Su “Una madonna che mai appare. Una caduta” di Andrea Donaera

di Francesca Mazzotta

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Il libro di Andrea Donaera Una madonna che mai appare. Una caduta contenuto nel Quattordicesimo Quaderno Italiano di Poesia contemporanea edito da Marcos y Marcos (2019) simula narrativamente un cammino a ritroso. L’io poetico, memore dell’orrore, brama di ritornarci, chiamatone come da un conto rimasto in sospeso. Tra le pagine della raccolta di Donaera traspira cioè un fortissimo impulso alla fusione (l’ustione?) con quell’enigma che è l’io stesso ma prima, l’io prima dell’io, lasciato indietro in un tempo e in uno spazio indefiniti a distanza forse di una spanna, forse di un abisso. Inorridisce però guardarsi dentro, tentare di spalancare lo sguardo su ciò che non si nasconde (la verità, alètheia), e che allo stesso tempo non appare. Un cammino a ritroso travagliato che conduce quasi sempre allo stesso punto: a quel bruciore addosso che viene dopo la constatazione che impossibile è un aggancio, ma che il destino è approssimazione, un’adiacenza euclidea di superfici che si sfiorano soltanto, senza combaciare (“che nessuno ti è vicino / adiacente / che chiunque soltanto ti si avvicina”, recita la lirica V di La falena. Un biancore).

È un canto, quello di Donaera, vibrante e acuto, un racconto che ha a un tempo la crudezza e la crudeltà di un io che si rinnega e l’amore ostinato di chi non riesce a sottrarsi a una ricerca mossa da una speranza cieca. Il limite, l’orlo tracciato da Andrea (“dal Ventiquattro all’Uno”, confine convenzionale del passaggio d’anno che è anche drammatico presentimento della quasi-caduta), si situa tra il voler guardare a tutti costi e l’orrore di vedere, tra la memoria dell’ustione e il bisogno di rinnovarsi, ustionandosi ancora, di rinascere forma altra plasmata da altre mani. Il primo capitolo del libro (perché non di sezioni ma di capitoli si tratta, tra loro concatenati e insieme narrativamente propedeutici l’uno all’altro nonostante l’imprinting spiccatamente poetico), intitolato La terrazza. Un orrore entra subito in medias res nella forma di un excursus corale epico-familiare. È un incipit altissimo, a livello ritmico, di sostanza, nonché di intelaiatura simbolica, giacché in esso si racchiudono già tutti i cardini, tutti i nuclei che l’indagine del libro successivamente scopre e dipana. La terrazza è il luogo dove l’io sportosi fuori già vede tutto: nel tempo imperfetto della voce poetica coesistono in realtà presente e futuro, l’io si colloca già in limine tra il fuori e il dentro, tra il prima e il dopo, tra quel tutto in cui ha fame di imbattersi ancora e il niente in cui desidera seppellirsi pur di non vedere. Il polisindeto di questo bellissimo pezzo in prosa conferisce a ogni parola una musicalità marina di flusso-cantilena, spettrale, fitta di ritornelli dosati al dettaglio e carichi di liricità. Dal ricordo che rievoca delle festività natalizie trascorse in famiglia, intriso di scorci espressionistici potentissimi (l’anello finito dentro il lavandino e riemerso sporco di residui di cibo, quindi succhiato da uno dei padri per essere ripulito, la rana pescatrice, i gusci di noce sul tavolo, le carte, le monetine, il bengala che annerisce la mano di un compagno di giochi) al dipinto rosso acceso di uno scenario infernale, e religiosamente passionale, il passo è breve. Così i refrain che orientano la musica (“le nostre madri stanche”, “i nostri padri”, “eravamo in qualche modo uniti, inorriditi”) diventano termini che trascendono se stessi assurgendo di volta in volta a un archetipo assoluto: l’unione-orrore, il padre-ustione, la madre-tremore e agonia.

