescu a Parigi tra il 1987 e il 1992. Si può leggere nella traduzione di Marisa Salzillo in Emil Cioran, Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994).
[3] E. M. Cioran, Quaderni 1957-1972, tr. it. Di T. Turolla, Adelphi, Milano 2001, pp. 367-368.
Per scaricare gli inediti in PDF: Emil Cioran, Vantaggi dell’esilio
Immagine: Orecchie d’asino