Il canto prosegue successivamente allentandosi un poco per mettere a fuoco una realtà primordiale sfuggente: la pietra, l’albero. Ecco che il capitolo secondo, intitolato Le pietre. Gli alberi. Un graffio schiude al lettore il senso di una transizione, di un trascorrere inchiodati (condannati) a un panta rei cosmico impercettibile (“se qualcosa qui passa / lo fa a noi inosservata – l’albero che s’ingrossa / dinanzi a un muto mutare di pietra”), fluire materico di ascendenza lucreziana che diventa, nel capitolo ancora successivo, Il padre. Un’ustione, transizione sostanziale, impolverimento e impoverimento della cosa concretamente palpata (ridotta in polvere, terra farinosa), della voce come del tu (“Comprendo cosa ho fatto / nel passare inutile del mio tempo: / un bagnare incessante / questa nostra terra. Che però secca / e può solo seccare, / al tatto decomporsi, / tra le dita farsi polvere, farsi te”).

Il padre. Un’ustione costituisce forse la carne viva del libro, il suo nervo scoperto, l’orrore riesumato. L’io poetico, tra il nostalgico e il disperato, fa costantemente cenno a una contaminazione, si definisce fisicamente un mare marcio dove il tu si bagna le mani, afferma “mi sveglio sempre spastico”, si descrive strattonato, annerito, sgretolato e infine pazientemente ricomposto dal tu stesso, ripulito, in sogno, di un residuo di gelato rimasto sul mento. L’ustione è incenerirsi nel guardarsi dentro, come avviene ancora dopo nel capitolo Il me. Un odio, secondo e ultimo pezzo in prosa del libro, complementare e in parte illuminante il primo, La terrazza. Un orrore. Pertanto il verbo che apre la prosa è “l’affacciarmi”, un affacciarsi che culmina nella visione di una cimice nel frigo: ecco il conto da pagare, l’insidia che a un tratto si infiltra e intorbidisce il freddo biancore, cimice che, si confessa poco dopo nella prosa, coincide con l’io stesso, kafkianamente – “ero io, verde di morte, caduto nel vorticare, forse tuo, forse mio, forse, caduto, nel baratro di uno zio, di una donna, di una Madonna, di Dio”.

Se il transitare lungo l’orlo, sul bordo che sporge sul baratro, si declinava prima in una temporalità cosmica e inarrestabile lucidamente contemplata, poi in metamorfosi materica invece partecipata con dolore, nell’ultima stazione del cammino a ritroso è quel fluire dove si implora di essere lasciati intonsi. L’orrore si proietta cioè sull’appuntamento estremo, riguarda tutto ciò che è primo e ultimo – il primo bacio, l’ultimo bacio, il primo ricordo, il congedo. La speranza risiede nel rifugio tra le sponde di una nicchia precisa: l’alterità che ci significa, l’altro a cui l’io camaleontico si plasma e chiede che gli sia conferita una sagoma, una forma, a sua discrezione, purché comporti minore sporcizia di prima, una purificazione (“mi anneghi e mi dai forma, forma che non sapevo […] scrosta da me questo fango, ti prego – rendimi nitido / anche questo lato”). L’occhio indietreggia appena, scova una pace: la terrazza si ritira e diviene balcone, affaccio da cui è più facile vedere senza essere osservati, e vedere quel che si sceglie di vedere – un netturbino, uno spazzino, le luci sberluccicanti di un hotel lussuoso. Un gesto rincuorante quotidiano, il rito di una mano protesa, offerta intorno al collo (“solo la tua luce azzurra di vene: un polso stretto al collo così saldo, / feroce come il groppo dell’attenderti, o come le cravatte di mio padre / che mi ostino a indossare, e tu lo sai bene questo / ostinarsi che è il mio amare”) pare infine il ritrovato allaccio, l’unica concessa congiunzione al vero.

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Immagine: Color by the Berline, Street Photography Collective

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